«Perdona loro, perché
valgono di più di quel che dicono e fanno».
Potrebbe essere questa la traduzione filosofica della
parola di Gesù in Luca, 23:34. Certo l’interprete
filosofico non rinuncia a giudicare e a criticare, ma,
anziché impuntarsi sulla denuncia di manchevolezze
e di cadute, specie quelle altrui, mantiene, come chi
perdona, un orizzonte generoso, imparziale e ricettivo.
Solo a questa condizione si liberano le possibilità
feconde dell’interpretato e anche nelle prese di
posizione più chiuse, nonché del tutto dissimili
dalla propria, possono emergere disvelamenti di umanità.
Così come perdonare non equivale a dimenticare
l’atto malvagio che qualcuno ha compiuto, e tantomeno
a passarci sopra con paternalistico senso di superiorità,
ma è l’atto luminoso che scaturisce dal pensare
e sentire che quella persona vale di più del suo
atto malvagio e in essa occorrono possibilità più
alte e positive, altrettanto fa l’interprete magnanimo,
megalopsichico in senso aristotelico, e dunque non chiuso
in interessate e in fondo meschine difese territoriali.
Sia chiaro, il perdono dell’interprete filosofico
non ha nulla a che fare con la bontà, e, anzi,
in quanto non chiude gli occhi su difetti e cadute, non
vale minimamente a giustificare assoluzioni o a cancellare
responsabilità. Tuttavia, il filosofo - assieme
al teologo - è tale se comunque tiene la barra
del proprio sguardo sulle necessarie possibilità
umane che lì sono in gioco. È come nel caso
limite, e nel contempo esemplare, di un grande criminale:
il biasimo e le sanzioni che gli spettano sotto il profilo
etico, giuridico e politico non vengono minimamente scalfite
o diminuite, ma, filosofando, si è nondimeno chiamati
a riconoscere in quell’individuo, e nei suoi atti,
possibilità costitutivamente umane, che dunque
non ci sono totalmente estranee: ognuno di noi avrebbe
potuto comportarsi in quel modo e non si tratta di un
pazzo sconsiderato o acefalo, ma proprio di una persona
che pensa, sente, sceglie, si orienta attraverso la trama
narrativa e finalistica di un’esistenza ecc. Si
disvelano all’interprete filosofico tratti di verità
umana, di possibilità terribili che riguardano
necessariamente ognuno di noi e in cui si mostra come
la dimensione tragica dell’esistenza non pesi solo
dal lato di chi patisce gli atti malvagi, ma anche di
chi li commette. Come dire, c’è un patire
umano anche nell’atto malvagio dell’individuo
più libero. L’umanità dolente di quel
mattatoio, spesso anonimo, che è la storia, non
si trova incarnata solo nelle vittime innocenti, ma anche
nei carnefici, persino nei più temerari e tracotanti,
o nei più consapevoli e responsabili.
È con questo atteggiamento rinnovato, di carattere
filosofico e teologico, che le pagine che seguono affrontano
la questione della superstizione, declinata al plurale per
indicare innanzitutto, già nel titolo, che le riflessioni
proposte sono sganciate da ogni semplicistica equazione
tra religione e superstizione. Certo la superstizione non
costituisce un crimine e tuttavia non c’è bisogno
di essere degli illuministi per denunciarne la stretta contiguità
con alcuni stati di sudditanza e prostrazione della nostra
umanità. Insomma, resta comunque improponibile un
qualche elogio della superstizione sulla falsariga di quella
secolare tradizione epidittica che, volta a volta, ha capovolto
gli abituali giudizi dispregiativi nei confronti di personaggi
– Elena encomiata da Gorgia - o qualità di
primo acchito negative - la vecchiaia elogiata da Cicerone,
la follia da Erasmo, l’ozio da Stevenson e Russell
ecc. Eppure sarebbe meschino e reattivo, nel senso anticipato
sopra, ridurre le esperienze religiose del mondo alle loro
cadute superstiziose oppure liquidare la superstizione come
un fenomeno che riguarda sempre «la religione degli
altri». L’interprete capace di perdono filosofico
non solo è capace di riconoscere forme molteplici
di superstizione, non soltanto di tipo religioso –
è possibile anche un uso superstizioso della ragione
o, come ci rammenta, per esempio, il contributo di Spanio,
una «superstizione logica» -, ma incalza criticamente
siffatti scadimenti in modo costantemente autocritico, sulla
falsariga di quanto hanno insegnato, per esempio, Kant e
Ricoeur. Ogni autentica critica è un’autocritica,
non tanto perché nessuno possa pretendere di starsene
neutralmente desituato in platea a misurare gli atti di
quanti si agitano sul palcoscenico della vita, quanto perché
tutto ciò che ci preme si ravviva e rigenera soltanto
in forza di interpretazioni che non si lascino imprigionare
dal solito gioco reattivo e meccanico delle parti, quello
che da millenni ci chiama invece, come animali dalla mera
intelligenza tattica, a difendere il nostro spazio vitale,
condiviso con i nostri simili, in contrasto con le minacciose
mire dei dissimili, dei barbari che ci assediano alle porte,
di quanti parlano lingue a noi incomprensibili, dei membri
spregevoli dei clan nemici.
