Il presente fascicolo, curato dalla redazione veneta, di «Filosofia e Teologia» è dedicato alla questione dell’ateismo. In questa limitata sede, ovviamente, non era possibile una trattazione complessiva e integrale del fenomeno, che avrebbe richiesto anzitutto una disamina dei differenti significati assunti dalla parola «ateo» e poi una complessa comparazione storica, poiché vi sono religioni sia antiche sia ancora attuali dove la nozione della «divinità» è talmente diversa dalla nostra da rendere il concetto di «ateismo» (nel senso moderno di negazione dell’«esistenza» di Dio) non solo poco applicabile ma direi totalmente fuori luogo. D’altronde nella cultura occidentale dal medioevo ad oggi, e in particolare nella filosofia, il «Dio» di cui si tratta quando un pensatore ne difende o ne contesta la presenza – quantunque parli in termini apparentemente generali – è sempre e soltanto quello della religione ebraico-cristiana, l’unico Dio creatore, onnipotente e giusto come fu rappresentato nella Bibbia, elaborato dalla teologia e posto come oggetto di fede dei credenti. Nessuno lo dice, ma il dibattito sull’ateismo o sulla «morte di Dio» ha come esclusivo punto di riferimento il Dio biblico. Persino gli atei di oggi, non meno dei Padri della Chiesa, sono convinti che le altre religioni non siano che favole. Eppure riserverebbe molte sorprese verificare se questo «ateismo» abbia o meno un senso in altri contesti!
Dei contributi a questo fascicolo la maggior parte riguarda specifici aspetti del confronto della filosofia contemporanea con l’ateismo e il dibattito che ne è derivato. Nel primo contributo, «L’ateo e il credente ‘al di là del sì e del no’», Gian Luigi Paltrinieri mira a sottrarre sia l’ateismo che il teismo monoteista all’accezione semplificata, ma consueta, di negazione, quella per cui l’ateo è solo un negatore di Dio, mentre il teista non è che un negatore di questo mondo. Facendo dia-logare Lutero, Feuerbach e Heidegger, e approfittando in particolar modo delle indicazioni di quest’ultimo, Paltrinieri da un lato insiste sulla dimensione pratico-esistenziale come terreno primario in cui è radicata ogni esperienza religiosa, dall’altro propone un arricchimento, tutto fenomenologico, dell’esperienza umana del mondo. È nelle maglie costitutive di quest’ultima, si rimarca in questo primo contributo, che viene recepito quanto è decisivo per le esistenze umane e che si mostra nascondendosi, ossia in modo né ovvio né appariscente, al di là dell’usuale contrapposizione tra ateismo e teismo. Su come intendere fenomenologicamente questo mostrarsi si sofferma anche il saggio di Carla Canullo, «Inaggirabile ateismo: Jean-Luc Marion e “i” fenomeni», incentrato sulla recente polemica sollevata da Jocelyn Benoist contro l’impiego della fenomenologia husserliana da parte di Marion, il quale certo non vuol cavarne la possibilità di una prova dell’esistenza di Dio, ma almeno rilevare come nella stessa esperienza dei «fenomeni» possa trapelare una certa quale «trascendenza». Marion infatti definisce il fenomeno in generale una «donazione» e sostiene che in qualche caso esso presenta un’eccedenza rispetto alla sua semplice intuizione e al suo concetto: ciò che egli chiama i «fenomeni saturi». Benoist al contrario ribadisce che in fenomenologia ogni presunta trascendenza va sottoposta ad epoché, e pertanto non c’è nulla che trascenda l’intuizione. L’esperienza è soltanto «la foresta del sensibile» e logica conseguenza di ciò sarebbe un rigoroso ateismo. Secondo Marion, però, l’ateismo tradizionale è una dottrina «regionale» (nel senso husserliano) perché presuppone un singolo delimitato concetto di Dio, quello della metafisica, e a partire da esso trae le proprie deduzioni, che potrebbero non valere per concetti diversi e soprattutto non tolgono la questione, la domanda su un assoluto che sfugga alle categorie concettuali. Ma il Dio metafisico, nella sua limitatezza, è un idolo, e perciò nell’identificare Dio con l’essere, la causa, la sostanza o simili siamo già di fronte a una implicita dichiarazione di ateismo. Bisogna, come dice Marion, «doppiare» (nel gergo navale) la metafisica. In tal senso, a monte del dilemma se credere o non credere in Dio, l’ateismo viene «messo alla prova» non da argomentazioni metafisiche ma dai fenomeni stessi, con i quali la coscienza si accorge di intrattenere un rapporto non riducibile al puro atto percettivo. L’eccedenza rispetto alla semplice oggettività che «satura» questi fenomeni è un’evidenza fenomenologica, dalla quale può prendere avvio un’eventuale interrogazione sul problema di Dio. L’ateo, nel non voler riconoscere che la «foresta del sensibile» è popolata da fenomeni saturi, esibisce non un’argomentazione ma soltanto il suo rifiuto dell’evidenza.
