Il lettore ricorderà
certamente le Affinità
elettive di Goethe. Senza pretesa
di fornirne un’interpretazione, è forse
possibile però assumerle a spunto per
considerare il viluppo di problemi che
abbiamo inteso assumere a tema. Nel romanzo,
all’interno della storia principale, che si
snoda intorno ai quattro protagonisti, è
incastonata, come se ne fosse la gemma più
preziosa, una breve novella intitolata Gli strani
figli di due vicini. Edoardo e
Carlotta, le due figure portanti della
storia, in gioventù hanno provato reciproca
attrazione, ma, seguendo convenzioni
sociali, hanno contratto matrimoni
d’interesse che li hanno allontanati. Solo
dopo la fine di questi, si ritrovano e si
uniscono in matrimonio. L’intervento nella
loro vita di un vecchio amico di Edoardo, il
capitano, e di Ottilia, nipote di Carlotta,
vengono a turbare l’equilibrio che avevano
saputo costruire intorno alla loro nuova
vita in comune. Ne segue una serie
considerevole di tragici eventi, che hanno
tutti la loro origine nella passione insorta
in Edoardo per la giovane Ottilia e
nell’inclinazione di Carlotta per il
capitano.
Nella novella siamo di fronte a una sorta
d’immagine a specchio. I due giovani, il cui
nome non ci viene detto, nonostante
l’evidente reciproca affinità che fin da
bambini li avvicina, si rifiutano in ogni
modo a un legame. Solo più tardi, dopo che
ciascuno ha intrapreso la propria strada,
essi sono portati a riconoscere il loro
amore. Per sfuggire al matrimonio, cui ormai
si è promessa, la giovane, in una gita sul
lago, si getta allora in acqua, pronta a
morire. Ma il ragazzo la trae in salvo e,
scampato il pericolo, la coppia confessa a
sé e alle proprie famiglie l’amore che li
unisce e che si tradurrà in matrimonio.
Come detto, senza voler osare con ciò
un’interpretazione complessiva di
quest’opera goethiana, possiamo ricavarne
una serie di elementi forse utili per
illuminare il nostro tema. Tre sono le forze
in campo in questa vicenda: il mito, le
ragionevoli convenienze della società, la
libertà. Se volessimo dare ragione a
Benjamin, che delle Affinità
elettive ha proposto
un’interpretazione mirabile, il mito, ovvero
la pura passione come cieca potenza di
attrazione o repulsione, ha una forza
barbarica cui è difficile sottrarsi. Ma
anche il logos delle convenienze ha una sua
forza incatenante, per quanto debole, e
anch’esso è indifferente alla verità. I
matrimoni, che realizzano socialmente questa
logica, sono esposti al fallimento e il
personaggio che nel romanzo s’industria a
tenerli insieme ha già nel nome, Mittler
(mediatore), la propria ironia. Il logos è
insomma un altro mito, un mito della
società, ma un mito più debole di quello
della natura. Da nessuna parte, qui, ha
posto la libertà. Che invece nella novella
svolge il ruolo decisivo. Sull’orlo della
sconfitta è determinante un gesto di
libertà, e non tanto di sacrificio, quello
della giovane che per amore mette in gioco
la propria vita. Come fa il ragazzo che la
salva, seguendo il proprio impulso e
abbandonando il timone della nave, e così
salva entrambi, e introduce, a rottura del
mito, la libertà. Affinità elettive, allora,
frutto di una decisione e di una scelta.
I termini della nostra comune ricerca si
ritrovano qui allora tutti, ma non nella
forma classica e po’ stereotipata, della
pura e semplice opposizione di mito e logo,
ma in quella più complessa e forse più
promettente, di un’immanente barbarie che
soggiace all’uno e all’altro (nella forma
delle convenienze sociali e delle
consuetudini, che incatenano), ma anche di
un possibile riscatto, sull’orlo
dell’abisso, attraverso la libertà.
