Fascicolo XXXV (2021), 3, Filosofia e Teologia: quale futuro?  

Per un Manifesto di «Filosofia e Teologia» nell’attuale contesto culturale

 

Ieri: dalla contrapposizione al dialogo

Vi sono stati anni in cui è parso primario superare steccati e avviare forme di dialogo (il dialogo tra credenti e non credenti; il dialogo di filosofia e teologia; il dialogo ecumenico; il dialogo tra comunisti e cattolici ecc.). Erano anni che venivano da esperienze di forte opposizione, un’opposizione che tuttavia aveva luogo sulla base di un terreno culturale comune, pur differenziandosi, anche vistosamente, negli esiti e nelle scelte esistenziali. Nella stagione del dialogo l’alterità fu percepita come un valore, qualcosa da interrogare e grazie a cui diveniva possibile persino approfondire e purificare la propria stessa posizione. Sul piano culturale dobbiamo riconoscere che «Filosofia e teologia» sia stata, come mostra chiaramente il suo manifesto fondativo, uno dei frutti di quella diffusa temperie, in cui con un certo entusiasmo si diffondeva nelle università italiane l’interesse per la filosofia della religione e per la stessa teologia.

 

Oggi: dal dialogo all’alleanza

Conseguenza di questa nuova stagione fu lo smussamento di molti elementi di opposizione. Per ciò che riguarda la questione religiosa, ciò ha portato a una diffusa tolleranza, la cui precondizione è stata però sovente la riconduzione del dato religioso all’ambito della privata decisione. L’appartenenza religiosa ha potuto così sfumarsi in una generica esperienza spirituale che, nella stagione della secolarizzazione compiuta, si è talora evoluta in una vera e propria forma di post-religione. All’opposizione e alla curiosità per il superamento dell’opposizione si è così sostituito un crescente disinteresse per gli elementi identitari di differenziazione, a beneficio di un riconoscimento di più o meno vaghe matrici comuni.

Ne consegue che il semplice riferimento al dialogo appaia poco pregnante, con gli effetti che è facile applicare al nostro lavoro di Rivista. Come reazione nascono nuovi bisogni e, in funzione protettiva, nuovi richiami all’identità. Dove trovare nuovi contenuti se non attingendo ancora una volta a eredità tradizionali? A secolarizzazione dispiegata – e la secolarizzazione è solo una delle cifre, per quanto appariscente, delle società altamente sviluppate sotto il profilo economico – grandi orizzonti di riferimento comuni sono peraltro ormai smarriti, sì che il rimando ad essi assume sovente il carattere di una proclamazione astratta, funzionale agli esiti d’identificazione, piuttosto che essere un vero e proprio punto di orientamento. Ne deriva che l’opposizione tra le parti, identificate rispettivamente da una bandiera piuttosto che da un compiuto orizzonte culturale di riferimento, diviene tanto più aspra quanto meno essa è motivata.

Per riferirci più specificamente al terreno che ci è proprio, occorre rilevare che il dialogo/opposizione tra filosofia e teologia ha assunto connotazioni e compiti nuovi in relazione al mutato contesto culturale. Per lungo tempo è stata la ragione filosofica a provocare criticamente la teologia, stimolandola a successivi approfondimenti e sostenendola contro il rischio dell’isolamento e dell’integralismo. Si pensi anche solo al contributo dato dall’illuminismo al superamento del fondamentalismo biblico e all’incidenza della filosofia moderna e contemporanea, in particolare la fenomenologia, l’ermeneutica, l’esistenzialismo per un rinnovamento del linguaggio e delle categorie del pensiero teologico, per tanto tempo legato alle categorie sostanzialistiche della scolastica antica e medievale. Ora è la filosofia nel suo senso ‘metafisico’ tradizionale a essere sotto attacco, in quanto prevalgono forme di scientismo riduzionistico e naturalistico che negano la funzione di un sapere filosofico tutto affaticato intorno a un contenuto di senso ultimo, che viene considerato illusorio. Tanto più che la stessa filosofia impegnata in quella ricerca talora lo dichiara non solo inesauribile, ma anche mai ultimativamente attingibile. La teologia potrebbe oggi aiutare la filosofia a non ridursi a storiografia o a epistemologia della scienza, fino a cercare di modellarsi su di essa, ma a tener vivo l’interesse per la verità umana e per la sapienza della vita anche di fronte a problematiche nuove come quelle del postumano che le conquiste tecniche sembrano rendere possibile;  del senso della corporeità biologica riproposto dalle neuroscienze; della presa di coscienza della grave crisi ecologica che incombe sull’umanità;  della fragilità umana e del sempre incombente e universale rischio di malattia e di morte che la sconvolgente esperienza della pandemia ha reso quanto mai evidente, aggravando peraltro le intollerabili situazioni di ingiustizia, disuguaglianza, discriminazione che pervadono l’umanità globalizzata provocando povertà, migrazioni, guerre e violenze.

