La questione teologica, sia in filosofia che in teologia, si è sempre più spostata dalla contrapposizione tra teismo e ateismo, con la conseguente discussione sulla validità o meno della ‘prove’ dell’esistenza di Dio in un mondo impregnato di mentalità ‘scientifica’, al dibattito sul tema «quale Dio?», ossia sulla ‘idea determinata’ di Dio cui ci si riferisce nell’affermarlo o nel negarlo.
Il pluralismo religioso, che la globalizzazione con le sue molteplici conseguenze ha diffuso anche all’interno delle società un tempo religiosamente omogenee, ha accentuato tale dibattito, sollecitando le diverse tradizioni religiose a ripensare la propria visione di Dio, purificandola dalle incrostazioni culturali e dalle proiezioni antropologiche di cui era rivestita e in qualche modo deformata fin dai propri stessi testi fondatori, per reinterpretarne l’idea non solo alla luce della propria ispirazione originaria, ma anche della coscienza critica e della sensibilità etico-religiosa maturata nel confronto con la modernità e con le altre concezioni religiose.
D’altro lato, almeno in Occidente, il processo di secolarizzazione ha modificato profondamente lo statuto sociale della fede, operando il passaggio da una società in cui la fede in Dio, cristianamente connotata, era incontestata e non problematica, ad una società in cui essa viene considerata un’opzione tra le altre, problematica e tormentata. La fede, cioè, in epoca secolare non si trasmette più semplicemente per tradizione, famigliare o sociale, quasi per osmosi ambientale di qualcosa di ovvio per tutti, ma è sempre più oggetto di scelta consapevole e criticamente avvertita, di fronte ad un pluralismo crescente di credenze e non credenze. E si presenta sempre meno in forma di adesione complessiva alla interezza di un ‘credo’, ma con adesioni differenziate, spesso parziali o graduali, secondo il convincimento personale cui si è giunti e che può facilmente variare. Il che suppone il mutamento dell’intero contesto in cui avvengono le nostre esperienze spirituali, morali e religiose, e quindi il cambiamento delle stesse condizioni di possibilità del credere religioso.
Riflettere su ciò in cui crediamo o non crediamo, come pure su ciò in cui si crede o non si crede attorno a noi riguardo a Dio, diventa così un problema non solo personale ma culturale, ossia un rendersi conto del proprio tempo, dei cambiamenti in esso avvenuti e delle possibilità che esso offre; un orientarsi nelle contrapposte forme di indifferentismo e di fondamentalismo religiosi, come pure nelle varie forme di riconfigurazione riflessiva della fede religiosa che si vanno delineando.
La nostra rivista ha recentemente dedicato due fascicoli che in diversi modi affrontano il tema di ‘quale Dio?’.
Il fascicolo 2/2014 dal titolo «Il Dio sospeso» lo fa a partire dalle suggestioni dell’opera del filosofo Richard Kearney Ana-teismo (nel senso di ‘dopo’ e ‘ancora’ il teismo), che propone di smarcarsi dalle roccaforti del ‘teismo dogmatico’ e dell’‘ateismo militante’ per «re-immaginare Dio» nel processo di «reciproco apprendimento» tra le buone ragioni della negazione atea e quelle della tradizionale affermazione teista; quasi un «ritrovare Dio dopo la morte di Dio». I vari contributi sono particolarmente attenti alla esigenza, propria del pensiero critico moderno, di ‘tenere in sospeso’ Dio per esercitare il diritto di discernere le figurazioni che vanno abbandonate da quelle che, ‘re-immaginate’, possono nuovamente coinvolgerci esistenzialmente. Ma sono anche attenti a quella nuova forma di coscienza religiosa per la quale sarebbe Dio stesso a ‘tenersi in sospeso’, dato che mentre si dona senza riserve all’uomo, al tempo stesso si sottrae ad ogni evidenza oggettuale che s’impone, lasciando così aperto lo spazio ermeneutico della libera indagine critica e della libera progettazione umana.
