FILOSOFIA E TEOLOGIA
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l tema del dono e della «gratuità», che in una o l'altra delle sue tante sfaccettature torna così di frequente nel dibattito filosofico e teologico dei nostri giorni, non è certo estraneo alle pagine di questa rivista e alla sensibilità degli studiosi che maggiormente ne condividono la responsabilità. Provarsi a rimodularlo in relazione alla «contingenza» è però una scelta non scontata, che merita qualche preliminare chiarimento. Il fatto è che, oggi, la categoria della contingenza trae nuovo senso e nuova forza inclusiva dall'imporsi di una più radicale consapevolezza della finitezza ontologica dei nostri orizzonti di riferimento. I progressi della scienza e le drammatiche vicende del secolo da cui proveniamo concorrono nel mettere in questione la legittimità della ricerca di una spiegazione e di un senso ultimi del nostro essere al mondo e dell'esserci stesso del mondo. Sia nella nostra visione della natura e del cosmo sia nel campo delle cose umane e della conoscenza morale la contingenza sembra emergere come la cifra stessa del reale. Come riguadagnare la dimensione del ‘gratuito’ a fronte di un mutato quadro categoriale in cui la stessa opposizione necessità/contingenza chiede, dunque, di essere pensata diversamente? Come stanno assieme gratuità e contingenza? Questo, in estrema sintesi, il problema che muove gli studi qui proposti a scavare, ciascuno a suo modo, dentro lo statuto teorico e la storia di entrambi i concetti. Che ci sia appunto un problema può valer la pena di mostrarlo, per così dire, a cose fatte, seguendo il filo di un certo ragionamento ‘comune’ che, sia pure sottotraccia e con significativi scambi dialettici, mi sembra correre nell'intera raccolta.

In prima battuta, la ‘gratuità’ appare come un modo di farcisi incontro, della contingenza: l'aspetto sotto il quale a certe condizioni viene maggiormente in evidenza quello che Telmo Pievani, in una felice conclusione del suo saggio Per un' etica della contingenza, chiama il «valore morale» della contingenza. A sua volta la contingenza, ossia la condizione di quel che, essendo o andando in un certo modo, potrebbe tuttavia senza contraddizione andar diversamente (la memoria dell'endechòmenon aristotelico qui è d'obbligo), viene in gioco come lo sfondo nel quale potrebbe prendere senso la dimensione del gratuito e del dono. In questo circolo c'è una distanza che va preservata: non tutto ciò che è contingente si iscrive necessariamente nell'ordine del gratuito e non tutto ciò che è gratuito si iscrive necessariamente nell'ordine del contingente. Si guardi, per intenderci, al bel saggio di Mancini su Gratuità e senso dell'economia, dove il mondo si iscrive più che mai nell'ordine di quel che può andar diversamente e il gratuito è energicamente prospettato come principio di un'economia alternativa e leva di svolta verso di un diverso possibile ordine cosmo-politico.

Senonché, proprio qui le cose si complicano: nel modo di tenersi assieme dei due concetti si appalesa una sorda opposizione, qualcosa come una rivalità irrisolta che non da oggi fa nodo. Provo a riassumere la cosa attingendo liberamente soprattutto dal saggio di Massimo Naro, uno dei più attenti al cesello formale e, se posso dire così, ‘filologico’ della questione. Nella tradizione moderna della metafisica, governata dal principio di ragione sufficiente, la dimensione della contingenza è quella che massimamente si oppone, per certi versi, alla gratuità: è l'ambito in cui si fa maggiormente presente l'istanza o se vogliamo l'assillo, comunque si voglia abissale, del fondamento. Contingente è infatti ciò che, potendo sempre essere o andar diversamente invoca a giustificazione del proprio darsi la causalità di un agente, totalmente altro quanto alla natura o alla forma, il cui intervento basti a riportarne l'occorrenza sotto l'istanza di una regola generale. Sappiamo bene che la valorizzazione della contingenza all'interno di un’ontologia radicale della finitezza, passa per l'energico rigetto di un’immagine della ragione governata in ultima istanza dal principio di ragion sufficiente. Ma a lasciarsi troppo in fretta alle spalle quest'immagine si corre l'opposto rischio di una pacificazione troppo a buon mercato. Contro lo sfondo della contingenza modernamente intesa il gratuito si stagliava nettamente come il fenomeno di una smagliatura irreparabile del fondamento, di una inopinabile deroga alla sovranità del principio di ragione. Ma se ora si scopre che alla pretesa di sovranità quel principio ha già rinunciato di suo, i conti non tornano più: la ‘categoria’ del gratuito finisce per collassare su quella del contingente e la distanza che andava salvaguardata si distrugge, con esiti catastrofici per la filosofia e la teologia. La rosa di Silesio perde il suo incanto se si scopre che tutto quel che arriva al mondo e il mondo stesso sono fatti del suo stesso conio. E che resta, per converso, del contingente nel monastero di Lisieux, dove alla saggezza della piccola Teresa si svelava che «tutto è grazia»? Nel ritrarsi del principio di ragione il contingente è divorato dalle teologie della finitezza e della gratuità altrettanto ghiottamentequanto il finito in Hegel; in cambio, lo spericolato «non importa. Tutto è grazia», avventato contro l'ignoto dal curato morente di Bernanos, prospera senza rischi nel pacificofar spallucce di un Candido che nemmeno alla scuola di Voltaire abbia perso il vizio dell'ottimismo.