Le reazioni difensive partoriscono interpretazioni povere,
spesso associate a spiegazioni al ribasso, che chiudono
i discorsi, anziché rinnovarli e rilanciarli: quelli
propri, asfissiati da intenti apologetici, quelli altrui,
resi ostaggio delle loro manchevolezze. In altri termini,
quando il credente viene imprigionato nell’etichetta
del mero superstizioso o il non credente in quella del naturalista
indifferente e amorale, quando il musulmano si ritrova tout
court associato alla violenza o al fanatismo, l’ebreo
al ritualismo ossessivo o il cristiano all’infantilismo
di chi crede alla resurrezione dopo la morte come a una
favola per bambini, lo scacco non consiste nel fatto che
ognuno di questi si sente, o viene di fatto, disconosciuto
nelle proprie peculiarità, e dunque emerge l’esigenza
di interpreti capaci di rendere giustizia all’identità
altrui. Piuttosto, le parole e i discorsi si rigenerano,
aprendo rinnovate ed eterogenee esperienze di mondo, non
perché, o quando, chi parla e chi ascolta si diano
reciproco rispecchiamento. Una società, per esempio,
in cui viga una più diffusa condivisione di maggioranza,
è ancora più esposta di altre a vedere spegnersi
e chiudersi i discorsi che le fanno da orizzonte. La perdita
è dunque tangibile e grave proprio sul fronte dei
discorsi che aprono possibilità di mondo; non è
una perdita di riconoscimento identitario subita dalle parti
in gioco, ma è il bloccarsi di possibili rinascite
e rilanci, che si produce proprio quando certi possibili
scadimenti vengono presi come sinedocchi, pars pro toto,
capaci di rivelarci l’essenza oppure come semplici
binari morti o incidenti patologici, ossia come accidenti
di cui non si coglie interpretativamente il carattere esemplare
di verità.
In questo ordine di considerazioni il Kant del celebre
saggio Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica
non si sentiva affatto sminuito nel prendere sul serio,
in senso filosofico, il fenomeno delle visioni esaltate
di uno Swedenborg, il quale - a dire il vero più
da fanatico che da superstizioso - andava raccontando di
essere in comunicazione diretta con entità soprannaturali,
che gli avrebbero ispirato capacità preveggenti.
Dopo aver creduto al «paese di cuccagna della metafisica»
- domandava Kant - può forse il filosofo guardare
dall’alto in basso oppure fare lo schizzinoso con
il visionario Swedenborg e le sue storielle, che pur mettono
a dura prova la pazienza di chiunque sia dotato di un minimo
di ragionevolezza? No di certo. Nemmeno se il filosofo si
premura di restare entro i limiti di un esame critico-razionale.
Ecco perché, per esempio ne Il Conflitto delle interpretazioni,
un Ricoeur, il filosofo più kantiano tra gli ermeneutici,
non teme affatto né la critica né il metodo
investigativo analitico. Ha compreso, infatti, come e quanto
la critica possa essere appassionata: si può criticare
con amore o comunque con rispetto, e allora ne potrà
scaturire una critica non distruttrice, ma rinnovatrice.
È appunto un criticare che scaturisce dalla capacità
di perdonare, nient’affatto intesa come realizzazione
o effetto di una prescrizione morale, bensì proprio
come frutto di un farsi interpreti non dettato da interessi
territoriali o di clan.
