Il titolo in forma di domanda enfatizza nel tema del numero un’ambiguità – evidenziata da Aguti all’inizio del suo saggio – tra interpretazione descrittiva e interpretazione prescrittiva. Quando parliamo di un Dio in comune mettiamo in campo un principio prescrittivo (memore, per esempio, della preghiera di Gesù nel Vangelo di Giovanni, ut unum sint), che ci rimanda a una prospettiva escatologica, a un Regno che «non è di questo mondo», alla luce del quale correggiamo incessantemente il perimetro sempre troppo stretto delle comunità religiose? Oppure ci proponiamo di indagare sulle ragioni di una realtà storicamente rilevabile e solidamente radicata, quella costituita da religioni di fatto straordinariamente diffuse e culturalmente trasversali a differenza di altre religioni? In questo caso cercheremo le ragioni di questa effettiva spinta universale non solo nelle loro risposte più potenti al bisogno identitario dal quale sorge una comunità politica, ma ancora più in profondità nelle loro risposte più adeguate a un’esigenza di universalità che proviene dalla ragione umana e si fa strada tra la pluralità delle religioni, escludendo alcune in favore di altre. Forse alla base della scelta tematica del presente numero c’è la percezione della difficoltà di sciogliere questa ambiguità sul piano teorico: da sempre, del resto, la contrarietà tra uno e molteplice (cui si riducono, secondo Aristotele, Metaph. IV, 2, «pressoché tutti i contrari») implica sia la separazione che la relazione. Ciò che è comune è così per un verso esso stesso divisivo, mentre continua a rinviare a un’unità dell’intero, in quanto è principio anche del suo contrario. Le diverse risposte alla domanda del titolo, nei saggi che compongono la parte monografica, rilanciano, nella loro diversità e nella loro articolazione del tema comune, sia la difficoltà di disambiguare il tema sia la possibilità di mettere in comune prospettive anche molto diverse su di esso. Sullo sfondo c’è il dialogo interreligioso, che implica l’accoglimento del pluralismo in un terreno nel quale, d’altra parte, si mette in discussione implicitamente un universale che si collochi al di sopra del piano religioso e si cerca invece una forma di universalità che coinvolga dall’interno ogni diversa dottrina religiosa. Per la sola ratio si tratta di una sfida difficile: il pensiero viene chiamato a cercare un nucleo teorico universalmente comunicabile guardando all’interno della configurazione dottrinale di ogni singola religione in dialogo. Nel tentativo di comunicazione tra le diverse religioni si fa pressante l’esigenza di lasciar cadere il principio accomunante cercato dalla ragione, per seguire invece la spinta dirompente verso un altro universale, che dal vissuto religioso proviene: un universale che non cancella le differenze e all’interno del quale ogni particolare prospettiva, e da ultimo l’individualità stessa si sente libera, sostenuta come tale, “salvata”. Dall’esperienza del dialogo interreligioso, la ragione è provocata d’altra parte, forse più che in ogni altro ambito, a guardare meglio dentro se stessa, e a ritrattare criticamente il proprio pensiero dell’uno non per abbandonarlo, ma per imparare a esplicare più chiaramente, dal proprio interno – e ripercorrendo la propria storia –, la dimensione “salvifica” dell’unità. Un compito certamente non facile di avvicinamento è quello che così si produce tra la sola ratio e quel sapere che indichiamo genericamente come fede. Come, in questo avvicinamento, inclusione ed esclusione, comunione e differenziazione si distribuiscano tra le due sponde, rimane controverso, nel senso che la ricerca dell’elemento razionale capace di accomunare può allo stesso tempo dividere, mentre, a primo acchito sorprendentemente, l’approfondimento della differenza religiosa può mettere in circolo un vissuto comune, per esempio, appunto, quello di una dimensione del sapere fondata sul tratto salvifico dell’universale. Per i filosofi e i teologi è anche una bella sfida sul significato più radicale del sapere.