Se questo fascicolo era particolarmente impegnato a scandagliare la particolare ‘modalità’ della fede in Dio oggi possibile, il secondo fascicolo, quello 2/2015 dal titolo «Nuovi sguardi su Dio», entra più direttamente nei contenuti del ripensamento o ‘ri-configurazione’ dell’idea di Dio che è in atto nel pensiero teologico e filosofico cristiano, prendendo in esame alcuni ‘attributi’ tradizionali di Dio, come quello della onnipotenza, della provvidenza, della santità/sacralità, della personalità e della Trinità. Ma anche ad attributi meno frequentati come quello della misericordia; o affatto nuovi come quello della umiltà. Così, ad esempio, ci si sta orientando a pensare l’‘onnipotenza’ di Dio non più come ‘compiuta perfezione del poter fare’, foriera di tante aporie teologiche e di tante prassi violente, bensì come ‘potere di relazione’; di una relazione di amore che non imponendosi mai con la forza risulta intriso di ‘debolezza’; quella «insuperabile debolezza di Dio per l’uomo» di cui già parlava Schelling. Quanto alla provvidenza di Dio, la si va svincolando dalla credenza pre-moderna di interventi puntuali straordinari di Dio nella storia, ritenuti incompatibili con la coscienza scientifica moderna, per ricuperarne il senso di un modo di stare al mondo in confidenza filiale con Dio, che sempre sta creando per amore all’interno dei dinamismi autonomi della evoluzione cosmica e storica. La misericordia di Dio, da parte sua, viene pensata come ‘passione generatrice e salvatrice’, in stretta connessione con l’idea di giustizia, non più intesa come retribuzione di meriti e colpe ma come quell’‘amore più grande’ che guarda alla dignità infinita di ogni uomo; e con l’idea di verità non più intesa come un dato ‘oggettivo’ che ci sta di fronte ma come quel ‘divenire veri’ di fronte al fratello che ci coinvolge personalmente.
Dal complesso del fascicolo risultava così emergere il chiaro intento di scindere l’idea di Dio dal volto ambiguo del ‘sacro’, tale perché ad un tempo ‘affascinante’ per il suo amore beatificante e ‘tremendo’ per la sua immane potenza e la sua rigorosa giustizia; a favore di una visione di Dio tutto e solo amore e misericordia.
Il fascicolo che ora presentiamo, dedicato a «Il Giudizio di Dio. Misericordia e giustizia», prosegue la riflessione in stretta connessione con tale problematica, approfondendola sia dal punto di vista teorico che storico. La visione di un Dio tutto misericordia, peraltro oggi ripetutamente proclamata da papa Francesco, sembra infatti contrastare con la tradizionale visione del Cristo giudice della fine dei tempi, che salva o danna per l’eternità secondo i meriti di ciascuno. Come descritto, ad esempio, nella parabola di Matteo 25, 31-46; o illustrato in forma possente da Michelangelo nella Cappella Sistina. Ove la misericordia, in tale affresco del giudizio finale, sembrerebbe non avere più alcuno spazio, se non forse perché presente, sia pur relegata in poco spazio nella figura della Madre del Figlio di Dio, raffigurata accoccolata e tremante al fianco del Cristo che con gesto imperioso scaraventa i dannati all’inferno.
Ancora oggi, svincolare la religione, qui in particolare il cristianesimo, da tale immaginario non è cosa facile. Ancora troppo radicato il nostro concetto di giustizia come retribuzione secondo il merito; e, soprattutto, il nostro concetto di ristabilimento della giustizia attraverso una pena vendicativa commisurata alla gravità del male commesso. Una misericordia che si risolvesse in un perdono indiscriminato di Dio per tutti i peccatori, sembrerebbe decisamente contrastare con l’idea di giustizia che noi trasponiamo in Dio quale suo attributo fondamentale; non senza il riferimento alle immagini della giustizia divina presenti nella Bibbia e ampiamente debitrici della mentalità etica del tempo.
D’altro lato, anche tenendo presente, sul versante della misericordia, la volontà salvifica universale dell’amore di Dio attestata dalle Scritture, essa non sembra potersi spingere fino ad imporsi infallibilmente alla libertà umana, togliendole la capacità di dire di no a Dio anche in modo definitivo. Tale capacità sembra infatti inerente alla libertà umana e il suo rispetto, anche da parte di Dio, rende problematico il pensiero di una apocatastasi salvifica universale; che pur è stata avanzata nella tradizione cristiana.