Ecco perché l'impresa di mettere in mora il principio di ragione sufficiente è delicatissima e richiede una particolare cautela della riflessione. Preziosa mi sembra a riguardo l'indicazione di Rosa Maria Lupo, che nel saggio sulla «teologia debole» si affatica a mostrare in che modo e fino a che punto una simile impresa torni a insistere segretamente sulla traccia leibniziana di una teodicea sia pur letta in controluce, sullo sfondo delle domande del nostro tempo.

L'invito alla cautela critica mi sembra un motivo ricorrente della raccolta. C'è in mezzo, fra gratuità e contingenza, qualcosa come un passaggio, uno scarto e un valico, non visibile in prima battuta, che va portato in chiaro per impedire che la figura stessa del circolo si perda, schiacciata fra gli estremi della reciproca esclusione e della totale sovrapposizione. Alla ricerca di questo passaggio, gli otto studi riattraversano, ciascuno in una propria ottica, gli scenari del vasto moto di ripensamento di cui dicevo all'inizio. Con eguale lucidità i saggi di Pievani e Morandini, che pure approdano a conclusioni opposte, esplorano l'inedito spazio logico-epistemologico che i progressi delle nostre conoscenze biologiche e cosmologiche hanno offerto alla dimensione del fortuito, dell'imprevedibile, del marginale: la contingenza non si oppone alla dimensione della causalità, della legalità, della soggezione alla regola, ma nemmeno vi si lascia più ricondurre; semplicemente, convive con essa. È appunto questa indifferenza, a togliere consistenza alla ricerca di un fondamento ultimo della nostre aspettative di senso.Un'inedita pulsione ontologica si lascia apprezzare nella sconsolata lezione che già Kant e a suo modo, per altro verso, Leopardi ci avevano trasmesso: non c'è nessun ordine morale postulato dalla natura, nessun disegno teleologico, ultimo e primo, cui le sue leggi rimandino e che abbia senso cercare nel fondo insondabile della vita dell'universo e nel cielo stellato sopra di noi. E d'altra parte, al cospetto di un simile quadro di lettura ontologica della finitezza, non vi sarebbe fallacia maggiore che provarsi a rovesciare le carte in un estremo ricorso al principio di ragione. Su questo molti contributi insistono inflessibilmente: sarebbe solo un imperdonabile colpo di mano trarre da questo stesso quadro di radicale riproposizione della contingentia mundi una sorta di paradossale riconferma della necessità di confidare la salvezza del senso a una spiegazione 'esterna' o 'trascendente', connotata dai caratteri della gratuità e dell’imprevedibilità propri dell’azione di un dio 'nascosto'. Anche al Dio della fede, che ad Auschwitz rimase in silenzio, sta stretta addosso la titolarità di un disegno ultimo e imperscrutabile di salvezza, cui agli uomini e al cosmo sia dato oscuramente di cooperare.

Per questa via, il varco dalla contingenza alla gratuità è dunque sbarrato e ad attestarne oscuramente l'apertura non resta che l'ascolto credente della parola rivelata, come sottolinea Bellia nel suo saggio L’ambiguo rivelarsi di Dio nella natura e nella storia, che non a caso su questo versante si preoccupa sin dall'inizio di stabilire una significativa distanza epistemologica della teologia biblica anche nei confronti della teologia sistematica.Ostinarsi nella ricerca senza la dovuta cautela critica sarebbe come ferire la sensibilità del secolo da cui proveniamo e dal quale, tragicamente, nessuna caduta di muri ha avuto potere di farci uscire. Eppure, resta nel contingente un’intima istanza di rassicurazione, di salvezza che non può rimuoversi con leggerezza perché si inscrive essa stessa in quella sensibilità. C'è nella ricerca del fondamento qualcosa come un movimento del desiderio, che va colto e interpellato in se stesso prima che nella sua materia. Dopo tutto-Kant non mancherebbe di ricordarcelo: l'opposizione necessità/contingenza è una figura della riflessione, che ha a che fare con la modalità, prima che con il contenuto, del giudizio.