Detto questo, che vale come premessa e insieme come compito,
una prima tesi potrebbe suonare: la superstizione ha sì
a che fare da vicino con la religione, ma intesa, quest’ultima,
in un senso ampio e preliminare, e dunque preconfessionale
e predottrinario, e perciò come esperienza religiosa
del destino umano, ossia come rapporto interpretante con
la sovrastante indisponibilità della sorte e l’imperscrutabilità
del futuro. Quale formidabile esemplare di interprete superstizioso
si potrebbe richiamare quello del Macbeth shakespeariano,
tragedia puntellata da segni e parole che anticipano il
futuro in modo velato e polisemico, ma che Macbeth presume
di leggere in maniera univoca, come se il destino fosse
già scritto e non potesse verificarsi altro che quanto
egli ha superstiziosamente inteso. Si ricorderà come
tutto scaturisca dall’incontro iniziale, tra tuoni
e lampi, con tre Streghe, le quali, caratterizzate dal parlare
sempre solo al futuro, e sollecitate dalle domande di Macbeth
e dell’amico Banquo, annunciano al primo che sarà
re e al secondo che sarà «padre di re».
Il punto è che mentre Banquo, pur sorpreso e colpito,
conserva la propria libertà di interprete e anzi
diffida della possibilità che la verità tutta
intera, futuro incluso, sia contenuta nel dire evanescente
di una manciata di parole, la mente e il cuore di Macbeth
se ne lasciano immediatamente catturare, sino a fare di
quei segni una premessa fatale. «Salute a te, Macbeth,
che sarai re nel futuro!». La tragedia di Macbeth
non consiste nel destino necessariamente autodistruttivo
e infelice di chi brama ossessivamente il potere, tanto
meno trattasi di una tragedia dell’ignoranza, come
quella di chi crede di sapere che cosa gli accadrà
e prende per futuro felice una sorte segnata solo da obbrobriosi
assassinii. Quella di Macbeth è una tragedia ermeneutica,
in senso esistenziale. Bastano quei pochi cenni, non supportati
da alcunché, né da ragioni né dalla
minima propizia circostanza storica, perché l’immaginazione
del protagonista si lasci immediatamente saturare da un’unica
idea fissa: divieni ciò che la verità del
destino ha stabilito per te e dunque rimuovi con ogni mezzo
gli ostacoli che si frappongono alla totalizzazione della
promessa, in primo luogo assassinando chi attualmente occupa
il trono. Fatti orribili quanto irreversibili, un’autentica
strage, non sono in fondo che la conseguenza di un’interpretazione
superstiziosa di fugaci cenni linguistici dall’origine
indeterminabile e l’apparizione sfuggente. Le Streghe
svaniscono quasi subito come «fiato al vento»,
nonostante Macbeth cerchi di trattenerle e soprattutto tenti
invano di far uscire dalle loro bocche qualche frase dalla
presenza semantica univoca e rotonda, eppure la sua fantasia,
accalappiata sin da subito, trasforma l’eventualità
del futuro in un destino necessario, in cui la morte ermeneutica
innesterà una serie meccanica di morti per assassinio.
Si legge nella scena III del Primo Atto (traduzione di Alessandro
Serpieri): «Le paure immediate/sono meno dell’orribile
immaginare./Il mio pensiero, che è d’assassinio
ancora soltanto fantasticato,/scuote a tal punto il mio
povero stato di uomo/che ogni funzione è soffocata
da congetture,/e niente è se non ciò che non
è».
Non basta allora la condivisione della brama di potere
a rendere il personaggio di Lady Macbeth simile a quello
del marito e differente solo per grado di determinazione.
Ella si dibatte distruttivamente tra l’estrema risolutezza
della propria coscienza malvagia e gli spettri inconsci
che vengono a visitarla di notte, ma non è personaggio
ermeneutico incentrato sulle parole interpretate superstiziosamente
e sugli impuntamenti della propria immaginazione semantica.
Peraltro le iniziali titubanze di Macbeth non manifestano
una qualche mancanza di coraggio, bensì proprio quanto
forzata e dualistica sia un’interpretazione che consista
solo nell’autosaturazione dell’intelletto e
della fantasia, che hanno preso a occasione pretestuosa
– secondo quella che è la più pericolosa
delle strumentalizzazioni del linguaggio – parole
che sono soltanto cenni. La pretesa di agguantare un senso
perfetto nei vaticinii delle Streghe quali «imperfect
speakers» può essere soddisfatta solo da una
fantasia ermeneutica ambiziosa e superstiziosa, dolorosamente
staccata dal braccio che colpirà le vittime. Macbeth
è come un atleta che, prima di spiccare un gran salto,
deve attendere di trovare le giuste energie e la giusta
concentrazione, ma è un atleta in cui l’anima
superstiziosa tituba nel trovare un corpo meccanico.
