Fascicolo XXXV (2021), 1, L’apocalisse. Crisi della rivelazione e della storia / Editoriale

Marco IVALDO

Questo fascicolo monografico vuole, con la varietà dei contributi che ospita, rimeditare il tema della apocalisse e i motivi della apocalittica come momento critico, e suscettibile di ripresa, della filosofia e della teologia. Si è cercato perciò di valorizzare una comprensione della apocalisse (e della Stimmung apocalittica) come ‘crisi’ - ossia come catastrofe, giudizio, decisione - che domanda e attende una «nuova Gerusalemme» (Ap 21, 2), comunque si voglia connotare questa figura escatologica, e che sollecita una continua riapertura del’orizzonte storico, un nuovo esodo.

Nel primo saggio del fascicolo lo sguardo sulla apocalittica è rivolto alla tradizione enochica, letta e interpretata nella tensione tra protologia ed escatologia (Boccacini, La tradizione enochica: protologia ed escatologia). Quello che oggi chiamiamo 1 Enoc è una raccolta di documenti molto complessa, composti tra il IV e il I secolo a.C. da una tradizione di pensiero che produsse testi come il libro dei Vigilanti, il libro dell’Astronomia, il libro dei Sogni, l’Epistola di Enoc e le Parabole di Enoc. Nonostante la sua lunghezza, varietà e complessità, il corpus enochico è una raccolta di tradizioni e testi che ‒ lungi dall’essere una collezione casuale di antichi testi visionari ebraici ‒ sono la testimonianza coerente di una forma autonoma di giudaismo del Secondo Tempio, che ha svolto un ruolo importante nel plasmare il pensiero ebraico antico. Un tratto apocalittico di questa tradizione è la centralità che in essa riceve la domanda unde malum. Attraverso il mito dell'origine sovrumana del male il giudaismo enochico mira ad assolvere l’unico e onnipotente Dio dall'essere la fonte del male, ma anche a denunciare l’ordine presente come corrotto. Il messaggio che il peccato angelico non può essere perdonato è l'idea generativa del giudaismo enochico. Per quanto inquietante possa essere questa idea, la reazione di Dio ha soltanto limitato, ma non ha sradicato il male. Il mondo è ancora dominato dalle forze del male, anzi è un mondo malvagio. La bontà originale dell'universo non può essere ripristinata finché una ‘nuova creazione’ non sarà stabilita alla fine dei tempi. La storia è così testimone di una continua espansione del male, senza che gli esseri umani abbiano modo di opporvisi. Questa situazione di male e di decadenza è irrimediabile e si concluderà,come detto, solo con l'istituzione di una ‘nuova creazione’ alla fine dei tempi, quando l'intervento di Dio ripristinerà la bontà dell'universo.

L’enfasi posta sulla responsabilità umana caratterizza invece decisamente l'Epistola di Enoch nel corpus enochico. Nessun testo del giudaismo enochico ha affermato come l’Epistola che l’origine sovrumana del male non elimina o nega la responsabilità umana.

Peccato e redenzione, Urzeit e Endzeit, protologia ed escatologia sono indissolubilmente legate in tutta la tradizione enochica. È stata questa tradizione a sviluppare per prima l'idea apocalittica di una nuova creazione come rimedio alla corruzione del male e ad immaginare il tempo del giudizio universale come un tempo di vendetta ma anche di perdono, quando i peccatori che si pentono saranno giustificati dalla misericordia di Dio. Ed è stata la tradizione enochica che per prima ha sviluppato l'idea di un messia celeste come agente e giudice di Dio alla fine dei tempi. Queste idee rimasero molto controverse e generarono un acceso dibattito tra i diversi gruppi del giudaismo del Secondo Tempio, plasmando direttamente anche il nucleo strutturale del primo movimento di Gesù.

Alle origini del movimento cristiano è dedicato il saggio di Tripaldi: Paolo, profeti e prostitute: Giovanni a Patmos e la nascita ‘ufficiale’ di un genere. Il rapporto fra Giovanni (l’Autore della Apocalisse) e Paolo (e i suoi discepoli) si rivela come un rapporto generativo e fondante per lo scritto di Giovanni. Su questo rapporto e la sua centralità per una rilettura dell’Apocalisse è storicamente lecito, secondo l’autore, continuare a riflettere nell’ottica di una rilettura paolina o (giudeo) ellenistica dell’ Apocalisse. Giovanni rappresenta l’esperienza profetica come analisi e svelamento ‘in ispirito’ dell’interiorità umana e insieme come anticipazione del giudizio atteso per la fine dei tempi: «Io sono colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le sue opere» (Ap 2,23). Ma Giovanni scrive anche riferendosi a una situazione della Chiesa, alla ekklesia di Tiàtira (Ap 2,18 ss.). Un momento centrale di questa lettura è la visione della Gerusalemme dal cielo, descritta in dettaglio, come è noto, in Ap 21,9 - 22,5. Di essa vengono misurate le dimensioni: lunghezza, larghezza e altezza (21,16). La città manifesta e incarna la gloria di Dio (21,11.23). La scansione geometrica triplice sembra ricalcare espressioni metaforiche simili, usate per descrivere l’assoluta insondabilità e magnificenza della potenza sovrana e salvifica di YHWH, che promette di essere muro di fuoco intorno e gloria nel mezzo di una Gerusalemme ricca e popolosa, bloccando così e svuotando di senso ogni tentativo di cingerla di cinta muraria e padroneggiarne ‘larghezza’ e ‘lunghezza’. Da testi grosso modo contemporanei a Giovanni si possono elencare, tra gli inconoscibili divini, precisamente «la profondità della tua via» e «la gravità del tuo sentiero».