La strana alleanza tra la teologia e quelle filosofie che si interessavano delle questioni prime e delle questioni ultime oggi non va più data per scontata. Prendiamo, per esempio, il concetto di eteronomia. La teologia intrattiene una relazione costitutiva con quella che kantianamente chiamiamo ‘eteronomia’. La teologia si occupa di ciò che è inoggettivabile, ossia dell’esposizione umana al divino: stare al mondo significa sempre sottostare a una forma di dipendenza-da, appunto eteronomia. Ma proprio l’esperienza moderna porta a incrociare questa dipendenza-da, anche da un punto di vista perfettamente laico. Gli esseri umani sono necessitati a vivere simultaneamente in una condizione di molteplicità di valori, di significati, di tradizioni. Da qui il massimo rischio di scissione dell’io che si sviluppa a partire dalla tarda modernità. Lo scopo di una formazione armonica è imparare a stare dentro la pluralità. Concretamente ciò significa saper interpretare la molteplicità simultanea che quotidianamente esperiamo, senza esserne disorientati. Il lavoro filosofico-teologico si deve basare sulla consapevolezza di condividere questo contesto, l’esperienza di essere consegnati a una pluralità di orizzonti che ci sovrastano. Di qui una nuova inattesa prossimità con i temi tradizionali della teologia. Il sacro, il divino, persino il caso e l’insensatezza – fenomeni tutti da ripensare – manifestano in maniera perentoria l’estraneità alla quale le esistenze umane sono originariamente esposte, estraneità che chiama pace, conciliazione, gioia, giustizia, ma che non viene mai tolta di mezzo da queste ultime. Oggi più che mai, senza peraltro andare incontro ad alcuna assimilazione, a sua volta impoverente, filosofia e teologia si ritrovano non a combattere l’una contro l’altra, ma piuttosto come alleate dalla stessa parte. La ‘nostra’ Rivista trova qui il suo fulcro vitale. Non si tratta di essere contro lo scientismo, il riduzionismo e il naturalismo, ma piuttosto di metterne in questione l’ovvietà, per coltivare possibilità più sottili e più importanti proprie dell’umano, come la libertà, l’intenzionalità, la ricerca del senso, le forme di trascendenza e di autotrascendenza ecc.

Tutto ciò non fa della filosofia una forma surrettizia di teologia, che da questa si distinguerebbe solo per l’esitazione a far riferimento a un’esplicita matrice religiosa, ma la apre a risorse e sfide che la confermano nella sua ricerca di un senso ultimo che non coincide immediatamente con i concreti significati ricavabili dall’esperienza.

 