E l’Europa? Come collegare quanto detto
all’Europa? Forse rileggendo, come in
filigrana, le vicende dell’Europa e
misurandole sullo schema di questo duplice
modello. Il progetto dell’Unione europea,
come nella tragica storia di Edoardo e
Carlotta, muove storicamente dalla
presupposizione implicita di un legame delle
nazioni europee, un legame che poi, per
interesse nazionalistico, è stato negato
nelle guerre del secolo scorso e solo dopo,
resi più saggi dai fallimenti storici, viene
riconosciuto e si fa progetto di unità. Non
è difficile riconoscere in questi tratti
proprio i successivi passaggi della nostra
storia, ma anche constatare, nel riaffiorare
di nuovi populismi e nazionalismi, il
pericolo di fallimento inscritto in questo
modello di comportamento. Forse sarebbe più
fecondo, come nella novella, muovere dal
franco riconoscimento che le diverse
individualità nazionali hanno fatto di tutto
per disconoscere gli elementi di unità e che
il nuovo e più maturo patto nasce solo più
tardi, dopo tante guerre e conflitti e il
pericolo di esserne travolti, solo di fronte
all’abisso della minaccia di una
dissoluzione, solo dopo guerre mondiali (ma
invero prevalentemente europee) sanguinose.
E a condizione, si badi, che questo patto
sia una decisione della libertà, pronta a
mettere in gioco tutto. Solo al termine di
questa tortuosa vicenda potrà allora essere
riconosciuta una vera affinità elettiva.
Proprio filosofia e teologia, che hanno
conosciuto esse stesse un conflitto e una
lotta mortali, che ha condotto la filosofia
fino all’assorbimento e alla negazione dei
contenuti teologici, e la teologia a una
pretesa di svolgere la propria missione
senza riferimento filosofico alcuno,
potrebbero fornire un contributo in questa
direzione, aiutando a costruire su una
libertà, che è superamento sia dell’istinto
sia del ragionevole interesse, quell’unità
politica nuova che è il sogno inedito, e
ancora irrealizzato, del nostro continente.
Concentriamoci dunque ora sul più specifico
contributo cha da queste due discipline
proviene. Maria Cristina Bartolomei, in un
puntuale intervento che ripercorre le
contrastate vicende di queste due
discipline, rivendica il ruolo pionieristico
di una rivista come «Filosofia e Teologia» e
conclude con l’immagine suggestiva, che fa
da logo all’Associazione italiana di
Filosofia e Teologia, delle due colombe,
che, in diverso atteggiamento – l’una
abbeverandosi, l’altra contemplando – , si
ritrovano alla medesima fonte. Nulla di
irenico nel suo bilancio, ma la
consapevolezza profonda, nella diversità,
del comune convergere che attinge a una
medesima fonte.
Questa fonte, oggi, soprattutto in Europa,
ma non solo, appare talmente variegata, da
porre il problema, teorico, di come
concepire il significato di verità in un
contesto di pluralismo estremo. Paolo
Gamberini ha inteso mostrare come l’identità
della religione cristiana non debba avere né
una funzione appropriativa della diversità
degli altri, né debba di necessità mettere
capo alla loro esclusione, ma abbia una
struttura relazionale paradossale in grado
di dar luogo a una vera apertura dialogica,
secondo il modello di un’identità plurale
capace anzitutto di ascolto e apertura.
Maurizio Pagano, senza negare le differenze
di accenti, ma istituendo un proficuo
confronto, ha messo in collegamento la
tradizione orientale della Scuola di Kyoto
con punti nodali della tradizione cristiana
come quelli, decisivi, della trascendenza e
della determinazione del senso, rivendicando
il ruolo che, anche in un contesto di
pluralismo culturale e di globalizzazione
come il nostro, possono avere, se rinnovati
e intesi correttamente, principi come quello
di universalità e di concretezza. Wilhelm
Gräb ha negato validità al mito
interpretativo della secolarizzazione e ha
messo in evidenza come proprio in enunciati
secolari come quelli tipici dei diritti
umani ci sia una pretesa di assoluto, che ha
un carattere intimamente e permanentemente
religioso.
Siamo così alla successiva sezione di
contributi, dove il tema della
secolarizzazione e quello politico assumono
rilevanza particolare. Nello spirito della
ricerca l’implicita domanda è se essi
debbano essere considerati un mito o un
logo, se essi costituiscano categorie e
retaggi da richiedere una correzione e un
superamento razionale o non rappresentino
invece una nuova forma entro cui filosofia e
teologia debbono ripensarsi. Rolf Schieder
contesta il paradigma di una
secolarizzazione trionfante, sottolineando
al riguardo le differenze di paradigma tra
Europa e America, e al tempo stesso rifiuta
il riduzionismo della religione alla sfera
del privato. È vero peraltro che la
religione deve abbandonare la pretesa di
entrare in competizione con visioni del
mondo di tipo politico e globalizzanti per
offrire piuttosto un’adeguata
interpretazione dell’esistenza. Andreas
Feldtkeller mostra come lo schema dominante
di una scienza delle religioni contenga
un’opzioni secolaristica programmatica, la
quale tuttavia mostra quanto poco si sia
riflettuto sul significato del termine
secolare, che si oppone appunto a religione
e quanto questo schema dualistico mostri la
propria debolezza applicato a forme
religiose non occidentali, che non si
lascino definire né come religione né come
secolarità. Carla Danani si ricollega
direttamente al dibattito sul ruolo pubblico
della religione (con esplicito riferimento
alle opposte posizioni di Rawls e Habermas)
per approfondire, oltre la metafora, la
nozione di spazio pubblico. La dimensione
spaziale si rivela per tale via costitutiva
anche dell’esperienza religiosa, dal momento
che non costituisce solo la cornice entro
cui essa ha luogo, ma ne investe anche i
contenuti. Si pone allora il problema di
come comprendere, attraverso una rinnovata
fenomenologia del sacro, un’esperienza di
spazialità che per definizione apre a
qualcosa di non spazializzabile.