La letteratura apocalittica del giudaismo medievale – che è al centro dello scritto di Massimo Giuliani, Temi di apocalittica ebraica nel Talmud e nel tardo midrash ‒ attesta una prima e decisa apertura d’interesse per la ‘storia delle nazioni’, seppur sempre interpretata in chiave israelo-centrica e religiosa, interesse che fiorirà poi durante l’umanesimo e il rinascimento, specie nel contesto italiano. Se non si può negare che permangano anche in età medievale elementi apocalittici rivoluzionari radicati in una concezione politica del messianismo, tuttavia, accanto a quegli elementi strutturalmente mitizzanti e utopici, la ricezione del messaggio apocalittico avviene spesso in termini spirituali. Nel corso dei secoli l’ebraismo (ci si potrebbe chiedere se sotto l’influsso del cristianesimo) viene sviluppando un’idea di messia più religiosa che politica, e associata più alle sofferenze ebraiche (dove il sofferente di Isaia 53 è Israele) che alla vittoria delle forze del bene sulle forze del male in un Chaoskampf escatologico. Non di meno il Talmud, come celebrazione dell’halakhà e per quanto rappresenti il massimo del katechon quale ‘forza che trattiene’ e si oppone alla disparizione dello stesso Israele, conserva pagine che confermano il senso catastrofico dell’approccio apocalittico al messia. Dietro molte espressioni del Talmud sta la consapevolezza che la catastrofe, in tutti i sensi, è un segno chiaro: quando il male raggiunge il suo apice ed è colma la misura della sofferenza di Israele, allora si può sperare – attendere – la redenzione. Ogni messianismo, non solo quello ebraico, è sempre una riproduzione di questo paradigma. La logica del ‘tanto peggio tanto meglio’ soggiace al genere letterario dell’apocalittica perché è nel ‘peggio’ che il messia viene. È dalla crisi che prende avvio il processo della redenzione.

Secondo il rabbinismo del II secolo la fede nell’avvento del messia si incrocia con un pensiero politico che ammette obtorto collo l’ineluttabile forza dell’impero romano, destinato a governare ‘tutto quanto il mondo’, ma al contempo la giudica e le prospetta, in una visione religiosa, la sconfitta e la fine fissate per bocca del profeta. La profezia usa la metafora della donna gravida e delle doglie di un parto che avviene necessariamente ‘dopo nove mesi’, il tempo naturale della gestazione. Questi riferimenti sottendono l’accettazione della supremazia di Roma in termini di geopolitica militare (di politica internazionale, diremmo oggi), quasi fosse una forza della natura che deve fare il suo corso, anche dal punto di vista ebraico; tuttavia è un corso che termina quando giunge il tempo delle ‘doglie del parto’ (metafora rabbinica dell’avvento messianico) e il ‘figlio di David’ porrà fin e alla malvagità di Roma. Il messia qui non è solo il ‘redentore di Israele’ ma anche il ‘giudice del mondo’ che punisce la violenza e l’arroganza politica. Non si tratterà di un evento indolore: la redenzione messianica ha un prezzo e soprattutto viene attraverso un trauma. Nel prezzo e nel trauma dell’evento redentivo – il traumatico prezzo della giustizia, rileva Emmanuel Levinas – sta il senso filosofico e teologico delle metafore che il Talmud conserva pur nella volontà di andare ‘oltre il patetico’ dello stesso immaginario apocalittico.

Quanto al nesso apocalittica/profezia il teologo novecentesco Abraham J. Heschel propone di pensare l’apocalittica, nella storia ebraica, come un sostituto della profezia e una sua continuazione in forma surrogata e nostalgica. In altre parole, l’apocalittica riempirebbe il vuoto creato dalla cessazione della profezia (nel V secolo); è ascolto versus visione, in quanto «il profeta ascolta, l’apocalittico vede». L’apocalittica nasce nella lotta di coloro che si struggono per la profezia.