A voler seguire questa pista occorre forse un lavoro di scavo più delicato che, senza abbandonare il terreno e l'orizzonte della contingenza, consenta di addentrarsi oltre, magari facendosi largo fra le pieghe della storia complicata e avventurosa del suo concetto. Non è irrilevante che nel nome e nella nozione latina di contingentia, così com’è stata lavorata nella tradizione della metafisica medioevale e moderne, s’incontrino in un unico intreccio due diversi lasciti aristotelici egualmente cruciali e concettualmente impervi: da un lato la figura dell’endechòmenon, l'attitudine, da parte di ciò che è in atto, di accogliere in sé il diverso, la meravigliosa possibilità di mutare, di andare diversamente, di deviare a un tratto dal percorso già segnato ? dall'altro quella del symbainein (più espressamente trasmesso dalla parola latina) l’arrivare insieme, l'incidentale provvisorio toccarsi in un punto di due o più serie causali senza origine comune, l'incontro fortuito da cui prende avvio una nuova serie causale. La dimensione del gratuito,in questo intreccio, non la si coglie interrogando le cose, e le idee, gli uomini, e la storia ? all'indietro, in direzione di quel che sempre, irrimediabilmente, sono stati e saranno, ma in avanti, in direzione di quel che ancora, forse, possono diventare. È possibile che non vi sia nessun disegno precostituito, nessun progetto sotteso, nessun senso stabile da cercare per l'apparire della vita nell'universo, dell'intelligenza nella vita e della responsabilità per l'essere nell'intelligenza. Ciò non impedisce però che questa stessasequenza sia vissuta e intesa comecosa buona?se vogliamo, una buona ventura? e che la tyche stessa sia vissuta come un bene del quale ci ritroviamo a rispondere per quel che ancora può diventarne. E non è anche questo è un modo di ritrovarci già da sempre coinvolti nella causa del bene di cui pure ignoriamo la provenienza? La dimensione del gratuito, del dono, può essere per intero reinvestita nella relazione che in vista del meglio ci impegna precisamente nei confronti di «ciò che può andar diversamente», vincolandoci a rispondere, nella ‘prossimità’, di qualcosa della cui provenienza e destinazione non c'è dato disporre (non importa se abbia il volto del viandante esanime sulla via di Gerico o quello del Dio che viene a salvarci). In breve:la gratuità della causa del bene dove gratuità può anche indicare il fatto che essa fiorisca senza perché, che manchi un disegno ontologico di cui disporre a garanzia delle ragioni del bene non ne turba la fioritura.

Se praticata in questa la direzioneindicata soprattutto da Giorgio Palumbo nel suo saggio su Le ragioni del bene la ricerca del valico che fa distanza e insieme tiene in comunicazione gratuità e contingenza, consente di tener ferma nella figura della ‘gratuità’ una sorta di trascendenza della causa del bene. È quanto a Palumbo sta particolarmente a cuore concludere. Ma qui la disputa torna ad accendersi e forse si fa più sottile, perché a guardar la cosa da un altro verso, non necessariamente questo senso della trascendenza porta oltre la contingenza e non necessariamente tradisce l'assunto di un’ontologia radicale della finitezza, che con esso avrebbe comunque da fare i conti.

Non si tratta in ogni caso di una direzione obbligata. Lo attesta il saggio di Pievani che insiste sull'invalicabilità a ogni livello dell'orizzonte della contingenza e fa del rispetto di questa condizione una disciplina etica irrinunciabile. Non è nemmeno una direzione immune da ricadute inquietanti. Sa ben piantare chiodi a riguardo Guglielmo Russino che nella configurazione del gratuito, del senza perché, intercetta acutamente, sulla scorta dello Pseudo Dionigi, il tema platonico dell'exaiphnes e, in questo, coglie una radice possibile del religioso ma, insieme, anche il possibile tramite di quella deriva esclusivista e violenta che sembra segnare il destino storico di ogni appartenenza religiosa.

È però a mio avviso una pista feconda, che induce a rivisitare la tradizione metafisico-teologica da cui proveniamo. Dopo tutto ? è anche questo uno spunto che traggo da Palumbo ? il movimento eterno degli astri che pure, nella Metafisica aristotelica come nella Commedia dantesca, risponde del fiorire delle stagioni e della vita nel modo sublunare non si genera affatto in vista di questo effetto mirabile, del tutto estraneo all'oggetto del desiderio per il quale incessantemente prende avvio.A ben vedere c'è una cesura irriducibile nella curvatura teleologica nel movimento che volge eternamente in circolo gli astri, senz' altra ragione che non sia il puro desiderio dell'amato: «l'amor che muove il sole e le altre stelle» o, per Aristotele, il dio «cui sono appesi i cieli e l'intera natura». Stando così le cose, porre il tema della relazione fra gratuità e contingenza potrebbe essere un modo di chiamare a rispondere di questa cesura, per ripensarlo dalle fondamenta, l'ordine di «quel che governa»: quello che i Greci chiamavano l'archè. Dove il principio di ragione non ha più il governo ultimo sulle cose, il campo della relazione fra gratuità e contingenza potrebbe coincidere con il campo stesso di insorgenza delle cosiddette «cause prime». Interrogarsi a suo riguardo non potrebbe essere allora ? è un'ipotesi che avanzo a titolo del tutto personale ?un modo di domandare non già quale sia e se vi sia la causa prima dell'universo e del nostro modo di starci dentro, ma come debba in genere pensarsi qualcosa come una causa prima?


Giuseppe Nicolaci