«Amare un essere —
scrive Gabriel Marcel — significa dirgli: “tu
non morirai”». Un essere. Proprio così
scrive Marcel: «un essere». Sarà forzare
il suo intento, e il contesto in cui il passo si trova,
interpretare questa parola nella sua nudità, senza
aggiungervi necessariamente (cosa, del resto, che lo stesso
Marcel non fa) l’aggettivo «umano»?
È una domanda che non può non porsi chi,
essendo insieme credente e amante degli animali, venga
per esempio colpito dalla dura esperienza della morte
del suo cane: esperienza tanto più dura perché
accompagnata dallo strisciante sospetto che la sofferenza
di quell’essere sia cieca e muta, priva d’ogni
possibile conforto «cosciente» e al più
fugacemente lenita da qualche carezza dell’amico
umano, insomma un vacuo e insensato precipitare in un
buio nulla ove, di quell’essere, non resterebbe
assolutamente niente.
E allora qualcosa in noi reagisce e si rivolta. Ci si
chiede se di fronte a Dio ciò sia accettabile e
ammissibile; e si giunge a pensare che un Regno finale,
una «vita eterna» in cui non vi sia anche
quell’essere non possa esser conforme al disegno
divino sulla Creazione tutta, e che forse — ebbene
sì… — forse, se quell’essere
ne fosse escluso, anche noi saremmo tentati, con Ivan
Karamazov, di «restituire il biglietto d’ingresso».
È questo un pensiero spontaneo e invincibile, di
fronte al quale ci si ritrae e si arretra quasi con timore
e paura di se stessi, come se si trattasse di un pensiero
non solo ingenuo e infantile, ma anche, in un certo senso,
irriverente e blasfemo. Eppure… eppure questo pensiero
s’impone, e l’opposizione «cosciente»
e «razionale» che cerchiamo di esercitare
contro di esso non riesce poi a scalfirlo più di
tanto: potremo dentro di noi discuterlo e ne saremo messi
in crisi, ma non riusciremo a farlo tacere. Anche se è
pur vero che colui, lo stesso, che così sente e
reagisce, e si sente intimamente combattuto, quando dopo
qualche giorno avrà cessato di piangere non disdegnerà,
per riprendersi, una buona cena con amici arricchita da
un ottimo filetto, o da un gustoso branzino, a da un succulento
pollo arrosto: i quali tutti, poiché ci giungono
già pronti nel piatto, siamo facilmente indotti
a considerar solo «cose»; del resto, il lavoro
«sporco» lo ha fatto qualcun altro, noi non
lo vediamo e siamo tranquilli.
Non c’è dubbio che questa conflittuale
incoerenza, di cui tutti noi (o, almeno, quasi tutti)
siamo in diversa misura partecipi, affondi le sue radici
nell’antico e ancestrale strabismo che da sempre
caratterizza il porsi dell’uomo occidentale e «cristiano»
nei confronti degli animali. Il fatto che con uno determinato
di essi — vale appunto l’esempio del nostro
cane, o del nostro cavallo — s’instauri un
rapporto particolare, ove è dato di sperimentare
e scoprire quali e quante affinità ed implicazioni
affettive possano emergerne, non toglie che nei confronti
della quasi totalità del rimanente mondo animale
ci sentiamo sempre e comunque autorizzati a mantenere
una disposizione che non è nemmeno più predatoria,
ma che nell’oggi è divenuta di sfruttamento
indiscriminato: dagli allevamenti intensivi per il consumo
alimentare agli orrori della vivisezione, sino alle mostruosità
degli esperimenti medici e militari. E non si tratta di
semplice barbarie «moderna», anche se, come
mostrano alcuni fra i saggi contenuti in questo fascicolo
(e ci riferiamo in particolare a quelli di Drewermann
e di Somekh),
non v’è dubbio che oggi le tecniche di uso
e sfruttamento del mondo animale in pro dell’uomo,
del suo nutrimento come della sua «salute»,
siano giunte ormai al limite dell’intollerabile.