La quarta sezione mette a confronto modi
contemporanei di affrontare il tema
religioso. Notger Slenczka ha ripercorso a
ritroso la tradizione protestante (e
specificamente luterana, ma risalendo fino
ad Agostino e a Bernardo di Chiaravalle) che
colloca nella coscienza di sé il fondamento
del possibile riconoscimento stesso di Dio
per rivendicare un momento pre-categoriale,
pre-razionale, immediato come sostrato che
precede e sorregge ogni logo. Ne viene una
fenomenologia dell’autocoscienza che
attribuisce in ultima istanza alla religione
la funzione di sorreggere fiduciosamente
l’uomo nella sua ricerca di sé. Mario
Ruggenini ha visto invece nel linguaggio
l’orizzonte al tempo stesso finito e
inesauribile di ogni possibile dialogare.
Contro le pretese di requisizione anche
religiosa della verità, la parola, aperta a
molteplici significati e inevitabilmente
mescolata anche al fraintendimento, è il
luogo sorgivo dell’incontro di esistenze
finite. È nella verità controversa del
colloquio e contro la pretesa di verità
incontrovertibili della metafisica che la
filosofia si esercita.
L’ultima sezione, infine, presenta
alternative prospettiche della religione
nella società attuale. Andreas Arndt,
muovendo da un testo benjaminiano, si
domanda se sia utile interpretare il
capitalismo come una forma di religione. Ne
scaturisce una risposta negativa, che nega
profondità a questa prospettiva e suggerisce
di contrastare il capitalismo sul terreno
della definizione della ragione. Adriano
Fabris sostiene il carattere impossibile,
perché paradossale e persino superiore alle
forze dell’uomo, delle religioni, in specie
della religione cristiana. E tuttavia
proprio attraverso l’esperienza di
quest’impossibilità (sia teoretica che
pratica) si dischiudono per l’uomo
un’apertura di senso e una prospettiva di
salvezza che gli appartengono intimamente.
Silvia Richter, infine, ripercorrendo la
vita e l’opera di Rosenzweig, ha mostrato
come sia possibile comprendere il
cristianesimo e il suo perenne essere
all’inizio e alla ricerca, a partire da una
riconfermata adesione all’ebraismo. Un
ebraismo che, in tal modo, non viene più a
essere soltanto il prodromo dell’annuncio
cristiano, ma un altro modo, sempre attuale,
di fare esperienza del divino, un’esperienza
non rinchiusa entro una concezione
monologica della verità e perciò capace di
un’autentica apertura interreligiosa.
Nel convegno mito e logo si sono
intrecciati. Qualche volta ciò che poteva
sembrare a tutta prima mito (il radicamento
in una tradizione data, l’immediatezza
pre-categoriale di un’adesione) ha
evidenziato la sua intima e profonda
razionalità, il suo carattere di sapere, sia
pure in forma altra da quella consuetudine.
Altre volte sono stati gli schemi razionali
di interpretazione, come quelli della
secolarizzazione o dell’identificazione
della pluralità con il relativismo, a
mostrare la loro debolezza e il loro
inconfessato carattere di presupposto. I
problemi sono stati gettati sul tappeto e
scandagliati. Ne è uscito il superamento di
ogni narcisistico presupposto di
unilateralità. Teologi e filosofi, cattolici
e protestanti, tedeschi e italiani hanno
lavorato insieme; ciascuno tenendo la
propria posizione, ma ciascuno sapendo che
essa non può stare se non in relazione – di
consenso e di contrasto, in ogni caso di
dialogo – con quella degli altri.
E questo è un modello straordinario per
l’Europa che deve inventare una forma di
unità che non significa unificazione.