Gli "storici steccati"
politico-ecclesiastici hanno gravato in quest’ultimo secolo
sulla cultura italiana e sui suoi sviluppi con un peso
sconosciuto in altri paesi europei. Oggi siamo in grado
di valutare senza meraviglia, ma anche senza alcun compiacimento,
questo fenomeno tipico della nostra tradizione politico-culturale
più recente, e non sottovalutare neppure i costi pagati
perché anche l’Italia potesse darsi uno Stato all’altezza
delle esigenze moderne, assolutamente laico, civilmente
ed intellettualmente libero. Non a caso una definitiva
soluzione della “questione cattolica” è stata possibile
con il superamento di ogni dissidio integralistico e con
l’accettazione di un assetto istituzionale garantista
e pluralista. Tener conto di questi dati, peraltro ben
noti, vuol dire non potersi affatto stupire del fatto
che mai nelle “cronache di filosofia italiana” di questo
secolo si sia potuto registrare il tentativo di un dialogo
sistematico non già tra filosofia e teologia, ma solo
tra filosofi e teologi sulla base di un reciproco interesse
della ricerca e del sapere, e di un confronto discorsivo
giustificativo dalle ampie regioni di cultura e di pensiero
comuni, nonostante i lunghi e tradizionali conflitti.
Tutto ciò se si escludono, ovviamente, tanto il caso della
“filosofia cattolica” quanto gli episodi di dialogo originati
da occasionali preoccupazioni del dibattito politico ed
etico-sociale. In questo clima è accaduto che, in forma
di radicalità più diffusa e intransigente rispetto ad
altri paesi, l’intellettuale di formazione laica sia stato
indotto alla pura e semplice identificazione dei problemi
teologici con quelli “privati” di uno spiritualismo religioso
o con quelli di una dogmatica di esclusivo interesse delle
Chiese. D’altra parte l’atteggiamento ufficiale dell’autorità
della Chiesa Cattolica ha tratto profitto da una situazione
di illuministica tolleranza, favorevole alla conservazione
dell’ortodossia, e sufficientemente sterilizzata per lo
stesso sviluppo della ricerca teologica.
C’è qualcosa di profondamente mutato però nel panorama
dell’intelletto europeo e della stessa tradizione culturale
da cui ha tratto origine, non solo in Italia, la consolidata
scissione tra fede e sapere e tra sapere teologico sapere
filosofico. Molti assetti disciplinari e scientifici sono
già stati messi in questione da un pezzo, in questione
sono i fondamenti del sapere, in dubbio molte certezze
linguistiche della tradizione metafisica. Non pochi interrogativi
gravano sulla filosofia ed altrettanti colpiscono la teologia.
Può la filosofia, ci si chiede ad esempio, per sopravvivere
alla sua tradizione, restringersi all’ambito disputabile
continuamente di una “debole” epistemologia, o risolversi
soltanto nella sua storia storiografica? e la vulnerabilità
di ogni principio universale non la costringe ormai a
rivedere la sua stessa intelligenza critica che appare
come svuotata dalle oggettive limitazioni tecniche delle
mille competenze scientifiche? In che misura allora essa
può considerarsi ancora coinvolta nella formazione razionale
del senso? Se queste e numerose altre domande riguardano
il destino della filosofia, per la prima volta la teologia
si trova a fronteggiare esperienze impreviste. Scoprendosi
investita da una dimensione ed una responsabilità planetarie,
non facilmente riconducibili alla solidificata tradizione
culturale eurocentrica, essa è costretta a misurarsi non
solo con le persistenti divergenze confessionali ma con
le più radicali formulazioni dell’ateismo, con le dimensioni
storiche dell’esperienza profana, con l’ecumene delle
dottrine religiose più diverse. D’altra parte esigenze
di continua reinterpretazione del dogma le impongono un
ritorno esegetico alle fonti originarie ed ai suoi problemi
storici di fondazione. Se pertanto affini alla situazione
della filosofia possono dirsi il necessario investirsi
della teologia nelle dimensioni “negative” della modernità
e la corrispettiva interrogazione radicale sulle origini,
meno affini sembrano poi le procedure di pensiero adottate.
Vale a dire il tendenziale frantumarsi della ricerca nello
specialismo teologico, l’utilizzazione e talora l’emulazione
sempre più intensa delle scienze umane, il confronto con
prospettive ontologiche e cosmologiche che presuppone
l’abbandono degli orizzonti enciclopedistici e delle pretese
sintetiche. Insomma un’apertura incondizionata di fiducia
a modelli di razionalità proprio nel tempo in cui le stesse
ragioni di verità di questi ultimi vengono messe in discussione.
In un clima propizio al generale disconoscimento di privilegi
e di primati epistemici, in una situazione che non consente
facili giustificazioni per reciproche preclusioni di principio,
ci si può chiedere quasi programmaticamente: può configurarsi
un diverso obbligo critico della filosofia che la indirizzi
non solo, come si ritiene per lo più, in direzioni metalinguistiche
di tipo analitico e epistemologico, ma anche in una nuova
dirittura di problematico incontro con le questioni teologiche?
E può configurarsi un obbligo critico della teologia che
la esponga alla necessità di un nuovo incontro con la
filosofia non più solo quale sede classica di fondazione
razionale della verità (preambulum fidei) o di
mero ausilio ad un compito apologetico?
È necessario tuttavia riconoscere che questa situazione
spirituale della nostra epoca non è affatto un dato ovvio
ed evidente per tutti, tanto meno lo sono le conseguenze
che da essa possono derivare per il pensiero. Resta così
molto diffuso quel modo di vedere la filosofia e la teologia
quali termini di un’antitesi irresolubile dell’esperienza
e della conoscenza. Si continua ad individuare nel loro
“rapporto” l’antica inconciliabilità tra sapere critico
e sapere dogmatico, pluralismo gnoseologico e monismo
della verità, storia della cultura civile e storia della
cultura religiosa. Non potrebbe invece diventare chiaro
che questa opposizione non è superabile se non a prezzo
di una sua almeno parziale dissoluzione? E quest’ultima
questione diventi un compito del conoscere non solo lecito
ma perfino essenziale? Non si può più escludere infatti
che la stessa antitesi di fede e sapere si mostri, come
tale, insignificante rispetto alle prospettive ermeneutiche
di una integrale comprensione dell’uomo. Se così fosse
un’apertura di dialogo storicamente avvertita non potrebbe
che avvenire su basi del tutto nuove rispetto a quelle
di un passato anche recente, e dirsi orientata non più
dalla ricerca classica di mediazioni al servizio di questo
o quell’interesse di verità ma, al contrario, dall’indagine
sulle più originarie condizioni di pensiero cui entrambe,
filosofia e teologia, appartengono per ragioni storiche
ma anche per ragioni antropologiche e metafisiche.
Una rivista non è che una sede di ricerca e di dibattito.
Collocandosi nella prospettiva di tali problemi non può
certo ambire a risolverli ma solo a prospettarne una consapevole
interpretazione, esserne un segno. Non di più, ma neppure
di meno. Perché il segno è anche in grado di indicare.
Le indicazioni della rivista dovrebbero poter giovare
a filosofi e teologi di tutte le convinzioni, ma anzitutto,
com’è chiaro, a trarre fuori teologia e filosofia dalle
condizioni di reciproca diffidenza ponendole invece in
una ravvicinata condizione di scambio e di confronto proficui.
Ogni altro orizzonte, pur valido a sollecitare impegni
di indagine, fa parte di quei possibili su cui non è prudente
fare affidamento in anticipo.