Proprio su questo ultimo problema si apre il nostro fascicolo con il saggio di Claudio Ciancio su «Giudizio di Dio e salvezza universale». Vi si affronta il tema dal punto di vista sia filosofico che teologico, esaminando le varie soluzioni proposte per conciliare le due divergenti istanze: quella etica della discriminazione tra bene e male, che comporterebbe un giudizio finale di condanna dei malvagi, e quella teologica di un senso complessivo del mondo, che comporterebbe il trionfo del Regno di Dio e quindi la salvezza finale per tutti. La soluzione che Ciancio propone è indubbiamente originale. Rifacendosi al carattere autodistruttivo del male, si osserva che se il male si autodistrugge – e distrugge chi lo compie – sembra possibile pensare l’idea di un Regno finale di Dio in cui tutta la realtà effettiva sarà salvata in quanto degna di essere salvata.
Di taglio più strettamente teologico è il saggio di Antonio Nitrola su «La teologia e il giudizio di Dio». Vi si trova una ricca carrellata delle varie posizioni teologiche, anche le più recenti come quella di von Balthasar, che cercano di conciliare, nel Giudizio finale di Dio, la giustizia e la misericordia. Non senza la segnalazione dei limiti di tali soluzioni e la proposta di una propria soluzione: il ‘giudizio di Dio’ non può essere inteso alla luce delle nostre categorie giuridiche, ma va lasciato alla libera e sovrana valutazione di Dio in riferimento al criterio ‘Gesù’, proprio della rivelazione cristiana. I nostri giudizi, infatti, sono solo e sempre penultimi e non si possono mai proiettare in Dio come tali.
Un’interessante rilettura della nozione biblica di ‘giustizia’ e di quella di ‘giudizio di ciò che è giusto’ da parte di Dio ci è offerta dal saggio di Carlo Manunza, che inizia con il renderci attenti alla diversità della nozione biblica di giustizia da quella della tradizione greco romana e occidentale. Mentre questa concepisce la giustizia come la corrispondenza di una azione con una norma, la prima la concepisce come la corrispondenza di una persona con la pienezza di vita nel rapporto con gli altri. Più in particolare, nella visione biblica la giustizia fa riferimento alla Legge di Dio, che sta alla base dell’alleanza ed è fonte di vita per l’uomo. E il giudizio di Dio è giusto perché fa riferimento alla giustizia di Dio, nel senso della sua piena affidabile o fedele all’alleanza; cosa che non si verifica nell’uomo. In conclusione, nella Bibbia la fedeltà/giustizia di Dio si presenterebbe come hesed (traducibile con misericordia, giustizia, grazia...) e il suo giudizio come un atto di amore che non tende alla condanna ma alla conversione del peccatore.
Di carattere filosofico-religioso gli spunti di riflessioni offerti dal saggio di Sergio Sorrentino, che cerca di mettere in luce le esperienze umane di base che permettono di cogliere il senso del discorso religioso sul giudizio di Dio. Vi si esamina, in particolare, l’esperienza umana della giustizia, sia in relazione alla convivenza umana che all’esistenza etico-morale degli individui, cui è essenziale l’idea di un giudizio positivo o negativo; senza di esso l’esistenza storica si svuoterebbe di senso. A ciò si aggiunge l’esperienza del male, avvertito come scacco della ‘giustizia’, spesso non riconosciuto come tale dal giudizio storico. Ed è proprio questa esperienza di inadeguatezza del giudizio storico rispetto alla realtà etica individuale o collettiva che viene indicata come il punto di partenza esistenziale della coscienza religiosa per il rimando al ‘giudice divino’ come istanza ultima di giustizia. Quanto alla misericordia, si ricorda che il suo ambito semantico originario è quello della dignità violata e dell’integrità disattesa. Nella tradizione religiosa biblico cristiana, essa si rivolge soprattutto al giusto sofferente e al povero depauperato. Come si possa rivolgere, da parte di Dio, anche all’operatore di ingiustizia, resta una possibilità che supera la comprensione filosofico-religiosa, date le aporie e i paradossi che presenta.