Non poteva mancare una specifica attenzione all’Islam con lo scritto di: Pejman Abdolmohammadi, Apocalisse islamica, messianismo e influenze persiano-cristiane. Il concetto di apocalisse, a differenza delle altre questioni escatologiche, non viene definito in modo specifico dal Corano. Vi sono, infatti, solo alcuni versetti che indicano, in modo piuttosto velato, alcuni aspetti apocalittici come, ad esempio, il versetto 158 della sura di al-An’am (del Bestiame) che recita: «Aspettano forse che vengano gli angeli o che venga il tuo Signore o che si manifestino i segni del tuo Signore? Il giorno in cui sarà giunto uno dei segni del tuo Signore, all’anima non servirà a nulla la [professione di] fede che prima non aveva [fatto] e [essa] non sarà utile a chi non avrà avuto un merito.»

Uno degli autori più interessanti che negli ultimi anni ha trattato il tema dell’apocalisse nell’Islam è David Cook. Dal suo punto di vista la questione dell'apocalisse e degli eventi che la riguardano, compreso l’emergere di un salvatore e un anti-salvatore, rappresentano un argomento importante all’interno dell’islamologia. Le radici della formazione di queste credenze apocalittiche e salvatrici devono essere valutate secondo quattro fattori importanti: a) i contesti locali-tribali; b) gli eventi storici; c) l’interpretazione del Corano; 4) le fonti straniere. Il tema dell’apocalisse ha avuto due momenti di elaborazione nella dottrina islamica: il primo, durante la vita di Mohammad e il secondo nel periodo post-mohammadiano e, in particolare, tra il primo e il secondo secolo della storia islamica. Mohammad aveva forti convinzioni sull'imminenza della fine del mondo e molti dei primi musulmani sembravano credere che questa fine sarebbe avvenuta durante la sua vita. Una delle ragioni dei primi successi dei musulmani nelle conquiste (o invasioni) dei primi secoli dell’Islam, sarebbe stata proprio la credenza nell’imminenza dell’apocalisse. L’evoluzione dell’Islam in Siria e, in una certa misura, nella zona che oggi conosciamo come Iraq ha influenzato la formazione delle convinzioni sull’apocalisse islamica. Questo perché queste due aree geografiche erano un crocevia di culture e religioni diverse, in particolare del cristianesimo, dell’ebraismo e dello zoroastrismo. Tutte hanno una propria percezione dell’apocalisse e hanno influenzato la visione islamica. Tuttavia l’Islam, sia nella sua accezione sunnita sia in quella sciita sviluppa successivamente una propria autonoma versione dell’apocalisse.

Un approccio teologico (cristiano) all’apocalittica viene presentato da Nitrola: L’Apocalittica: una dimensione essenziale della teologia cristiana. Con escatologia l’autore intende il discorso sulla realtà ultima, finale, definitiva; con apocalittica, invece, una forma che l’escatologia ha assunto nel tardo giudaismo e poi nel cristianesimo primitivo. Se il rapporto della teologia con l’escatologia non ha mai fatto problema perché questa è una sua parte, il rapporto con l’apocalittica ha rappresentato e rappresenta una questione aperta per la teologia. Nitrola si riferisce – e non è il solo in questo fascicolo di «Filosofia e Teologia» a farlo – a Ernst Käsemann, che ha sostenuto la tesi che l’apocalittica è diventata la «madre di tutta la teologia cristiana». Madre significa non solo l’inizio, ma anche ciò che ha segnato tutta la teologia seguente, dandole, come fa la madre con i figli, qualcosa del suo DNA. Anche se, per la delusione per la mancata parusia, questa apocalittica, dopo aver resistito in un piccolo gruppo giudeo-cristiano, incontra il suo fallimento, ugualmente di questa apocalittica qualcosa doveva restare: «Il suo motivo centrale era la spe­ranza nell’epifania del Figlio dell’Uomo veniente per la sua intronizza­zione». Ci si chiede allora se una teologia cristiana possa mai esistere ed essere legittima senza questo motivo che è sgorgato dall’esperienza della pa­squa e ha determinato la fede pasquale. Al di là, ma anche attraverso i suoi ‘miti’, l’Apocalittica dà forma a una visione dell’uomo che insieme con il mondo è in cammino verso la venuta finale di Gesù come compimento della salvezza.. Che il mondo passi non è per Johannes Weiss solo un’idea, ma innanzitutto una Stimmung escatologica, cioè un sentire, uno stato d’animo e quindi una sorta di modo di porsi. Troviamo questa Stimmung apocalittica spiegata nel modo più sollecitante in Franz Overbeck. La teologia, per lui, è il frutto di un compromesso con il mondo, perché i suoi ‘pezzi’, ossia le sue parole, i suoi concetti, le sue argomentazioni, la sua ‘impalcatura’, sono presi dalla cultura e non dal mito originario, che anzi diventerà ciò che andrà continuamente tradotto, risultando perciò sempre più sbiadito fino all’insignificanza. In questo senso una teologia critica potrà essere per il cristianesimo una protezione contro tutte le teologie che sono convinte di rappresentarlo conciliandolo con il mondo, oppure che lo inaridiscono riducendolo a una vuota ortodossia che lo separa completamente dal mondo. Una teologia sistematica è ciò che la teologia critica vuole mettere in crisi, smascherando e portando a chiarezza ciò che c’è ‘sotto’, perché attenta a corrispondere all’appello apocalittico. Seguendo la Stimmung apocalittica del cristianesimo originario, scopriamo allora secondo Nitrola che l’apocalittica non rappresenta per la teologia solo un tema centrale e insuperabile, ma anche la voce che la rivela costitutivamente in crisi. Si può affermare che l’apocalittica ‘vede’, annuncia e rende reale la crisi intesa come il giudizio di Dio sul mondo che ne decreta la fine. Paolo sapeva che la crisi apocalittica era parte integrante dell’annuncio cristiano e perciò stava nel fondo del suo pensiero al modo di una ineliminabile Stimmung. Credere e perciò corrispondere alla crisi apocalittica significa mettere in crisi il sistema, e cioè interrogarlo e fare questione delle sue provenienze e delle sue aperture, e così inserirlo in un cammino in-finito. In questo modo l’apocalittica non rappresenta solo la prima fase della storia della teologia, né semplicemente offre alla teologia un motivo (o più motivi) della sua riflessione, ma rappresenta una dimensione della teologia, cioè qualcosa che l’accompagna sempre, che c’è dove c’è teologia.