Domani: un lavoro comune in vista di un logos comune

Forse è proprio su questa sottile linea di confine, che da un lato supera il semplice dialogo e dall’altro diviene esplicita alternativa al prevalente riduzionismo culturale, scientifico e religioso, che si dovrà muovere in futuro il nostro lavoro, tenendo conto nel mutato contesto sociale innescato dalla globalizzazione e caratterizzato da un crescente pluralismo culturale e religioso. La fine della cristianità, frutto della secolarizzazione, che tanto la filosofia quanto la teologia riconoscono come tratto caratteristico dell’età moderna, significa per tutti fine di una presupposta omogeneità culturale e chiama perciò a una inter- e trans-culturalità  oltre che ad una inter- e trans-disciplinarietà dei saperi. Anche il terreno politico ce ne offre una conferma. All’indifferenza per la specifica e privata appartenenza a una religione si contrappone ora nella coscienza di molti la percezione dell’importanza sociale che i contenuti delle religioni hanno. Non solo in seguito al diffondersi in Occidente dell’Islam, che ha una sua particolare visione dell’intreccio di religione e politica   e che è stato recentemente strumentalizzato per giustificare forme di violenza terroristica eclatanti; ma anche perché il fenomeno della globalizzazione ci ha resi coscienti di quanto la religiosità, in forme plurali, istituzionalizzate o personali, permei le genti del pianeta. Le religioni se per un verso sono riconosciute in grado di offrire alla comunità politica quei sostegni e orientamenti di senso e di valore che questa da sé è in difficoltà a produrre, e quindi sono valorizzate quali forme di ‘religione civile’, per altro verso hanno bisogno di ripensare profondamente se stesse, anche con una rinnovata ermeneutica dei loro testi fondatori, per sottrarsi ai ben noti rischi di integralismo e persino di violenza. Senza dimenticare che proprio la sostanziale indifferenza secolare per i contenuti ultimi delle religioni le sta trasformando in potenti e semplificati mezzi di identificazione da parte dei risorgenti nazionalismi.

Il lavoro culturale cessa di essere quello di un dialogo tra (credenti e non credenti; filosofia e teologia; cristiani di diverse denominazioni; esponenti di diverse culture e di diverse religioni) per divenire lavoro comune di quanti condividono la necessità di non smarrire le questioni ultime di senso come compito per il pensiero e orientamento essenziale per la vita. E anche, nell’attuale situazione globale, caratterizzata dall’egemonia della ragione strumentale tecnico-scientifica ed economica nonché della più recente e pervasiva ‘ragione digitale’, di collaborare ad una critica della società e della cultura in funzione della difesa della dignità assoluta delle persone in riferimento ai principi di libertà, uguaglianza e fraternità, per un’autentica globalizzazione dell’umano comune.

Le condizioni per far ciò paiono essere molteplici, ma al tempo stesso risultano convergenti: occorrono anzitutto il superamento di una ratio individualis e una nuova strategia dell’ascolto degli effettivi bisogni della persona e della società, ma anche dell’eredità di sapienza che si è depositata nei secoli; occorre, da parte della teologia, abbandonare la tentazione di un uso strumentale e difensivo della filosofia e, da parte della filosofia, evitare di ricorrere in modo meramente puntuale alle suggestioni che possono provenire dalla teologia. È necessario ripensare, dopo le svolte linguistica, fenomenologica ed ermeneutica del precedente secolo, i grandi temi di confine, come la vita, la morte, il peccato, il dolore, il dono, l’amore, la felicità o la libertà ecc., tenendo presente lo spazio pubblico sempre più pluralista, multiculturale, multietnico e multireligioso. Non solo al servizio di una chiesa o di una particolare cultura, ma come contributo a un logos comune capace di animare le differenze culturali, religiose e umane. Occorre ricucire strappi della cultura che hanno prodotto la lacerazione fra sapere e senso, fra sapere e mondo della vita, fra intellettuali e persone comuni. È urgente superare anche gli steccati accademici istituzionali, osando una vera e propria contaminazione, ossia compenetrazione dinamica, non solo tra filosofia e teologia, ma anche tra sapere umanistico e mondo scientifico, tra le varie discipline e tra le varie culture. È in ogni caso ineludibile riprendere con radicalità la questione del senso, il senso dell’umano e della realtà in cui ci ritroviamo, il senso del sapere e del suo rapporto con la vita.

Non si tratta peraltro di una semplice chiamata alla collaborazione di tutti coloro che, in difesa di forme di sapere e di stile di vita messi in questione per la loro irrilevanza, condividono, pur nella diversità delle impostazioni, la ricerca di un sapere integrale, adeguato alle attese della vita. Neppure si tratta di indugiare sulle ragioni, del tutto evidenti, dell’utilità di quest’impegno. Occorre piuttosto andare oltre, formulando, a partire dal terreno di soglia che la prossimità di filosofia e teologia suggerisce, proposte alternative, che in dialogo con i saperi e le culture del moderno sottraggano il nostro tempo alla deriva dell’indifferenza e dell’insignificanza.