Si tratta piuttosto di qualcosa di inscritto nel sentire
generale, quasi nell’inconscio collettivo, a partire
dall’interpretazione distorta che legge la «custodia»
e la «cura», che del mondo tutto e dei viventi
in ispecie Dio affida a Adamo nella Genesi, in termini
di «dominio». L’essere dell’uomo
«al centro» della Creazione (quello che potremmo
chiamare, in parole semplici, «antropocentrismo
buono») viene compreso come un suo essere «al
di sopra» (che è tutt’altra cosa: «antropocentrismo
cattivo»); e da questo equivoco fra «al centro»
e «al di sopra» pare che non siamo tuttora
riusciti ad uscire, e che anzi ne siamo sempre più
irretiti. E se per Aristotele l’uomo è pur
sempre animale, seppure «dotato di ragione»
(logos) — un logos che, in tanto
pensiero occidentale, dalla lettura giovannea in termini
di «unità ed accoglienza» slitta sempre
di più in quella eraclitea di «potere e sopraffazione»
—, la rigorosa e conseguente — s’intende,
a partire da tali premesse! — attribuzione al solo
uomo dell’anima chiude il cerchio: un cerchio che,
per più versi, ci sentiremmo, col linguaggio di
Moltmann, di definire veramente «diabolico».
A partire da tutto questo, e da questa particolare autointerpretazione,
che si pretende «biblica» e «cristiana»,
del «posto dell’uomo nel cosmo», si
coglie agevolmente quanto A.
Linzey lascia intendere nel suo intervento a proposito
del cartesianesimo quale lineare e coerente proseguimento
di «questo» cristianesimo. Cartesio anzi ne
trae le conseguenze più logiche e più stringenti:
gli animali non sono che macchine, automi, la loro «sensibilità»
è solo «meccanica», sono totalmente
privi del minimo barlume d’autocoscienza…
e pertanto l’uomo è perfettamente legittimato
a fare di essi ciò che meglio gli aggrada. Ed è
questa, la concezione cartesiana, quella in cui, per quanto
riguarda il nostro tema, siamo tuttora immersi e con cui
oggi continuiamo a doverci misurare; pur fra varianti,
spostamenti d’accento, differenze di sfumature,
essa è e rimane la concezione dominante, ed anzi
perfettamente funzionale a quella oggi sempre più
accentuata disposizione allo sfruttamento intensivo del
mondo animale a favore dell’uomo, con conseguenze
esiziali per l’equilibrio della biosfera e dei rapporti
nella cosiddetta «catena alimentare» (e i
relativi pericoli per l’esistenza dell’uomo
stesso) che alcuni scienziati denunciano coraggiosamente,
rimanendo però il più delle volte inascoltati.
Ciò che poi — verrebbe voglia di aggiungere
— è assolutamente paradossale se non contraddittorio,
è questo destino del cartesianesimo, non a torto
considerato da molti, sulla scorta delle illuminanti pagine
di Del Noce, come quel nuovo inizio dell’antropocentrismo
moderno che contiene in sé, implicitamente, tutti
gli sviluppi dell’ateismo contemporaneo: che esso,
su questo particolarissimo punto, coincida perfettamente
— anzi, come si è detto, proseguendola e
radicalizzandola — con l’autointerpretazione
dell’uomo occidentale e «cristiano»
quale «assolutamente altro» dal rimanente
mondo dei viventi, basata su una determinata lettura delle
Sacre Scritture: una coincidenza sospetta, per più
versi equivoca, e proprio per questo tale da richiedere
d’essere vigorosamente ripensata, proprio a partire
dalle sue pretese basi «scritturali».
Un forte impulso in direzione di tale ripensamento è
venuto, a partire dall’ultimo decennio del secolo
scorso, dalla cosiddetta «teologia animalista»,
alcuni dei cui maggiori rappresentanti hanno accettato
di essere presenti con loro testi in questo fascicolo.