Ad un’analoga conclusione giunge il saggio di Paul Clavier, «Grammaire de l’agnosticisme», che riferisce sul celebre dibattito, radiotrasmesso dalla BBC nel 1948, fra Bertrand Russell e il gesuita padre Copleston. Secondo Russell, com’è noto, la metafisica e la teologia sono il risultato di una cattiva grammatica, nel senso che sono un sistema di proposizioni non formulate né collegate correttamente dal punto di vista logico. Quindi anche la definizione di Dio come ente necessario, e come tale necessariamente esistente, è un errore linguistico. Copleston risponde che è legittimo parlare dell’esistenza di Dio perché ogni ente mondano è contingente in quanto non ha in sé stesso ma in altro la ragione della propria esistenza: bisogna dunque ammettere un unico ente di per sé necessario che sia la causa di sé stesso e di ogni altra cosa. Russell obietta che la necessità non è un attributo ontologico ma una modalità logica delle proposizioni, e «Dio» non è un nome proprio ma qualcosa di assolutamente inesistente, come un «cerchio quadrato», di cui sarebbe senza senso affermare o negare alcunché. La risposta di Copleston è tipicamente tomistica: non afferma che Dio esista necessariamente solo a partire dal suo concetto, né che la sua essenza implichi l’esistenza, bensì che la necessità divina è suggerita dall’esperienza del mondo, il quale – essendo contingente – non avrebbe nessuna ragione sufficiente di esistere se non fosse stato creato da Dio. Russell allora domanda: ammesso che ogni ente debba ricevere da altri la propria ragione di esistere, perché mai la tale ragion sufficiente valida per lui dovrebbe valere anche per tutti gli altri enti mondani? Secondo Copleston, se non si riconoscesse questo, tutte le serie delle diverse cause dei singoli enti sarebbero vuote di senso in quanto prive di una spiegazione complessiva, e il mondo non avrebbe alcun motivo per esistere invece di non esistere. A questo punto il dibattito si chiude con la dichiarazione di Russell che una messa in questione della causa del mondo nel suo insieme è a suo avviso improponibile. Anche in questo caso, dunque, la posizione ateistica fa perno in ultima analisi non su un argomento bensì su una scelta perentoria di esclusione del problema. Ma, come scrive l’Autore, l’agnostico Russell avrebbe dovuto almeno spiegare perché non sarebbe legittimo porsi quella domanda.
Il titolo del contributo di Sebastiano Galanti Grollo è «La separazione ‘assoluta’: Levinas e la necessità dell’ateismo». La tesi di Levinas – mi permetto di osservare – sembra tanto paradossale ma invece è perfettamente coerente con la sua ispirazione giudaico-rabbinica e con le sue intenzioni apologetiche. La professione di ateismo, l’idea che non esiste nessun Dio, esclude qualsiasi rapporto reale fra la presunta divinità e l’uomo, il quale dunque vive per conto proprio, separato e padrone «in casa propria». Ma questa assoluta separazione, secondo Levinas, è necessaria anche per il credente nell’unico vero Dio (cioè il Dio biblico) perché, se si ammettesse una relazione intrinseca fra di loro, l’uomo e Dio costituirebbero i due membri complementari di una totalità, nel quadro di una «partecipazione» e addirittura di una «fusione» mistica di umano e divino prodotta dalla cosiddetta esperienza religiosa del «sacro» o del «numinoso», da lui aborrita quale moderno paganesimo. Invece il vero Dio non è il «sacro» ma il «Santo», quindi precisamente il Separato per eccellenza, giacché soltanto la più radicale separazione garantisce la radicale alterità di Dio rispetto all’uomo, la sua trascendenza e unicità, la sua capacità di creare dal nulla esseri ontologicamente differenti e proprio per questo liberi ed autonomi. Allora, in conseguenza della separazione assoluta di Dio dall’uomo che caratterizza il monoteismo, l’uomo stesso è per sua natura «capace di ateismo» e connotato da un originario «egoismo». La cosa però è ambigua. L’uomo è in un primo momento chiuso in sé stesso, certo di sé stesso, ma in un secondo momento avverte anche l’idea dell’«altro» (uomo) poiché non può sostenersi da solo e all’altro uomo deve rivolgersi. Si pongono così le basi per una vita morale nel senso di venire incontro ai bisogni degli altri e di rispettare la giustizia nelle relazioni pratiche con loro. È in questo contesto etico, e non dalle speculazioni «teologiche» che può sorgere le fede nell’unico Dio come giusto Giudice e come fonte ultima delle normative giuridiche. In tal modo la fede monoteistica in quanto religione morale ha la sua premessa proprio nell’idea in qualche modo «atea» di un’assoluta separazione di umano e divino.