Non si tratterà qui, dunque, di cercare altro tratto unificante del numero che non sia il peso assunto di volta in volta dalla domanda cui tutti i saggi cercano di rispondere. Aguti, che assume l’espressione «un Dio in comune» in senso descrittivo, parte dalla considerazione che i monoteismi occidentali (in particolare cristianesimo e islam) sono di fatto le religioni più diffuse e più trasversali nella capacità di penetrazione nelle più diverse culture. E, per spiegare questo dato, avanza la tesi che proprio il legame di queste fedi con l’esigenza razionale del dio unico (già ampiamente presente nella filosofia greca) sia il fattore determinante per la loro capacità di accomunare gli esseri umani. Il teismo filosoficamente fondato, ovvero la concezione di «un ente […], dotato degli attributi dell’eternità, dell’onnipotenza, dell’onniscienza, della perfetta bontà, della personalità ecc., che si può appunto chiamare Dio» (infra, p. ?), è la condizione determinante perché l’ampia diffusione di queste fedi possa ambire a trasformarsi in universalità. Non tutte le concezioni religiose del divino si prestano a questa universalizzabilità, che esige determinati contenuti razionali. Per questo un dialogo interreligioso ha da confrontarsi con il fatto che di volta in volta una religione ha creato comunità, differenziandosi dalle molte altre anche con un passaggio esclusivistico, ma capace di spiegare anche ciò che esclude. In particolare, dall’alleanza tra fede e ragione è derivato un principio di distinzione che è stato motore di successo storico. I tratti dell’onnipotenza, di una perfezione assolutamente separata dal mondo, e conseguentemente di un rapporto puramente causale di creazione con il mondo, conferiscono, per esempio al Dio cristiano, quella connotazione esclusiva di affidabilità che solo può promettere credibilmente salvezza e per la quale vale la pena anche di morire: una tale tesi “ontoteologica” viene pertanto difesa dalle critiche heideggeriane e dal diffuso discredito di un’eredità metafisica (greca) della dottrina cristiana, e viene contrapposta anche a quelle «coimplicazioni» moderne di umano e divino che hanno uno dei loro esempi attuali nel «panenteismo» (e così il saggio di Aguti entra di fatto in contrasto con quello di Gamberini). Il teismo è il principio accomunante le diverse fedi monoteistiche, la cui reciproca «irriducibilità» viene tuttavia alla fine ammessa – e ciò naturalmente non è irrilevante –, in quanto «dipende dalla loro specifica identità religiosa» (p. ?), e viene lasciata fuori tema pur con l’avvertenza che le diverse connotazioni del Dio personale possono essere tutte false, ma non tutte vere.
Una prospettiva per molti versi antitetica a quella fin qui esposta è presentata da Russino, per il quale il tratto esclusivo del monoteismo ha fatto storicamente irruzione come un corpo estraneo in una cultura religiosa tardo greca caratterizzata invece da una ben più naturale, modernissima tolleranza in questo campo. Non è perciò strano che proprio in questo contesto, con il neoplatonismo, e poi più in particolare con l’anonimo autore del Corpus Dionisyacum, si sia presentata una potente giustificazione teorica della compatibilità tra l’unità di Dio e la molteplicità delle tradizioni religiose, richieste proprio dalla trascendenza ineffabile di Dio. Quest’ultima è vista infatti come un tratto imprescindibile dell’uno, da preservare dalle diverse appropriazioni non solo religiose ma anche filosofiche, che riducono la trascendenza a mera superiorità ontica, mettendo già tacitamente in crisi la differenza di Dio dal mondo. Il prezzo da pagare, la rinuncia a dare un nome proprio a Dio, si rivela per altro verso un guadagno per una rifondazione – sempre storicamente condizionata ma possibile – del principio comunitario sulla base di «vincoli di solidarietà» tra diversi.