Nel IV atto, scena prima, le Streghe tornano a comparire,
e ancora una volta Macbeth, ora nelle vesti di un novello
re ossessionato dai rimorsi e dal timore di perdere troppo
presto quanto ha guadagnato a un prezzo così alto,
le interroga: «Vi scongiuro di rispondere alle mie
domande, […] dimmi, o potenza ignota (Tell me, thou
unknown power)». Ancora una volta però - la
reiterazione è significativa – Macbeth è
interprete superstizioso e, a questo punto della vicenda
bramoso di rassicurazioni difensive, non riesce a immaginare
altro possibile significato che quello che lenisce immediatamente
le sue inquietudini: «nessuno che sia nato da donna
potrà mai nuocere a Macbeth», «Macbeth
non sarà mai vinto fino a quando la grande foresta
di Birnam non marci contro di lui». Come si ricorderà,
egli impegna tutte le energie residue nel tenere compatta
la propria convinzione che il significato evidente di tali
profezie lo mette in salvo da ogni avversario plausibile,
trascurando invece l’organizzazione di un’adeguata
difesa militare. A contare è ancora sempre il destino
in cui si troverebbe scritto sino a quando egli regnerà
al riparo dai nemici, un destino che Macbeth, ossessionato
da un’immaginazione desiderante e insieme ermeneuticamente
bloccata, presume di afferrare nella falsa univocità
di significato di quanto le Streghe hanno proferito. Il
disvelamento finale, in cui Macbeth perisce per mano di
un uomo nato con parto cesareo, e dunque «non nato
da donna», e in cui il castello viene conquistato
da una foresta-esercito di soldati che avanzano mimetizzati
dalle fronde degli alberi tagliati a Birnam, non costituisce
il semplice ripristino di quanto è vero o giusto,
ma restituisce, insieme, al linguaggio la sua velata polisemia
e al futuro la sua inaggirabilità, illuminando la
tragica miopia di un interprete superstizioso.
Superstizioso non è allora chi interroga segni e
parole per strapparne inferenze intorno al futuro, e nemmeno
chi sceglie, magari per ignoranza, segni e parole non legittimati
ad anticipare alcunché. Superstizioso è invece
chi lascia che la propria esistenza, e di conseguenza quella
altrui, diventi ostaggio di un’ermeneutica asfittica
e dall’immaginazione satura, la quale presume di bloccare
la trama di possibili rimandi degli eventi linguistici,
specie quelli che proprio grazie al proprio carattere polisemico
aprono futuro. Chiave decisiva, che sta a monte anche del
legame tra religione e superstizione, è dunque l’intreccio
tra rapporto esistenziale con la sorte futura e coazione
semiotico-ermeneutica. Superstizioso non è chi scommette
su segni profetici epistemologicamente indegni di reggere
il potere causale o premonitore loro riconosciuto. Superstizioso
è presumere che in una manciata di parole, fosse
anche sacra e veneranda, la verità intera, passata,
presente e futura si trovi già bell’e scritta
e possa fare capolino in segni minuti, che diventano così
binari di necessità per le nostre esistenze.
Parlando di coazione, sia pure in senso semiotico-ermeneutico,
ci si espone tuttavia alla giustificata obiezione –
per esempio avanzata, più sotto, da Brena - di ridurre
in tal modo la superstizione a caso patologico in senso
clinico. Ebbene, sulla falsariga di quanto rimarcato dal
fenomenologo Max Scheler nel sesto capitolo de Il formalismo
nell’etica e l’etica materiale dei valori, dove
si esortava a non ascrivere alla persona umana predicati
psicopatologici e dunque a non parlare di «malattie
dell’anima» o di salute a proposito della persona,
risulta allora quanto mai opportuno precisare - pur parlando
di esistenza interpretante, anziché di persona -
che le coazioni ermeneutiche del superstizioso non vanno
affatto confuse con episodi patologici. Se così non
fosse, andremmo incontro, infatti, ad almeno due conseguenze
insoddisfacenti: la prima è che dovremmo cercare
una soluzione tecnica, un qualche rimedio terapeutico per
ciò che ha sospeso la normalità, finendo così
per chiudere gli occhi su uno dei lati inquietanti dell’esistenza
o dell’esperienza religiosa del mondo; la seconda,
altrettanto grave, è che, dopo aver scisso il ‘patologico’
dal ‘normale’ si assumerebbe comunque il valore
euristico di quello per decifrare quest’ultimo. È
questo, d’altronde, uno degli esiti più significativi
della vittoria moderna dell’impostazione cartesianista
a scapito di quella aristotelica: nel primo caso sono le
declinazioni patologiche di un fenomeno a gettare luce su
di esso, come quando, per rispondere a domande sul corpo,
assumiamo come riferimento soltanto salme e corpi malati,
nel secondo caso, invece, l’approccio è teleologico,
per cui si pensa che la vera essenza di qualcosa si manifesti
proprio nel suo dispiegarsi e realizzarsi ‘fisiologico’,
anziché in quello ‘patologico’. Ora,
tutto questo deve poter essere ripreso in senso ermeneutico-esistenziale.