Una problematica simile, ma in ambito cristiano, è trattata dal saggio di Enrico Cerasi, «Ricoeur e l’ermeneutica dell’ateismo». Ricoeur prende le distanze dall’apologetica cristiana secondo lui l’ateismo contemporaneo sarebbe un tragico errore, l’illusione dell’uomo di potersi realizzare al meglio negando un Dio creatore nel quale aveva oggettivato e alienato (Feuerbach) le migliori qualità della realtà umana. Invece, l’ateismo come rinuncia a una visione mitologica del divino è indispensabile al cristianesimo, perché proprio negando i «miti» si può comprendere la verità dell’annuncio cristiano. Questa era com’è noto la tesi di Bultmann, che un’ermeneutica demitizzatrice è preliminare alla decisione esistenziale per la fede, in base alla sua interpretazione «antropologica» di Essere e Tempo di Heidegger. Anche per Ricoeur la fede ha bisogno di un esercizio ermeneutico per il quale però si ispira non tanto a Heidegger quanto alla «Scuola del sospetto» (Marx, Nietzsche, Freud). La distruzione dei simboli religiosi attuata in vario modo dai Maestri del sospetto può essere secondo lui uno spunto per rendere comprensibile la vera essenza del cristianesimo. In particolare egli si riferisce all’idea di Marx che la rappresentazione di Dio come «Padre» non sia se non un simbolo sublimato della «merce», questo oggetto misterioso e onnipotente che forma e condizione la vita dell’uomo entro la società capitalistica borghese. In ciò Ricoeur ravvisa un «circolo ermeneutico», poiché per un verso l’alienazione religiosa rivela di avere una base materiale (cioè appunto la «merce»), ma per un altro questa base materiale non trova altro modo di spiegarsi che ricorrendo al modello dell’alienazione religiosa. C’è un rapporto scambievole fra feticismo religioso e feticismo della merce. Questa circolarità dimostrerebbe che non si può far a meno del simbolo, e ne deriva per il pensiero ermeneutico il compito di elaborare «una nuova, poetica immaginazione dei simboli negati» approfittando del «grano di verità» presente nella critica ateistica. Si tratterebbe quindi di ripensare più a fondo la metafora del «Padre» seguendo le sue «traiettorie di senso» che emergono dalla Scritture ebraico-cristiane[1].
Marco Menon, nel suo saggio «L’ateismo radicale e il significato originario della filosofia. A proposito del Socrate delle Nuvole nella lettura di Leo Strauss», illustra la posizione di Leo Strauss, filosofo ebreo tedesco emigrato negli Stati Uniti dove ottenne un discreto successo e divenne nel secondo Dopoguerra il maître à penser di importanti esponenti della Destra repubblicana. Il problema dell’ateismo è considerato da Strauss nel quadro dei suoi interessi prevalentemente di ordine politico. Infatti la critica illuministica, che a partire dal Tractatus spinoziano intendeva demolire le religioni positive e dogmatiche, lo faceva soprattutto perché vedeva nelle credenze religiose la prima causa di conflitti devastanti, e quindi il pericolo maggiore per la pace sociale. L’ateismo illuministico è motivato dalla politica. Esso però ha fallito il proprio obiettivo di estirpare la religione mentre la vecchia fede non è affatto svanita con l’aumentare del progresso scientifico. Pertanto occorre che la filosofia recuperi la sua originaria attitudine speculativa e impolitica come l’aveva – secondo lui – nei Presocratici: una ricerca della verità riguardo al reale, alla physis, che parta da un metodico scetticismo e richieda da ogni tesi una dimostrazione razionale basata sui fenomeni. Intesa a questo modo, si capisce, la filosofia non ammette come valida alcuna esperienza religiosa ed è anzi fondamentalmente atea. Ora, Strauss esemplifica la sua idea della filosofia con il personaggio di Socrate nelle Nuvole di Aristofane. Qui Socrate palesa la sua «empietà» (per la quale venne poi condannato a morte) dichiarando senza mezzi termini