Lo studio di Annese: Gesù e l’apocalittica. Le tendenze della ricerca e due casi di studio (Lc 10,18; logion Freer) traccia anzitutto i lineamenti delle molteplici accezioni di «apocalittica». Con «apocalittica» si può intendere: a) un genere letterario, caratterizzato da determinati elementi formali (centrale è qui la cornice narrativa rivelativa) ma anche da specifici contenuti, b) una visione del mondo, rappresentata da una serie di motivi teologici, come l’attesa di un intervento di Dio il cui giudizio escatologico riguarderà non solo il cosmo/le nazioni ma anche gli individui. Importante è dunque la percezione di una discontinuità tra due eoni, quello presente, dominato dal male, e quello futuro, il regno che Dio – eventualmente mediante una figura messianica – instaurerà sconfiggendo le potenze maligne che hanno pervertito la creazione e accogliendovi gli eletti. Nella storiografia degli ultimi decenni la nozione di apocalittica è stata declinata principalmente in due varianti: quella derivata dagli studi di John J. Collins, che insisteva sull’apocalittica come genere letterario, e quella che si rifà all’impostazione di Christopher Rowland, che invece è prettamente formale e insiste sull’elemento visionario-rivelativo dell’apocalittica, giungendo però a obliterarne il decisivo carattere escatologico. Va poi menzionata quella che potrebbe essere definita una terza opzione, ovvero l’accezione di apocalittica adottata da Paolo Sacchi, per il quale l’apocalittica giudaica andava in sostanza a coincidere con una tradizione religiosa, la tradizione enochica (cui è dedicato il primo saggio di questo fascicolo); caratteristica principale di essa sarebbe il focus sul problema dell’origine del male (unde malum!), a cui si rispondeva identificandone una genesi preterumana. La tendenza attuale della ricerca è quella di cercare di far interagire fruttuosamente le diverse istanze. Lo studio di Annese riflette le diverse tendenze storico-esegetiche appena ricordate, in particolare la dicotomia tra la lettura di tipo escatologico e quella di tipo mistico. In questo contesto Annese ha inteso concentrarsi sulla dimensione escatologica, dalla cui centralità non sembra si possa prescindere. D’altra parte le due dimensioni citate, escatologica e mistica, non sono da opporre; che Gesù avesse un pensiero escatologico-apocalittico sulle questioni del regno, del giudizio post mortem, della portata e durata del potere demoniaco sull’eone presente, non significa misconoscere l’elemento rivelativo: si potrà pensare a «rivelazioni che hanno a che fare con l’escatologia».

Il dibattito sull’escatologia di Gesù si è spesso declinato come la contrapposizione tra due modelli, definibili «escatologia apocalittica» ed «escatologia sapienziale». Se per il già citato Johannes Weiss e per Albert Schweitzer Gesù aveva un’escatologia apocalittica in quanto concepiva il regno di Dio come una realtà futura e trascendente, secondo altri la predicazione di Gesù era orientata in senso etico-sapienziale: ll Nazareno e i suoi primissimi seguaci avrebbero concepito il regno come una realtà storicamente realizzata – non futura, inaugurata dall’intervento diretto di Dio, ma presente e immanente. Una terza serie di studiosi è poi tornata a difendere, con nuovi argomenti, la tesi del Gesù escatologico-apocalittico. In funzione di sintesi si può osservare che è storicamente assai più plausibile ritenere che sia l’«escatologia sapienziale» ad essere secondaria rispetto a quella «apocalittica»: la prima allontana Gesù da quelle che invece erano istanze certamente presenti nel suo contesto storico, e lo stesso vale per i primi stadi della trasmissione delle sue parole. Quanto alla predicazione del regno, più che l’ipotesi che si tratti di una realtà esclusivamente futura o presente, all’autore appare plausibile l’ipotesi dialettica che Gesù ritenesse il regno come almeno in parte già presente, già all’opera, anche se la sua completa instaurazione doveva ancora realizzarsi. Con l’attività di Gesù il tempo del regno era già iniziato e chiamava gli individui alla decisione ultima, alla metanoia, alla ridefinizione della propria identità, all’abbandono dei beni e dell’ordine sociale costituito, per poter entrare nel regno.

