FILOSOFIA E TEOLOGIA
Sito ufficiale dell'Associazione Italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia (AISFET)
+ | -

Il termine «autorità» sembra sopravvivere soltanto nell’ambito del discorso sulle competenze scientifiche (una «autorità» scientifica, un giudizio «autorevole») e in alcune sgradevoli forme del linguaggio burocratico come «autorizzare». Dobbiamo pensare che si sia compiuta una felice metabolizzazione di quello che il pensiero novecentesco chiamò – con una fortunata formula di Augusto Del Noce – l’«eclisse dell’autorità»?

Si direbbe che l’esperienza contemporanea sia piuttosto contrassegnata da una sorta di specularità rispetto all’atmosfera tipica dell’ultima parte del Novecento. Se allora si verificava un rigetto o un rifiuto delle autorità riconosciute, prepolitiche o politiche che fossero (padri reali o spirituali, costumi, dettami culturali, affiliazioni politiche o di classe….), ciò che oggi si registra è semmai una ricerca, talora angosciosa, di punti di riferimento o di orientamento (di «padri») e al tempo stesso la diffusa impossibilità che tale ruolo sia assunto in modo credibile . Per anticipare uno dei temi di questo fascicolo, ci si può chiedere se all’epoca del rifiuto dell’autorità non sia seguita quella del rifiuto della responsabilità, che è cosa forse più preoccupante. Il celebre film di Nanni Moretti – lo si era capito già quando comparve ed è ancor più evidente ora – non era una specifica diagnosi sul mondo cattolico né pretendeva di esserlo. Ma esso coglie in ogni caso un tratto caratteristico del nostro tempo rappresentando un uomo che si rivolge a una folla dicendo «La guida di cui avete bisogno non sono io». Come nel film, si può rifiutare il ruolo di guida per onestà, per restare autentici nella propria incertezza. Ma se in altri casi, dietro il rifiuto, vi fosse semplicemente la configurazione di un gioco di potere ancora più sottile e inquietante?

Intorno a queste domande è venuto formandosi questo fascicolo sul tema della auctoritas. All’inizio, il lavoro istruttorio condotto all’interno della redazione meridionale da Francesco Saverio Festa e Elena Cuomo – con interventi che hanno contribuito fortemente all’elaborazione successiva e dei quali non si può che ringraziare gli autori – muoveva da una più specifica domanda: perché mai l’epoca apertasi con la caduta del muro di Berlino, piuttosto che costituire la definitiva sistemazione di un ordine socio-politico compiutamente secolare, non cessi di riproporci costantemente in agenda il tema dei rapporti tra dimensione religiosa (tipicamente «autoritativa») e politica. Il lavoro seminariale svolto dalla redazione ha poi condotto ad un progressivo ampliamento di orizzonte e ad una ripartizione di compiti che è emersa dal dibattito stesso, rispecchiando le molte sfaccettature nuove che il tema assume nella cultura contemporanea.

Si può grosso modo riassumere questa ripartizione di compiti come segue. Un primo ambito di interventi è centrato ancora sul «politico» e le aporie della sua autonomizzazione dalla dimensione religiosa, secondo una linea problematica che si riallaccia a Schmitt e Vögelin, ma soprattutto a Hannah Arendt e Alexandre Kojève (e, più remotamente, alle riflessioni sull’autorità presenti nel pensiero politico italiano degli anni ’20 – Rensi, Capograssi – su cui interviene con un denso e affascinante affresco Aniello Montano nelle ‘figure’ di questo fascicolo). Come vedremo, però, il punto di arrivo è una diagnosi sul presente che diverge per molti tratti da quella consegnataci dalla riflessione novecentesca sul tema e che pone problemi ulteriori. Un secondo gruppo di interventi risale più a monte e guarda alle basi antropologiche della relazione autoritativa e alle ambivalenze delle sue configurazioni tipiche. Un terzo gruppo, infine, riguarda l’autorità vista da una prospettiva teologica e dunque in rapporto alla presenza ineludibile della dimensione autoritativa nell’esperienza religiosa stessa. Si tratta ovviamente di tessere di un mosaico ancora più ampio, ma del quale lasciano cogliere tratti strutturali e ineludibili.