al suo sprovveduto interlocutore Strepsiade che non esistono gli Dei del culto istituzionale, e che le vere divinità sono le «nuvole». Ma questa non è affatto una nuova credenza religiosa alternativa: è solo una metafora per indicare la sua ricerca di studioso della natura, in particolare dei fenomeni astronomici. Da vero filosofo, Socrate afferma con coerenza il proprio ateismo. Però nel far questo egli è anche arrogante, sprezzante, irresponsabile nella sua critica verso i valori della Città e fra l’altro proprio quello più caro, la famiglia, perché la sua azione diseducativa sul figlio di Strepsiade ha esiti disastrosi. Lo scetticismo filosofico non è astratto, non è politicamente innocente; al contrario fa enormi danni e pertanto si espone alla reazione violenta della società. Così, nella commedia, Strepsiade esasperato si accinge a dar fuoco al «Pensatoio» socratico. Dove vuole arrivare Strauss con questo balordo paragone? Forse che la filosofia è cosa che si fa ma non si dice? A me pare sia così, e difatti collima con la sua teoria della «reticenza», secondo cui le élites governative, ammaestrate da filosofi come lui, devono portare avanti con spregiudicatezza, con cinismo, i loro sottaciuti interessi laddove al popolo hanno tutto l’interesse di predicare il rispetto di nobili valori.
Un argomento fuori dal comune, forse poco noto ma per questo tanto più interessante, si trova nel saggio di Giuseppe Goisis, «L’antiteismo nell’opera di Pierre-Joseph Proudhon». Contemporaneo di Marx, Proudhon fu il propugnatore di un socialismo rivoluzionario maturato in ambiente contadino, non del proletariato industriale, animato da un anelito di giustizia piuttosto semplice, intriso di motivazioni morali e in qualche modo romantiche, che gli valsero l’acrimonioso disprezzo dell’autore del Capitale. Mentre Marx, pur essendo ovviamente ateo, giudicava poco importante la critica della religione, e meno ancora una campagna contro la religione, agli effetti della lotta di classe (perché l’avvento al potere del proletariato l’avrebbe fatta svanire da sé), Proudhon molto più di un ateo è un antiteista, perché ravvisa non tanto nella borghesia quanto nell’istituzione religiosa il peggiore nemico delle classi sfruttate, principalmente la Chiesa (cattolica) che ha tradito i poveri abbandonandoli all’ingiustizia dei padroni. Ma nelle sue feroci requisitorie contro il cristianesimo sembrerebbe che l’antagonista più pericoloso dell’uomo in cerca di giustizia sia proprio l’idea di Dio, anzi Dio stesso rappresentato un po’ fantasiosamente sotto forma di un nemico da combattere con ogni mezzo, quasi fossimo ai tempi dell’Iliade dove l’eroe Diomede sfida a duello Ares in persona e lo vince. Certo, l’antiteismo proudhoniano poteva valere in teoria per qualsiasi forma religiosa. Quando egli si affiliò alla massoneria (peraltro, l’organo politico della borghesia imprenditoriale) rifiutò di prestare il giuramento di fede nel «Grande Architetto» che al suo tempo si usava fare nelle iniziazioni. Questo sviscerato livore antireligioso e antiteista di Proudhon (nel quale l’Autore ritrova anche aspetti oggi deplorevoli come un certo accento maschilista e antisemita) si accompagna a manifestazioni analoghe in altri autori dell’epoca, a lui sia precedenti sia successivi, pensiamo a de Sade, a Leopardi, a Shelley e Byron, a Nietzsche (dove però le motivazioni sono completamente diverse) nonché a celebri personaggi di Dostoevskij e di Tolstoj. Anche le persecuzioni contro la religione verificatesi nei paesi del socialismo reale (in Russia nella prima fase dello stalinismo, in Albania, in Cina) sarebbero più conformi al pensiero proudhoniano che non al marxismo vero e proprio. Chissà se Proudhon non avrebbe apprezzato, ben più dei comunisti, gli anarchici spagnoli che eseguivano regolari fucilazioni di crocefissi e statue della Madonna?