Con lo studio di Francesco Berno, «Liquet quod Testamentum novum geminum est»: note su autorità rivelativa ed esperienza visionaria in Gioacchino da Fiore entriamo nella storia delle ricezioni dell’Apocalisse giovannea, una storia assai sfaccettata e plurale. L’ubiqua presenza di allusioni, citazioni, riecheggiamenti del testo del veggente di Patmos nelle diverse fasi redazionali e nei diversi strati testuali che è possibile scorgere dietro l’intera produzione di Gioacchino rende la Rivelazione giovannea un vero e proprio cantiere perennemente aperto per il monaco calabrese.

Da questa frequentazione dell’Apocalisse giovannea consegue che, se la Scrittura restituisce plasticamente una forma di comprensione dell’evento cristiano sempre più perfetta ed esaustiva, tuttavia una riserva di rivelazione attende d’essere attinta e ascoltata: da tale prospettiva, interpretare spiritualmente l’Apocalisse giovannea significa eo ipso superare quelli che per Gioacchino sono i limiti veritativi del Figlio, ovvero affacciarsi oltre i confini della Scrittura sacra codificata per comporre una nuova rivelazione. Deve essere sottolineata la particolare posizione riconosciuta da Gioacchino al libro dell’Apocalisse, attraverso la quale si rende evidente una particolare sensibilità verso il duplice carattere di termine che esso rappresenta: collocato al limine del canone cristiano, esso esaurisce e completa la rivelazione del Figlio, che qui si sospende, inaugurando quella dello Spirito, ancora da comporre. La natura ultima della rivelazione giovannea secondo l’ordine dei testi neotestamentari, restituisce, in definitiva, il compimento di una economia rivelativa dentro l’annuncio apocalittico di una fine.

Come sottolinea Lothar Vogel nel saggio Martin Lutero e l’Apocalittica il grande esegeta del Nuovo Testamento Rudolf Bultmann considerò l’apocalittica come elaborazione «mitologica» – e perciò da «demitizzare» – di una «escatologia» cristiana più ampia, di cui prediligeva la dimensione di presente. Tra il 1962 e il 1964 il dibattito nel merito culminò nel confronto tra Bultmann ed Ernst Käsemann, che difendeva l’apocalittica come «madre della teologia cristiana» ed espressione della speranza di un cambiamento reale, come si è già visto. La discussione moderna sull’apocalittica di Lutero ha avuto due stagioni principali. La prima, all’inizio del Novecento, è caratterizzata dalla dialettica tra i teologi Ernst Troeltsch e Karl Holl. Essi sono d’accordo su due presupposti: 1) il mondo ‘moderno’ è caratterizzato dall’eclisse di un’escatologia definibile come apocalittica; 2) la Riforma del Cinquecento inaugura una modernità autenticamente cristiana. Secondo Troeltsch l’elemento liberatorio della Riforma risiede nell’elaborazione della fede cristiana come «religione della convinzione» (Gesinnungsreligion). Intesa così, la fede consente di superare le ansie innescate dall’attesa del giudizio e la pretesa della chiesa istituzionale di offrire mediazioni e alleggerimenti. Lutero appare così per Troeltsch in una luce ambigua. Da un lato, la sua accentuazione cristologica promuove la religione della fede, l’etica della convinzione (Gesinnungsethik), in modo da suggerire un’innovativa «apertura verso il mondo» (Weltoffenheit). Dall’altro lato, mantenendo la dottrina del peccato originale e l’escatologia convenzionale, il teologo di Wittenberg mostra «tratti conservatori e restaurativi». Karl Holl invece, figura chiave del «rinascimento luterano» (Lutherrenaissance), presenta un Lutero più ‘moderno’, portatore di un pensiero teologico immediatamente fruibile. Il dissenso tra i due interpreti, pur essendo focalizzato sull’etica, si ripercuote sull’interpretazione dell’escatologia. Holl presenta Lutero come araldo di una «religione personale» che rompe con una teologia concentrata, in maniera eudemonistica ed egocentrica, sull’acquisizione individuale della salvezza oltremondana. Egli deduce dagli scritti di Lutero un’escatologia del presente.         La ricerca successiva a Holl ha riconosciuto le unilateralità di questa lettura. Pur ripetendo la tesi di un’escatologia luterana contrapposta alla precedente fuga eudemonistica nell’al-di-là, Paul Althaus aggiunge due elementi che accomunano Lutero agli altri riformatori principali del Cinquecento: 1) egli ha vissuto «in un’intensissima coscienza storica di tipo escatologico»; 2) si è fermamente opposto alle attese millenaristiche coltivate presso quelle tendenze che una generazione successiva della ricerca avrebbe denominato «radicali». Le visioni escatologico-apocalittiche di Lutero sono concentrate sulla coscienza, senza che sia annullata, però, l’attesa di un «giorno» di trasformazione cosmica. Esse caratterizzano anche i suoi Catechismi, pubblicati nel 1529. In ogni caso due elementi dell’apocalittica di Lutero meritano attenzione particolare anche oggi: 1) l’impegno a unire nel discorso de Deo la «parola» e il tempo vissuto, evitando una sorta di astrazione che si dissolve nell’artificialità; 2) la tesi secondo cui scopriamo «le cose come sono» soltanto a posteriori. In questa breve formula si esprime un’opacità del presente per chi lo vive, anche se crede di esserne padrone in termini intellettivi o di potere.