È pur vero che una prima scossa era già
stata data, negli anni Settanta, dagli scritti pionieristici
di Peter Singer, come Liberazione animale e In difesa
degli animali; ma ciò che è veramente nuovo
nella «teologia animalista» — come scrive
A. Linzey nel suo contributo — sta proprio e paradossalmente
nel suo non essere un fenomeno «moderno» come
altre teologie «particolari» (teologia nera,
teologia femminista, teologia gay), bensì la riscoperta,
tardiva ma non per questo meno liberatoria, della verità
del messaggio scritturale, tanto a lungo su questo punto
travisato e forzato sulla scorta di una sua lettura «metafisica»
e «razionalistica» le cui radici sono indipendenti
da esso, che a esso anzi si è per così dire
sovrapposta, e che insiste sulla «diversità
e superiorità essenziale» dell’uomo
nei confronti degli animali. Ora, e ciò emerge
particolarmente, in questo fascicolo, dai saggi di Pedrazzoli
e di
Franzini Tibaldeo, proprio questo è un punto
su cui la teoria dell’evoluzione (così a
lungo rigettata dal cristianesimo perché incompatibile
con un’accettazione meramente letterale del creazionismo
biblico) può felicemente saldarsi con la fede,
senza la minima contraddizione: l’unità del
creato, che è tutto «buono» agli occhi
di Dio, e l’uomo come punta emergente e veicolo
del ritorno di quello stesso creato al suo Creatore, e
come tale soggetto non tanto né solo di diritti
e potere, ma soprattutto di responsabilità nei
confronti di ogni vivente.
Si tratta dunque, a partire da quello straordinario
lavoro di ripensamento e di revisione del dato scritturale
proposto già nella Animal Theology dello
stesso Linzey (1994, trad. in varie lingue), di una nuova
«teologia della carità» che non si
limita alla pur importante questione dei diritti degli
animali — problema peraltro sempre più incombente
e sentito — ma di una rifondazione teologica del
dovere e della necessità dell’amore nei loro
confronti, in nome del nostro profondissimo legame con
essi ch’è inscritto in noi umani e che solo
corrisponde al progetto sia creativo sia salvifico di
Dio. Dalla «cura» e dalla «custodia»
all’amore, dunque, coerentemente col primato di
quest’ultimo in una prospettiva evangelica e neotestamentaria:
un’istanza che comporterebbe — come mostra
anche Moltmann
in più luoghi dei suoi scritti degli ultimi anni,
nei quali il tema si afferma con sempre maggior vigore,
nonché nel saggio qui pubblicato — una profonda
revisione delle nostre abitudini di vita e fors’anche,
se non di più, della nostra etica, nel riconoscerci
infine nient’altro che fratelli degli animali (dai
quali in fondo discendiamo), figli tutti dello stesso
Dio e della stessa Terra «madre di tutti i viventi».
Insomma: dal delirio della separazione all’umile
riconoscimento dell’unità profonda che pur
sempre ci lega, uomini ed animali, in quel percorso comune
che va dalla Creazione all’Apocatastasi ove infine
«tutte le cose» — e non dunque soltanto
noi altezzosi umani, ai quali al più, come scriveva
già Schelling, può essere imputato di aver
tentato, e proprio in ragione della nostra «libertà»
e della nostra «intelligenza», di fare fallire
la Creazione — saranno recuperate e riscattate.
Tutte le cose. Tutte. Anche le mosche e le formiche
che sterminiamo con l’insetticida, anche il ragno
che alacremente lavora là in alto nell’angolo
del soffitto e che fa gridare d’orrore le donne
di casa, anche il pesciolino che il bambino nel porto
pesca per puro divertimento e senza alcun altro scopo.