Penso che un’attenzione particolare i lettori dovrebbero riservare al contributo di Piero Stefani, «È pensabile che Dio non sia? Una quaestio più pratica che teorica», che affronta la questione in un quadro più vasto del contemporaneo, e a partire dalle fonti. La principale delle quali è senz’altro il salmo 14 (13 nelle edizioni attuali della Bibbia) reso celebre dal Proslogion di Anselmo: «Dixit insipiens[2] in corde suo: non est deus». Insipiens in ebraico è nābāl (trascrivo il bet secondo la pronuncia antica), derivato dalla radice verbale nbl che significa sfiorire, deteriorarsi, e in conseguenza mancare delle proprie funzioni; un nābāl è quindi una persona «mancante», direi etimologicamente un «deficiente». La sua «mancanza» riguarda le capacità intellettuali e gli rende impossibile la comprensione di come stanno veramente le cose. Come giustamente rileva Stefani, la sua dichiarazione non ha nulla a che vedere con un «ateismo» in senso moderno in quanto negazione dell’esistenza di Dio. Egli dice «non Dio», o come diremmo noi «niente Dio» (’ēyn ’ĕlohīm)[3] perché, come si desume dal contesto, osserva che il mondo è corrotto, che gli uomini non cessano dal compiere atti malvagi, e da tutto questo disordine desume non tanto che Dio non «esiste» ma piuttosto che – seppure esistesse – non si presenta qui, non interviene per mettere le cose a posto. Non riconosce, come invece dovrebbe, la presenza di Dio e il suo «affacciarsi» nel creato. Anche per il Proslogion anselmiano vale, all’inverso, la medesima osservazione. Anselmo non pensa affatto di fornire una «dimostrazione» dell’esistenza di Dio poiché essa è per lui fin dapprincipio una certezza originaria; ma proprio partendo da questa presupposta certezza si ricava l’impossibilità che Dio non esista. «Nessuno, infatti, che intende ciò che è Dio può pensare che Dio non è». Al vero ateo non verrebbe neppure in mente di porsi, come fa l’insipiens, il quesito se Dio ci sia oppure no, mentre soltanto all’interno della fede e come reazione ad essa si presenta il fenomeno della miscredenza. Il motivo principale di questo è la constatazione del male nel mondo. Il pensiero cristiano ha escogitato al riguardo diversi tipi di risposta, anzitutto quella secondo cui Dio, pur essendo essenzialmente buono, «permette» che avvenga il male allo scopo di manifestare poi la sua potenza nel trarre anche dal male il bene; secondo l’Autore, un argomento assai fragile perché attribuisce a Dio due volontà distinte, è troppo ottimistico circa l’esito «buono» della permissione e comunque non compensa chi il male ha dovuto effettivamente subirlo. Un altro ben noto argomento è che il male sarebbe un danno collaterale all’interno di un ordine complessivamente positivo della natura: anche qui la cosa non funziona, poiché la natura pensa solo al bene delle specie, non degli individui. In generale il pensiero cristiano non risolve il problema del male ma lo dissolve sostenendo che esso scomparirà con l’avvento di una redenzione finale del mondo. Forse più consona al cristianesimo, per quanto paradossale, è l’idea che fa perno sull’Incarnazione, mediante la quale la stessa Trinità divina si lascia coinvolgere «nella condizione negativa che afferra le creature». L’ultima parte del contributo di Stefani prende in esame la posizione dell’islam, secondo la quale Dio è l’unico onnipotente signore dell’universo che continuamente crea ogni fenomeno e ogni evento in base alla sua imperscrutabile volontà; sarebbe blasfemo pensare che Dio crei o permetta il male: ciò che spetta all’uomo e soltanto di riconoscere dappertutto i «segni» della sua azione creativa, culminata nella rivelazione coranica.
[1] Devo ricordare che l’appellativo è solo del Nuovo Testamento; nella Bibbia ebraica (come del resto nel Corano) il Dio creatore non è mai chiamato «Padre» delle creature.
[2] Nella Vulgata di Gerolamo era scritto stultus ma già nel medioevo si preferì il sinonimo insipiens (corrispondente ad ἄφρων dei LXX), riportato dalla Vulgata Clementina (XVI secolo) e dalla recente Nova Vulgata. La frase doveva avere una certa notorietà in ambiente ebraico perché è ripetuto identica nel salmo 53 (52).
[3] L’originale omette, come sempre, il vero «essere» che in ebraico non ha valore «ontologico» ma indica piuttosto una «presenza» nel senso di assistenza, sostegno, come nel famoso Esodo 3.14, dove il «sarò» vuol dire «vi sarò vicino», «vi aiuterò nel bisogno».