Il saggio di Fallica, Una mistica razionale: Lessing e Das Testament Johannis suggerisce una lettura del pensiero religioso di Lessing attraverso Das Testament Johannis (1777), e accentua la centralità di una dottrina della caritas ‒ storicamente radicata nell’agape mistica del vangelo giovanneo ‒ intesa come dispositivo anti-apocalittico, che relativizza l’elemento dogmatico e dualistico che sarebbe tipico dello stesso Quarto vangelo. Lessing contrappone esplicitamente il «testamento» apocrifo, che riassume l’insegnamento del Cristo riconducendolo ad essenziale dettato etico («figlioli amatevi»), al prologo del vangelo di Giovanni, che sarebbe rivelazione di un radicale dualismo apocalittico che contrappone il Figlio preesistente, intimamente unito al Padre e che sceglie e attrae a sé gli eletti, al mondo delle tenebre, incredulo e apostata. Con una distinzione peculiare di Lessing, se l’apocalisse giovannea è il cuore della religione cristiana, fondata sulla rivelazione esclusiva di un Figlio che elegge e separa, a partire dalla fede nel dogma della sua identità divina e potenza elettiva del suo Spirito, l’antiapocalittica e antidogmatica religione di Cristo è per Lessing aperta, tollerante, pluralistica, perché fondata sul dono universale della ragione.

Così, alla parola del vangelo di Giovanni, che facendosi dogma divide, e alla Parola del Prologo, non più uomo ma dio preesistente, si oppongono le «ultime memorabili parole, di volta in volta ripetute, di Giovanni: “Figlioli amatevi … Perché, se viene fatto, questo solo è sufficiente, questo solo basta”». Deve essere sottolineata la crucialità di questo messaggio di Das Testament Johannis nel pensiero lessinghiano e la sua rispondenza con l’azione drammaturgica di Nathan der Weise, nell’appello comune alla verità interna e universale della religione, ascoltata nella varietas delle molteplici, infinite benedizioni divine. Il giudice della parabola dei tre anelli narrata da Nathan, invita a sforzarsi di «imitare il suo [di Dio] amore incorruttibile e senza pregiudizi» invece di pretendere l’unicità del possesso. All’elezione particolare del discepolo amato, con cui pur si apre il suo testo, Lessing contrappone l’insegnamento, razionalmente attingibile a chiunque, dell’amore reciproco, fondamento di una nuova società e di un nuovo cristianesimo.

In Apocalittica e profetismo in Buber e Bloch Pierluigi Valenza richiama che profezia e apocalittica, come termini consolidatisi nella storia della cultura e dimensioni interpretative della vita umana, hanno avuto il loro terreno di nascita in ambito religioso. La crisi contemporanea della filosofia della storia proprio in nome del limite della ragione nel possedere i termini ultimi della vicenda umana parrebbe destinata a restituire profezia ed apocalittica al loro contesto originario, al terreno religioso e dell’ermeneutica biblica, sottolineandone una possibile dimensione archetipica.

Questa dimensione archetipica si ritrova in due pensatori di diversa estrazione, Buber e Bloch, i quali, non casualmente, hanno lungamente meditato la questione del senso della storia e del collocarsi dell’umanità in essa. Nel delineare il valore paradigmatico di profezia ed apocalittica essi tracciano letture antitetiche, in direzione del primato della profezia contro l’apocalittica nel primo e in direzione inversa nel secondo.

La profezia instaura per Buber una relazione, che ha come posta in gioco il mutamento dell’essere umano e l’incidenza di questo mutamento sulla creazione. Viceversa, al centro dell’apocalittica non c’è un’interlocuzione, quindi una parola ricevuta e trasmessa ad interlocutori perché agiscano, bensì la traduzione in scrittura della visione dello scrittore apocalittico. Se per la profezia la parola chiave è «decisione», nell’apocalittica domina per l’autore l’inazione, il destinatario della parola non è chiamato a far nulla se non a contemplare uno scenario altrimenti determinato.