Dialoga implicitamente con questa visione la singolare prospettiva proposta da Nicolaci, che abborda il tema riflettendo sulla scomunica latae sententiae e sugli elementi che la riconnettono alla separazione della morte, che interviene, nella relazione umana di amicizia, non come pena ma come causa di essa, cioè come trasgressione della “fedeltà” al vincolo amicale. L’«addio in comune», cioè il mantenersi di una comunità di amicizia nel modo estremo dell’addio – che può essere «in comune» solo sulla base paradossale di «un tempo assolutamente a venire» (p. ?), abitabile solo come soglia tra una durata e l’altra, cioè in una forma «internamente separata» e però capace di «aprire» infinitamente la relazione temporale –, funge da paradigma per quella forma di comunità senza comunione, e dunque anch’essa in ultima analisi caratterizzata da una separazione interna, che la scomunica latae sententiae istituisce: solo a condizione di considerarsi interno alla comunità lo scomunicato può infatti portarla a effetto come pena. Nicolaci si ritrova vicino alla levinassiana «trascendenza dell’a-Dio, separata da una separazione in cui non si riscontra alcun genere comune ai separati»: «la disciplina dello “stare insieme” […] è governata dalla grammatica dell'addio» (p. ?), dal suo «fondo antinomico» e però anche dal «Dio in comune» che da questo fondo affiora come l’unico sostegno possibile, estremo, assolutamente a venire, dello stare insieme. Nella scomunica il Dio in comune non ha la sua fine, ma il suo inizio. In questo caso estremo traspare il potere accomunante, oltre ogni ostacolo, della trascendenza divina. Lo stesso potere che balena nell’esperienza del lutto e la rende possibile.
La strada di una ricerca del «Dio in comune» non attraverso un gesto di sospensione, ma attraverso l’approfondimento di elementi dottrinali del proprio specifico vissuto religioso non rimane però senza voce nel numero. La propongono nelle pagine che seguono i saggi di due teologi cristiani, che attingono a uno dei contenuti più specifici e storicamente, almeno a primo impatto, più “incomunicabili” della fede cristiana (in particolare in riferimento alle altre religioni monoteistiche), cioè la dottrina della Trinità. Con un esplicito distacco dal «teismo classico», che pensa Dio come separato dal mondo e il creato come inessenziale, Gamberini propone nel suo testo un «monismo relativo», entro il quale assumere un modello «panenteista». «Come il monoteismo relativo cristiano rivelò la verità del monoteismo assoluto della tradizione ebraica, così il monismo relativo sta attuando la forma con cui il cristianesimo comprende se stesso nell’età post-secolare» (p. ?): la possibilità di condividere un «Dio in comune», un tempo consolidatasi nella figura del teismo, deve affrontare oggi la sfida dell’ateismo moderno, che dichiara Dio assente dal mondo e fa a meno di Dio sia nella spiegazione del mondo sia nello specifico essere al mondo dell’umanità. La ripresa «postsecolare» del Dio comune può cominciare solo dall’idea che «Dio è essenzialmente creatore per amore e in questo senso preciso il creato è correlato della natura divina» (p. ?). Con argomenti molto densi il saggio si addentra in una visione panenteistica in grado di superare sia i limiti del teismo classico, sia una concezione panteistica. Il nesso profondo fra Trinità immanente e Trinità economica, attraverso l’umanità di Cristo, permette all’autore di definire il tratto intimamente relazionale (agapico) di Dio, cui viene ricondotta la realtà relazionale dell’essere umano.
Che la relazione agapica in Dio sia il fondamento della possibilità di una comunità umana è anche la tesi di Naro. Il suo saggio permette importanti puntualizzazioni sul tema del numero. Per svolgerlo risulta per l’autore fondamentale «riesperire la pluralità delle concezioni e delle visioni di Dio non come motivo di scontro, bensì di incontro» (p. ?). E questo è possibile non tanto cercando gli elementi comuni alle diverse religioni, quanto piuttosto cercando dentro le dottrine religiose un supporto per il pluralismo. Più che cercare il Dio in comune, sostiene Naro, occorre in questo senso approfondire la conoscenza dell’unico Dio di tutti. E per farlo bisogna superare la metafisica dell’Uno, per esempio attraverso la rivisitazione cristiana di essa, che per l’autore ha al suo centro la connotazione agapica di Dio: Deus caritas est. Anche in questo caso vengono cercate nella dottrina della Trinità le risorse per concepire, all’interno di un’intrinseca ulteriorità di Dio, il suo «sovreccedere» sé non solo nel senso di avere in sé il suo altro, ma anche nel senso creativo di «un altro da Dio al di là di Dio» (p. ?). «Il principio agapico conferisce all’incontro e al confronto interreligioso uno statuto e un metodo relazionale che rimanda esemplarmente alla vita trinitaria» (p. ?): Naro si affida alla riflessione trinitaria come modello di dialogo, che non va frainteso come una piatta reciprocità, ma come sincera ricerca di ciò che dentro la propria esperienza religiosa apre radicalmente all’altro.