Dopo questi saggi di carattere prevalentemente teoretico, seguono, come ‘figure’, alcuni saggi di carattere prevalentemente storico. Anzitutto un ricco saggio di Giacomo Gambale, «L’Inferno. Teologia ed estetica della pena», che indaga la concezione teologica medioevale delle pene dell’inferno che soggiace alla prima cantica della Divina Commedia di Dante. Con ampia documentazione teologica e giuridica vi si studia l’origine della visione della giustizia retributivo-penale che sta alla base della teologia dell’inferno, individuandone i presupposti soprattutto in Agostino, ove la visione biblica della giustizia sarebbe interpretata in riferimento al concetto greco-romano di giustizia retributiva. Col risultato che «il sacro sacralizza il giuridico, mentre il giuridico giuridicizza il sacro». Le pene eterne di contrappasso corrisponderebbero ad una visione del cosmo perfettamente razionale e di alto valore estetico, di cui Dio è il sovrano assoluto e ove ad ogni rottura dell’ordine razionale (crimine) corrisponde un perfetto ristabilimento di tale ordine tramite la giustizia della pena (come penseranno anche Kant ed Hegel) . Una concezione del ‘sistema inferno’ che avrà impressionanti realizzazioni terrene nel sistema penale moderno e nei lager nazisti, ma senza il senso dello ‘spettacolo’ estetico delle pene dell’inferno come gioia dei beati e contributo alla armoniosa bellezza dell’universo. Criticamente, l’autore osserva come in tale visione il concetto biblico originale di ‘giustizia’ quale ‘amicizia’ che salva anche tramite la correzione della pena sarebbe andato del tutto perduto. Come pure sarebbe del tutto assente la dimensione cristologica della kenosi di Dio che porta su di sé i peccati del mondo.
Un secondo interessante sondaggio storico è dato da Francesco Piro con il saggio che ricostruisce il dibattito sul giudizio finale di Dio tra i filosofi e i teologi tedeschi del XVIII secolo, a partire dal confronto di Leibniz con il teologo origenista J. W. Petersen fino alla ripresa e modificazione del tema in Kant tramite la mediazione di Wolff. Criticata l’idea della apocatastasi e ritenute insoddisfacenti le posizioni tradizionali sui premi e le pene eterne, si fa strada la visione tutta moderna di una dinamica ‘naturale’ della connessione tra virtù e premio e tra colpa e castigo, ove la punizione vendicativa delle colpe appare come parte dell’ordine della natura, in armonia con quello della Grazia.
Un terzo sondaggio storico è costituito dal saggio di Gian Paolo Cammarota sul filosofo neokantiano ebraico Hermann Cohen. Nella visione di Cohen, il Giudizio di Dio non è inteso ‘miticamente’ come momento escatologico riguardante la fine dei tempi, ma, sulla linea di una particolare interpretazione del messianismo ebraico, come giudizio su ogni momento della storia terrena; e non come un giudizio di condanna, ma come atto di redenzione che sempre si rinnova nella storia e per la storia, indirizzandola verso la meta di un mondo pienamente morale. Una posizione che diverrà esemplare nella corrente razionalizzante del messianismo ebraico novecentesco e che non mancherà di avere ampi echi anche in Emmanuel Levinas.
Della parte non monografica del fascicolo, ci piace segnalare il saggio di Giovanni Filoramo su «Il Giubileo nella storia del cristianesimo», data la stretta connessione che esso ha non solo con l’evento del «Giubileo della misericordia», indetto da papa Francesco per il 2015-2016, ma anche con la dialettica dei rapporto tra giustizia e misericordia in Dio che ha caratterizzato tutto il corso del pensiero cristiano. Il saggio presenta in sintesi le origini bibliche e le principali fasi della storia del Giubileo, a partire dal primo, promulgato da Bonifacio VIII nel 1300, fino a quello voluto da papa Giovanni Paolo II nel 2000. Un contributo storico che non manca di documentare l’intreccio storico delle questioni teologiche con gli interessi propri della istituzione ecclesiale.