È certo vero, purtroppo, che come già Leopardi
ricordava non ci è praticamente possibile vivere
senza uccidere, e che il solo fatto di passeggiare in
giardino comporta lo sterminio di un’infinità
di insetti schiacciati sotto le nostre scarpe; ma se tutto
questo è certo una manifestazione fra le tante
della presenza del male e del dolore nel mondo, è
altrettanto certo che solo un radicale ripensamento del
nostro rapporto con la totalità del creato —
e ciò proprio sulla scorta di una rinnovata e più
corretta e «umile» lettura della relazione
uomo-animale a partire dalla Genesi (su cui insiste in
particolare il saggio di L. Ferraris)
— può lenire e ridurre, se non certo annientare
del tutto, tale male e tale dolore, e risolversi in fondo,
se si sarà capaci di guardare lontano, in una migliore
speranza di vita per l’uomo stesso, in un pianeta
che la sua voracità sta sempre più velocemente
desertificando e svuotando, mettendo in pericolo concreto
infinite forme di vita. Certo, come riflette qui Drewermann
(non a caso il più borderline dei teologi
animalisti), non basta certo una vaga speranza nella divina
Provvidenza — o, peggio che mai, un’accettazione
letterale del comando divino «crescete e moltiplicatevi»
— per far venir meno l’aut aut di fronte al
quale si trova l’umanità di oggi, aut
aut che — non possiamo nascondercelo se non
in cattiva coscienza — suona in modo perentorio:
o ridurre al più presto la crescita demografica,
ed anzi inaugurare una urgente fase di decrescita, o sparire
in un mondo desertificato dove, dopo avere distrutto ogni
altra cosa vivente, l’uomo non troverà più
nulla per nutrirsi. Decrescita demografica: unica risposta
sensata ed eticamente percorribile ed adeguata in un mondo
in cui, se da un lato ogni dieci secondi un bambino muore
per fame, dall’altro un quarto dell’umanità
è già sul punto di svuotare gli oceani (ché
il ritmo della pesca è tale da non consentire più
ai pesci di riprodursi con sufficiente velocità)
e di distruggere le foreste (diminuite, come ognun sa,
di più del 50% nell’ultimo mezzo secolo)
allo scopo di produrre foraggio per gli animali da macello.
Certo, il problema è senz’altro infinitamente
più complesso – ed anche eticamente complesso
– di quanto possa essere accennato in queste brevi
note, e richiederebbe una riflessione più approfondita,
poiché il problema delle crescita demografica è
ben diverso nei paesi «ricchi» e nei paesi
«poveri» sì che non è certo
giusto addossare semplicemente a questi ultimi la responsabilità
di un fenomeno che solo l’aiuto dei «ricchi»
(e una loro rinuncia ai consumi superflui e disordinati)
potrebbe contribuire a correggere; resta comunque inaggirabile
l’intreccio causale fra moltiplicazione esponenziale
e dissennata del genere umano, distruzione delle specie
animali, invivibilità del pianeta e, circolarmente,
pericolo ad «allarme rosso» per il genere
umano stesso, incapace di comprendere che tertium
non datur, o diminuire o morire. Ancora, è
il caso di dirlo, un «cerchio diabolico»;
e ancora il richiamo jonasiano alla «responsabilità»:
quella responsabilità di cui, tornando a una retta
interpretazione della Genesi, Adamo è investito
per la «cura» del mondo e non certo per la
sua distruzione, in vista del riscatto e del ritorno finale
di «tutte le cose».
«Di tutte le cose», certo, perché
tutte risorgeranno: altrimenti il mondo non avrebbe alcun
senso, ed anzi andrebbe perduto quel «senso della
Creazione» che, come ricorda O. Clément attraverso
il saggio di Belluzzi,
è riposto nella comunanza del Logos in
tutti i viventi. Anche gli animali dunque risorgeranno?
È la domanda indagata da De
Benedetti nelle sue opere recenti (e soprattutto in
Teologia degli animali del 2008), e riproposta
qui nel suo breve intervento; è la domanda agitata
anche e ancora da Drewermann, nel suo volumetto del 1990
(tr. it. 1997) Sulla immortalità degli animali,
ove Romani 8 viene interpretato nel modo più radicale,
nell’orizzonte di una redenzione e di una resurrezione
universale. Tutto, ogni essere, verrà riscattato
e rinnovato (Giovanni); tutto, ogni essere, verrà
redento e resuscitato nell’ultimo giorno (Paolo).
Giovanni e Paolo. Sono loro, dunque, a legittimare quel
desiderio così spontaneo ma represso e rimosso;
è sulla loro testimonianza che quel desiderio,
non più sospettabile di sentimentalismo melenso
e di intimismo piccolo-borghese, può essere serenamente
formulato sapendo con certezza che non è privo
di fondamento. Possiamo dunque sperare di vivere ancora,
un giorno, insieme al nostro cane, e per sempre. Beninteso,
se ne saremo degni, perché lui, a differenza di
noi, è senza peccato. Ma possiamo sempre pensare,
in fin dei conti, che sarà lui a intercedere per
noi, e che un Dio buono non rifiuterà di ascoltarlo.