Come Buber, Bloch vede profetismo ed apocalittica in continuità sia sul piano storico e scritturale sia sul piano teorico, invertendo però di segno questa continuità. A differenza di Buber, l’apocalittica non è per Bloch espressione della crisi della cultura che ha dato luogo alla profezia, invece la crisi della profezia ne avvia il compimento nell’apocalittica. L’apocalittica esprime una rottura, un movimento di esodo, e con essa la centralità dell’umano, che per Bloch si compendia nella rivelazione cristiana del Dio fatto uomo. L’apocalittica si configura come una visione motrice di cambiamento, espressione di una rottura con l’esistente che diventa premessa del cambiamento da realizzare. Il senso dell’apocalisse è il realizzarsi nell’umanità operante di ciò che chiamiamo «Dio», perché soltanto in quest’operare quel nome mantiene un senso. Secondo il blochiano Atheismus im Christentum la profezia non è affatto un modello opposto all’apocalittica, ne è piuttosto la via. Il profeta rompe con la condizione che lo circonda, è, in questo senso, un distruttore che al tempo stesso distruggendo rende fecondo un al di là non più assunto come tale. In definitiva Buber e Bloch definiscono i rispettivi paradigmi nella ferma convinzione del valore del rinnovamento nella storia come opera dell’essere umano ed in questo senso entrambi alla fine rigettano l’idea della fine del tempo come uno scenario che esonera l’essere umano dalle sue responsabilità. Essi riportano quindi l’apocalittica entro il fluire storico. Bloch ne accetta ed esalta la forma come espressione della rottura e del rifiuto di qualsiasi conciliazione ed accettazione dell’esistente, Buber, forse più correttamente su un piano storico, coglie in essa la crisi della cultura di cui la tradizione profetica era stata espressione.

Per Ludovico Battista (Der Ernstfall. Il problema dell’apocalittica nelle riflessioni teologiche di Hans Urs von Balthasar e Rudolf Bultmann) il termine apocalittico definisce il carattere probabilmente più profondo e decisivo per comprendere storicamente la figura di Gesù e la predicazione dei primi cristiani, ossia l’idea di una nuova rivelazione di Dio. La pretesa apocalittica di «vedere Dio», di annunciarne il «Regno», è la quintessenza dell’esperienza carismatica gesuana di estatico rinnovamento del rapporto con Dio. Per mettere a fuoco questo tema all’interno della teologia del Novecento, vengono evocate due maniere strutturalmente alternative di interpretare la radice apocalittica cristiana: quelle di von Balthasar e di Bultmann. Von Balthasar è preoccupato di difendere e rivendicare una forma di esistenza nella fede che non perda il proprio carattere identitario, che non si smarrisca nell’anonimato come una delle tante, variegate esperienze umane. L’ultimo libro della rivelazione è l’Apocalisse non perché esso sveli profeticamente qualche evento futuro della storia cristiana, ma perché manifesta il mistero della situazione drammatica di conflitto tra Logos e mondo, in cui Dio si espone totalmente alla violenza anti-divina della libertà umana. L’apocalisse è dunque la rivelazione del dramma in cui partecipa e soffre Dio stesso. Bultmann focalizza la propria attenzione sulla escatologia apocalittica. C’è oggi unanimità sul fatto che la predicazione del regno di Dio da parte di Gesù è stata un messaggio escatologico, e l’unico punto controverso è se egli abbia predicato il regno di Dio come realtà ormai imminente, che anzi già emerge nelle cacciate di demoni che egli compie, o come presente nella sua stessa persona. Proprio quest’ultima alternativa, però, rivela un punto nevralgico della riflessione bultmanniana sull’apocalittica. Da un lato, infatti, per Bultmann Gesù è un predicatore apocalittico che condivide un immaginario fatto di visioni, attese e previsioni profetiche, che prospettano l’irruzione del giudizio sotto forma ancora mitica. D’altro lato Gesù si distinguerebbe in maniera decisiva dalla precedente mentalità apocalittica. Ciò che conta della predicazione gesuana non è la rivelazione di eventi drammatici e le aspettative fantastiche dell’uomo relativamente a ciò che verrà: il centro del suo messaggio è piuttosto l’effetto di questa predicazione sull’uomo, che è posto di fronte ad un appello inaggirabile all’obbedienza e alla penitenza, chiamato a decidersi di fronte all’aut aut del giudizio. In altri termini, Gesù tramuterebbe determinate dottrine escatologiche e la loro dimensione futura in una escatologia ormai attualizzata, ovvero trasformata nell’urgenza di un «ora!» inderogabile, di un esser posti di fronte all’irruzione della fine, che impedisce qualsiasi neutralità e qualsiasi indecisione. La de-mitologizzazione non è quindi frutto di una tarda razionalizzazione moderna dell’istanza kerygmatica, ma è inscritta nella radice apocalittica stessa del kerygma come parola inappropriabile e indefinibile di Dio. Perciò potremmo dire che per Bultmann l’apocalittica è l’intera chiave di lettura dell’esperienza protocristiana, che non è comunità storica, ma escatologica.