Le coazioni interpretative del superstizioso, in rapporto
al futuro a-venire, vanno considerate nel loro carattere
di possibilità originariamente esistenziali, tragicamente
inceppate ma sempre in un senso ermeneutico. Così
come Macbeth non si rivela non umano, gli scadimenti superstiziosi
non pongono il credente fuori dall’esperienza religiosa
o, più in generale, l’interprete umano fuori
dalla dimensione ermeneutica dell’esistenza. È
questo intimo intreccio di possibilità co-originarie
che non si lascia scindere in normalità, da conservare
nella sua medesimezza, e malattia, da sottoporre a interventi
tecnici, cure mediche, istruzioni risolutorie ecc. Si tratta
di rigenerare la libertà interpretativa del superstizioso,
rimettendo in moto la sua capacità di immaginare
ulteriori ed eterogenee possibili significazioni, tali che
aprano futuro senza incanalarlo. Tuttavia l’esperienza,
in senso esistenziale, mostra che proprio la possibile volontà
di sovra-stare il futuro ci rende più esposti all’essere
dominati, e che la forza vitale con la quale tentiamo di
decifrare la trama di segni e parole che orienta la nostra
esistenza è costantemente esposta alla possibilità
di indebolirsi e coagularsi in qualche blocco superstizioso,
in qualche verità dal significato unico che non porterà
con sé né pace né felicità.
Ma altrettanto originaria è la possibilità
che la sovrabbondanza di vita, che il credente riceve dalla
fede e il non credente dal mero aprirsi mondano di possibilità,
rapporti ed esperienze, sfoci in un rapporto alla sorte
futura da interprete libero, non arbitrario perché
libero innanzitutto da se stesso.
I contributi che seguono, dalle impostazioni tutt’altro
che omogenee, si cimentano prima di tutto nell’impresa
di chiarire euristicamente i contorni della questione «superstizione».
Magris, offrendo un generoso omaggio a Walter Belardi, prende
le mosse dall’originaria accezione positiva di superstizione,
legata alla religione come forma superiore di conoscenza
– fonte di divinazione e di una visuale completa delle
cose -, per passare alle prime critiche avanzate da Plutarco
e poi alle letture negative antico-romane e scolastiche.
Bianchin soppesa varie ipotesi interpretative intorno alla
superstizione in quanto «lettura dei segni»,
finendo per scartare sia le letture psicologiche che quelle
epistemologiche. Brena si sofferma sulla superstizione in
quanto insieme di pratiche, invitando al rispetto per le
persone coinvolte, specie se da quei comportamenti possono
seguire conseguenze positive, come la dedizione e la generosità
nei confronti del prossimo, o un senso di pienezza della
vita. Goisis da un lato rimarca come e quanto la disincantata
modernità generi schiere di moderni superstiziosi,
dall’altro cerca di tenere insieme un atteggiamento
di pietas nei confronti dell’umana vulnerabilità,
che nella superstizione trova modo di manifestarsi, e una
critica inflessibile verso ogni sorta di strumentalizzazione
di questa. Spanio affronta in modo prettamente filosofico
la questione, ritornando sull’affinità semantica
tra super-stizione ed epi-steme, e contestando la pretesa,
tipicamente tardo-moderna e contemporanea, di liberarsi
dalla logica come mero irrigidimento superstizioso del vero.
Nella sezione Figure Perissinotto affronta il
fenomeno dei miracoli, spesso considerato contiguo a quello
della superstizione. Al centro dell’attenzione emerge
la tensione, tutt’altro che univoca, tra verità
storica e verità della fede; è rispetto a
quest’ultima che l’esperienza del miracolo può
rinviare a una meraviglia per il mondo che si traduca in
stupore per un caso particolare. Giuliani riprende alcuni
motivi chiave del complesso intreccio che lega magia e superstizione
nella tradizione ebraica, specie di marca chassidica. Interessante
è il contrasto con il progetto, primo novecentesco,
di un illuminismo ebraico capace di realizzare la quintessenza
dell’Europa. Infine, Campanini, evocando autori e
luoghi testuali dell’Islam classico, richiama alcune
delle molteplici infiltrazioni superstiziose che dalla religiosità
popolare vengono a penetrare una religione, come quella
islamica, più affine a una ortoprassi che a una ortodossia.