FILOSOFIA E TEOLOGIA
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Esiste qualcosa che sia giusto «per natura»? Agli inizi del Novecento, nei suoi Principia Ethica, il filosofo inglese G.E. Moore coniò la nozione di «fallacia naturalistica» per denunciare il carattere erroneo delle inferenze che, assumendo come premessa le proprietà dei fatti della natura, pretendano così di giungere a concludere che cosa sia assolutamente buono o giusto sotto il rispetto etico-morale. Ma ecco un primo punto nodale: quando i portavoce della Chiesa cattolica, sulla base di una lunga tradizione tomistico-aristotelica, fanno valere i loro appelli morali e bioetici alla naturalità o «contronaturalità», è una diversa accezione di «natura» a fungere da punto di riferimento. Si potrebbe dire, anzi, che, ancor prima di cosa sia giusto o non giusto, l’autentico oggetto del contendere sia proprio il significato di «natura», dove il cattolico mira così innanzitutto a contestare che essa possa essere ridotta al complesso meccanico e oggettivabile dei fatti reali, da un lato divaricati rispetto ai valori morali e ai fini che orientano eticamente la vita umana, e dall’altro disponibili alla volontaria manipolazione umana.

«Natura», dunque, si dice in molti modi ma nessuna chiave analogica può più, oggi, soccorrere chi volesse tentare un’identificazione unificante dei suoi significati plurimi. È proprio la complessa polisemia del termine «natura» ad ‘alimentare il motore’ dell’attuale discussione pubblica e civile intorno a temi etico-morali e ciò ha costituito un primo motivo perché la redazione nordorientale la scegliesse come obiettivo della parte monografica di questo numero di «Filosofia e Teologia». Un secondo aspetto, non meno decisivo nel determinare la nostra scelta tematica, è la percezione – non la constatazione – di come, potenziati quantitativamente ma non qualitativamente dall’eco mediatico, i richiami cattolici alla natura come giustificazione etica vengano troppo spesso utilizzati per chiudere anticipatamente la discussione civile - su temi delicati, che potenzialmente riguardano la vita di tutti i cittadini - e per bloccare aprioristicamente le possibilità di giudizio, di interpretazione e di dialogo tra le parti interessate. È per tentare una risposta critico-filosofica a siffatte chiusure, ora effettive ora solo possibili, che i contributi qui presentati - come si vedrà tutt’altro che omogenei tra loro – mirano prima a dissodare il terreno in cui si muovono termini come «naturale» o «contro natura» e poi, soprattutto, a indicare buone ragioni per evitare ogni ferreo binario semantico che possa venire imposto da quelle forme di naturalismoetico.

I lettori della parte monografica di questo numero non troveranno, però, mere ricostruzioni storiografiche di idee del passato, ma autentiche ed esplicite prese di posizione. In altri termini, è stato chiesto ai diversi autori di uscire il più possibile allo scoperto, ovviamente non per informarci sulle proprie opinioni personali, ma per esplicitare e argomentare nel modo più diretto le riserve critiche nei confronti degli arroccamenti cui sono costantemente esposti i fautori di leggi naturali in ambito etico-morale. Si è dunque tentato, nello spazio limitato di queste poche pagine, di affrontare il ginepraio polisemico e polemico che concerne il tema del naturale in ambito etico, e come bersaglio privilegiato si è imposto da sé proprio l’interlocutore cattolico. Andrebbe precisato, infatti, sia che non si tratta di mettere filosoficamente in questione la posizione cattolica toutcourt, ma, semmai, solo quella ufficiale della C.E.I., sia che, più che una scelta che prende inizio dalla nostra redazione, ci siamo semmai sentiti ‘interpellati’, vuoi come studiosi vuoi come cittadini, dal massiccio diffondersi ‘politico’ di siffatti richiami etico-morali a leggi di natura. L’auspicio è che da parte nostra ne sia sorta una risposta critica e responsabile, e non una mera reazione o contro-azione. Certamente ne è scaturito un dialogo dai toni anche aspri, ma l’invito di chi scrive è di recepire le eventuali asprezze come testimonianza che abbiamo preso sul serio la posta in gioco, tentando in primo luogo di rendere giustizia alla sua rilevanza. D’altronde, come insegna l’ermeneuta Gadamer, parlare con altri è un accadimento concreto e drammatico, e così come dialogare non significa brandire a priori principi non negoziabili non vuol dire nemmeno coincidere irenisticamente con le posizioni altrui, restando al riparo, per magia, da urti ed esperienze di reciproca estraneità. Di più: è capace di dialogo proprio chi sa esporsi alla possibilità di modificare la propria prospettiva iniziale e soprattutto chi non si preoccupa di sé ma è invece mosso finalisticamente dalla questione in gioco, condivisa con gli interlocutori, questione da giudicare tenendo sempre conto delle peculiari circostanze concrete di applicazione. Se oggi, non solo in Italia, l’attenzione civile e politica è concentrata sulla messa a punto di nuovi codici legislativi, riguardanti problemi vitali come, per es., l’eutanasia, la procreazione assistita o le coppie omosessuali, non è fuori luogo ribadire che promulgare leggi giuste a priori è impossibile, specie se è una sola parte che decide ciò che è bene per tutti e se esse non vengono scritte tenendo già conto di una loro possibile applicazione equa. Ecco, dunque, l’altro termine chiave, da coniugare concretamente all’effettivo riconoscimento della polisemia, della interpretabilità e delle differenziazioni che caratterizzano il polemos pubblico dialogico: la parola equità, la quale rinvia a una determinazione del significato delle nozioni vitali che muova dal farsi interpreti lungimiranti delle possibili concrete circostanze applicative.