Paradossalmente la de-mitologizzazione bultmanniana dell’apocalittica pare più autenticamente e seriamente apocalittica della logica teofanica di von Balthasar. Questi, nonostante l’apocalisse sia riaffermata nella sua potente e violenta dimensione immaginativa e simbolica, rimane intimamente un origeniano e un anti-agostiniano, un sostenitore di una mistica della kenosi come verità ultima di Dio e dell’esperienza umana. Egli è in definitiva orientato ad un modello tendenzialmente sapienziale di comprensione dell’apocalisse come conoscenza del mistero abissale della passione di Dio in Cristo, e dell’umanità sprofondata in lui, operando un’implicita conciliazione tra radice escatologico-dualistica cristiana e libertà umana. Al contrario, il ‘liberale’ Bultmann, sostenitore della matrice cristiana dei processi di de-mitologizzazione e secolarizzazione moderna, rimane in realtà un luterano e un agostiniano, concependo la rivelazione di Dio come evento dialettico, dono assoluto di grazia, che trascende il mondo e chiama ad una relazione del tutto espropriante con Dio, la quale relativizza e svuota qualsiasi possesso, conoscenza e identità mondani.

Chiude il fascicolo una riflessione sul nostro tempo. Che cosa dica al presente e che cosa solleciti a pensare oggi una Stimmung apocalittica, è quanto si propone di fare Michele Nicoletti in Apocalisse e tempo presente, una riflessione. La cifra apocalittica di un fenomeno storico non sta tanto nel quantum di male che esso contiene, il quanto di morte e di distruzione, ma nel quantum di male presente nell’essere umano che esso rivela, e nel quantum di sofferenza innocente che esso porta con sé. Così appare particolarmente antiumana la violenza sugli inermi, da qualsiasi parte essa provenga. Questa violenza ha il sapore di una potenza anti-cristica, la quale rifiuta che la via, la verità, la vita siano l’Agnello, ossia appunto l’inerme, e vogliono affermare la salvezza apportata dalla ferocia della spada. Una riflessione sugli scenari apocalittici suggerisce tuttavia di non limitarsi alla lettura delle ‘grandi catastrofi’ per interpretare la fine dei tempi o meglio il giudizio sul tempo. Dopo i grandi mali, si annuncia il ‘regno finale’ dell’Anticristo che precede il ritorno del Signore. Questo male finale è oscuro, è mysterium iniquitatis, il mistero dell’anomia (2 Tess 2, 7). Ora, l’anomia, il disordine, il caos non si manifestano in modo diretto, ma si nascondono sotto un ordine apparente. In tante rappresentazioni apocalittiche il regno finale non è il regno del caos, ma il regno del male perfettamente organizzato, iper-organizzato, iperfunzionale. ‘Comprare’ e ‘vendere’ sono le azioni permesse dalla prima bestia dell’Apocalisse sotto il proprio marchio. Erik Peterson ha commentato: «Dopo la caduta di Babilonia lo splendore del politico si manifesta nella forma del profitto economico dei commercianti internazionali». La seconda bestia esercita tutto il potere della prima e costringe tutti gli uomini ad adorarla. Compie prodigi e attraverso questi riesce a sedurre tutti gli abitanti della terra. È quindi portatrice di una scienza speciale e di una tecnica raffinata. Il rapporto tra il potere della prima bestia e il sapere della seconda bestia non è un rapporto di subordinazione del potere al sapere, del potere alla verità, del potere alla giustizia. È un rapporto capovolto. Il sapere, la scienza, la tecnica, sono tutte al servizio del potere della bestia. Sono propaganda. Sono falsificazione della realtà. Da parte nostra, osserva Nicoletti, se una fine del mondo deve arrivare, stiamo facendo del nostro meglio per rallentarla. Non abbiamo le energie dei rivoluzionari impegnati ad ‘accelerare’ la fine di tutte le ingiustizie e a salutare, finalmente, l’avvenire di un nuovo mondo. Ci basta questo mondo e ce lo teniamo stretto. Non aspettiamo nessun ritorno del Signore. Tuttavia, per rimettere al suo posto la morte e contrastare il suo imperio, occorre per Nicoletti riaprire l’orizzonte di un futuro in cui «non vi sarà più maledizione» e «non vi sarà più notte» (Ap 22). Questa è forse la lezione dell’Apocalisse, di questo tempo ultimo che aspetta la fine, ma non è ancora la fine e che rivela che, nel frattempo, c’è ancora tempo. C’è ancora del tempo per cui l’eterno può entrare attraverso di noi nel nostro tempo. C’è ancora del tempo per testimoniare, come i giusti che resistono alla bestia, che il male non è invincibile. C’è ancora del tempo per fare (un po’ di) giustizia. C’è ancora del tempo per capire che nessun regno terreno – nemmeno un ipotetico regno cristiano di mille anni – ci metterà al riparo dalla tentazione, perché «quando i mille anni saranno compiuti» (Ap 20, 7) Satana verrà di nuovo liberato e di nuovo sedurrà tutta la terra. C’è ancora del tempo per sperare in un nuovo cielo e una nuova terra, perché questo, oltre ogni catastrofe, è l’annuncio dell’Apocalisse.