Tra gli interventi che si inscrivono in quello che poco sopra si è chiamato il primo gruppo, va sicuramente segnalato l’intervento di Salvatore Natoli. Partendo dalla riflessione di Alexandre Kojève, Natoli esamina il problema della democrazia contemporanea all’interno del passaggio da una società ‘verticale’ a una società sempre più ‘orizzontale’, ‘policentrica’ e strutturata sul modello della rete. Se, per un verso, tale passaggio diminuisce la pericolosità dell’esperimento democratico rispetto all’epoca in cui tale esperimento prevedeva una irrisolta dualità tra ‘élites’ e ‘masse’, per altro verso esso rende ancor più problematico un altro aspetto della questione ‘democrazia’, vale a dire l’autorevolezza della democrazia stessa, la cui legittimità implica una diffusa capacità degli individui di gestire e valutare processi politici ovvero di esercitare una ‘competenza democratica’. E sulla possibilità di riscoprire e praticare tale competenza si interroga il saggio di Natoli, ripensandola come un investimento morale nel restare vigili e capaci di non farsi ingannare: «Politica è interrogare ogni ricchezza sulla sua provenienza, chiedere ad ogni potere la fonte della sua legittimità». Se posso aggiungere una chiosa, mi sembra che questo tipo di competenza democratica vada pensata come l’inverso di quel processo di identificazione al ribasso che sembra invece così caratteristico delle democrazie moderne, le quali conoscono ancora figure carismatiche, ma, si potrebbe dire, solo allorché dotate di un carisma che chiamerei ‘gaglioffo’ e che sollecita identificazione, piuttosto che valutazione: identificazione per chi usa tutti i mezzi per sottrarsi al codice penale o per chi fa battute razziste o per chi non fa che prorompere in insulti tanto grossolani quanto inutili, e così via.

Ad un’altra grande lettura del tema dell’autorità nel Novecento, quella di Hannah Arendt, si richiamano invece altri contributi di questo fascicolo. L’importanza cruciale del Che cos’è l’autorità? della Arendt è senz’altro anche dovuto, ad avviso di chi scrive, all’interna tensione che anima tale testo. Da un lato, la Arendt ripensa il concetto di autorità in una chiave di «religione civile» che non lo renda del tutto inattingibile (attualizzando il richiamo agli antichi romani con il modello della unica «rivoluzione riuscita» della modernità, quella americana). Al tempo stesso, la grande pensatrice identifica la triade religio/traditio/auctoritas come una strada che, dopo la svolta costituita dalla differenziazione Chiesa/Stato all’interno del mondo occidentale, appare impercorribile e che va declinata ormai al passato. Non stupisce dunque che il saggio arendtiano possa costituire il punto di partenza per analisi e interrogativi molto diversi tra loro. In questo fascicolo, ritorna su tali interrogativi soprattutto Laura Bazzicalupo la quale sottolinea come la società contemporanea non può essere definita linearmente a partire dalla crisi dell’autorità, senza tener conto dell’emergere di nuovi dispositivi ‘biopolitici’ e ‘governamentali’ - per dirla con Michel Foucault e con Giorgio Agamben -, che ripetono, in seno alla società post-tradizionale, alcuni dei dispositivi tipici del ‘potere pastorale’ ecclesiale e che non vengono scalfiti dell’anti-autoritarismo tradizionale in quanto capaci di legittimarsi proprio in base a quella cultura del desiderio maturata in seno all’anti-autoritarismo sessantottino. In questo ambito, si potrebbe aggiungere, della auctoritas rivendicata un tempo dalle istituzioni ecclesiali resta soprattutto il lato ‘cattivo’, quello della potestas indirecta o, potremmo dire, della potestas che rifiuta di definirsi come tale e che, proprio perciò, diviene influente ma irresponsabile.

Venendo all’altra pista, quella che si interroga sui fondamenti generalmente antropologici dell’autorità, i contributi di Limone, Sorrentino e Taddei focalizzano la fenomenologia della relazione di autorità e la sua connessione con il fenomeno della fiducia. La fiducia è da tempo uno dei temi centrali nelle riflessioni sociologiche, antropologiche e socio-biologiche sulla cooperazione umana. Come la teoria dei giochi, con il suo celebre ‘dilemma del prigioniero’, ci ha insegnato, nessun meccanismo cooperativo può innescarsi senza la scelta di fidarsi dell’altro, senza la scelta (a prima vista irrazionale) di non presumere che l’altro ci tradirà alla prima occasione. Ma come instaurare un meccanismo fiduciario laddove manca la familiarità diretta con coloro con cui cooperiamo? È in questo spazio che si determina la problematica dell’autorità, in quanto oggetto di una fiducia condivisa e però anche garanzia della possibilità di fidarsi in genere degli altri, con un gioco quanto mai complesso e che perciò può generare crisi distruttive (per due analisi classiche sull’argomento della crisi di fiducia si può rinviare a Dasgupta e a Luhmann in Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, a cura di D. Gambetta, Einaudi, Torino 1989).