Un approccio non distante da questo si ritrova nel saggio di Lupo, che parte da un caso ristretto ma drammaticamente attuale della crisi di dialogo interreligioso, puntando un faro sulla realtà che fa da sfondo alla guerra russo-ucraina, dove le comunità politiche serrano i ranghi mostrando l’aspetto inquietante del fondamento religioso ancora attuale della politica. Lupo porta così molto opportunamente il tema del numero in uno scenario di guerra, dando innanzitutto rilievo alla «Dichiarazione congiunta» del 2016 tra il Patriarca di Mosca e Papa Francesco. In essa la fratellanza universale e l’accoglienza delle diverse esperienze religiose vengono connesse con il comandamento dell’amore del prossimo quale connotazione essenziale della fede cristiana, legando quest’ultima all’«assunzione reale di un impegno pragmatico» (p. ?): proprio l’applicazione della Dichiarazione al caso ucraino dimostra, per Lupo, che «la religione è ancora una risorsa per la società civile laica e ancor più lo è il cristianesimo in forza del suo messaggio che lo istituisce come una pragmatica della pace e della solidarietà fra gli uomini» (p. ?). Il tema dell’ecumenicità, dunque del dialogo tra diverse confessioni cristiane, diviene un modello di riferimento per ogni altro dialogo interreligioso. Le riflessioni di Florenskij, nella seconda parte del saggio, orientano il tema del «Dio in comune» verso la connessione tra vissuti di fede, imprescindibilmente legati alla soggettività e alla differenza irriducibile degli Erlebnisse, ed «esperienza religiosa quale luogo manifestativo della discesa kenotica della Trascendenza» (p. ?). Il padre ortodosso russo, martire delle purghe staliniane, prende distanza dalla mera tolleranza, dietro la quale urge una diffidenza se non un’ostilità verso l’esperienza religiosa, per indicare il fondamento della vita comunitaria nella reciproca comprensione dell’arricchimento che viene dalla diversità delle fedi religiose, nelle quali una «trascendenza kenotica» dell’unico Dio si manifesta positivamente nel completamento del dono ricevuto con quello ricevuto dagli altri singoli, tutti diversi fra loro, e dalle diverse fedi religiose.
Il tema del dono è infine al centro del teismo agatologico proposto da Palumbo in un dialogo, ritenuto urgente nel mondo post-secolare in cui viviamo, con l’ateismo, considerato ormai spesso quale condizione imprescindibile per rientrare consapevolmente nella condizione finita dell’essere umano all’interno della natura, riaprendosi finalmente da un autentico punto prospettico, dopo l’assolutizzazione moderna del soggetto, all’alterità del mondo e all’indisponibile oltre ogni potere umano. Un possibile ritorno del Dio in comune viene in questo saggio cercato proprio là dove si diffida di un Dio pensato come intenzione di bene, proprio mentre si enfatizza il valore del sentimento religioso rivolto a ciò che vale per se stesso o al mistero del mondo. A preservare «il “valore intrinseco” che permea sia “l’incanto della natura” sia “la verità morale”» (p. ?) (Dworkin), oppure il rigoglio insondabile di possibilità che si aprono con il mondo (Paltrinieri), sembra oggi a molti più adatto un «ateismo religioso» che non un Dio, alla cui intenzione di bene sia irriducibilmente legato l’orientamento comune degli esseri umani. Palumbo argomenta invece in favore dell’inaggirabilità del riferimento, non semplicemente al bene, ma alla sua intrinseca forza di appello, rivolto alla libera risposta e responsabilità umana; e scorge una strada attraverso la quale il teismo può rilanciare in modo determinante il riferimento al Dio personale, come un «Dio in comune» alle plurime vie di ricerca del bene da parte dell’essere umano. In questo modo il saggio conferma la proposta nel numero, cioè la possibilità di fare di nuovo di Dio il tema legittimo di una ricerca che metta l’umanità “in comune”.