Dialogare, però, equivale anche a rendere giustizia alle ragioni altrui e resta il dubbio, pure a chi scrive, che il lettore che invece si riconosca nelle posizioni del naturalismo etico tomista-cattolico possa non ritrovarsi nelle battute degli scritti qui raccolti e sentire che non è stata data adeguatamente voce alle sue buone ragioni. Ora, a parte che questo è quanto capita solitamente all’ateo quando si sente chiamare «incredulo» o «diversamente credente» oppure, peggio ancora, gli accade di venir descritto da chi crede come un moralmente invertebrato o come un essere monco e disperato. Il punto vero, però, è che un dialogo filosofico è fatto sì anche di sensibilità e persino di tatto, ma da intendere come capacità di sentire l’altro e non come custodia difensiva e sentimentale di se stessi e di quanto ci è caro. Un dialogo si differenzia da un monologo non solo perché è fatto da più voci, ma soprattutto perché gli interlocutori non bramano e non vi trovano solo immedesimazione e medesimezza. Si aggiunga inoltre che il lettore che non cadrà subito preda della propria suscettibilità avrà modo di accorgersi che i contributi qui raccolti, spesso anche distanti tra loro per impostazione – e ciò è un bene -, sono tutti accomunati dal prendere sul serio la questione dei condizionamenti e dei vincoli che la natura impone a noi esseri umani, anche quando ne va di questioni etico-morali. In altri termini, nessuno dei saggi qui presentati tenta di difendere una qualche dicotomia tra fatti e valori, oppure di cavalcare una qualche assoluta disponibilità e manipolabilità della natura. Di più: in modi e accenti diversi nessuno di essi pretende di lasciar cadere la dipendenza dell’etico dal naturale. L’autentica partita semmai, e tutta la ricaduta in differenze significative, sta proprio nel come intendere questa dipendenza: come una fondazione che blocca le possibilità semantiche, come un condizionamento da interpretare responsabilmente, come un orientamento normativo che non è campato per aria proprio perché ha comunque radici concrete e reali, come un insieme di dati biologici capaci di dettare quanto poi gli esseri umani chiamano morale, ecc. ecc.. L’indisponibilità della natura, allora, non potrà venire intesa soltanto in senso ontico-ontologico, ma anche come indisponibilità imposta dalla complessità polisemica e dalla interpretabilità, anche circostanziale, della nozione di natura. È in questo senso che l’indisponibilità della natura, da semplicemente limitante, ne esce anche limitata, seppure non per questo meno vincolante.

Nel primo saggio Ruggenini pone a confronto alcune mosse aristoteliche e, sull’altro fronte, bibliche per mostrare come l’istanza di libertà nei confronti della verità venga accentuata, anziché imbrigliata, dalla tradizione cristiana e dunque come quest’ultima possa aprirsi a una ricerca responsabile e pluralistica della verità. A partire da un’esplorazione semantica ed etimologica, Magris rileva l’assenza della nozione di natura nella Bibbia e la necessità per il cristianesimo di ricorrere a categorie greche, in particolare platoniche. Inoltre si sofferma sulle ricadute concernenti le valutazioni cristiane del comportamento sessuale umano. Brena rigetta ogni dicotomia tra fatto e valore per sostenere come la natura umana possa e debba valere quale punto di riferimento normativo per il dialogo multiculturale. Paltrinieri mira a mettere in questione sia la declinazione morale del Cristianesimo cattolico, che ne soffoca le radici simboliche legate all’esperienza del tragico, sia un’accezione di limite naturale inteso come semplice argine difensivo-reattivo. Galanti Grollo critica il concetto normativo di natura, così come viene fatto valere dall’etica cattolica, per guardare invece a un concetto di natura compatibile con la responsabilità soggettiva e il principio di autonomia. Muovendo dalla plurivocità del termine «natura», Perissinotto giunge a contestare la rilevanza normativa di attributi come «naturale» o «non naturale». Giannasi richiama la matrice greca e in particolare aristotelica dei concetti di natura umana e per natura, soffermandosi sull’insostenibilità scientifica di ogni provvidenzialismo teleologico e criticando la confusione tra etica ed etologia. Zoli offre un esempio di come oggi le neuroscienze, abbinate alla psicologia cognitiva, e la biologia, alleata alla psicologia evoluzionistica, siano sempre più in grado di ricondurre i comportamenti umani che chiamiamo morali a determinati circuiti neuronali, che presiedono alla componente emozionale, e a meccanismi evolutivi. Costa intervista Charles Taylor, sollecitandolo a offrire indicazioni intorno alle ambiguità del concetto di natura, alle sue implicazioni morali e anche alle odierne dispute sull’evoluzionismo. Bordato rilegge il discusso film di Ermanno Olmi «Centochiodi» per richiamarne gli aspetti simbolici in forza dei quali quest’opera non inneggerebbe alla chiusura dei libri e alla vita semplice, ma semmai alluderebbe alla capacità di rinnovarsi del cristiano libero di spirito.

Gian Luigi Paltrinieri