L’analisi della fiducia come ‘sbilanciamento’ rischioso che produce ‘dal basso’ l’autorità è il perno della fine analisi di Giuseppe Limone e della più specifica, ma convergente, analisi di Cloe Taddei Ferretti sulla relazione terapeutica, che sottolinea i caratteri propri di una meritata fiducia analizzando le dinamiche di reciproco auto-svelamento e di co-responsabilizzazione che sono tipici di una relazione terapeutica riuscita. In entrambi questi interventi, entra in scena anche un’altra nozione chiave, quella di responsabilità, che costituisce il perno dell’analisi che Sergio Sorrentino propone della nozione di autorità legittima, ritornando ai grandi nodi della teoria politica moderna da questo specifico punto di vista. E qui sottolineare il fatto che l’autorevolezza – la capacità di ottenere o pretendere fiducia – presuppone sempre un’assunzione di responsabilità e che la responsabilità è «l’altra faccia della legittimità» costituisce ancora un elemento per la critica delle forme contemporanee di potere, convergente con quanto sopra si rilevava.

Il fascicolo presenta infine due riflessioni sull’autorità come viene vissuta e pensata dall’interno della dimensione religiosa. Nella sezione ‘Questioni’, Giulio Parnoffiello si sofferma sull’exousia di Cristo e sul modo peculiare in cui l’autorità viene definita nei Vangeli e in Paolo, mostrando come la tesi del fondamento divino dell’autorità non vada intesa come legittimazione sacrale del potere ma come delimitazione del suo ambito di validità sia all’interno della Chiesa che nella dimensione politica. Teologicamente, «l’obbedienza fine a se stessa non ha alcuna validità positiva». Nella sezione ‘Figure’, Mario Miegge si sofferma sul modo in cui la teologia e la filosofia della religione protestante hanno fatto i conti con il concetto di autorità, da un lato respingendo le «religioni di autorità» e optando per una «religione dello spirito» (Sabatier), d’altro lato riconoscendo l’ineludibile problema dell’autorità del testo (Ricoeur), punto di riferimento obbligato nonostante la varietà delle possibili interpretazioni. Sia pure nella loro marcata diversità, i due contributi sollevano una comune domanda che è quella concernente i tratti liberanti e non semplicemente asserventi o vincolanti che deve avere la sottomissione all’autorità di un testo o di una dottrina. Senza tali tratti, non si ha riconoscimento di un’autorità ma sottomissione a un mero potere, reale o immaginario che sia.

Come si vede, si tratta di piste che allargano notevolmente l’ambito della discussione sull’autorità rispetto ai canoni della riflessione novecentesca, rendendola più significativa per il contesto degli studi e per il dibattito etico-politico attuale. Ad essere sinceri, si avverte anche un po’ la mancanza di interventi che facciano da trait d’union tra le diverse linee (politiche, antropologico-morali, teologiche) di interrogazione del problema, per esempio di più specifiche analisi delle culture integralistiche e fondamentalistiche contemporanee – che certamente non sussistono solo nell’area geografica dell’Islam, d’altronde così vicina e cruciale –, la cui emergenza e persistenza costituisce una decisiva cartina di tornasole dei limiti di metabolizzazione della ‘crisi dell’autorità’ all’interno della società globale. Ma certamente molti dei materiali che il fascicolo presenta possono anche essere letti in controluce come una diagnosi indiretta sulla complessità di tale fenomeno e sulle risorse che occorre mobilitare per contrastarlo, dall’interno della sfera politica ma anche dall’interno della religiosità vissuta. Spetterà evidentemente ad altri fascicoli sviluppare ulteriormente questi suggerimenti e stimoli che il tema dell’autorità continua a suscitare in chi cerchi di ripensarlo senza preconcetti.


Francesco Piro