Non è la prima
volta che «Filosofia e Teologia» propone una
riflessione sul Prologo del IV Vangelo. Lo fecero già
alcuni membri della redazione nordorientale nel numero
1 del 1999. Non avrebbe potuto essere altrimenti, dato
che il tema del numero era «Un Dio uomo»,
paradosso cristiano per eccellenza e cuore pulsante del
kerigma, che nel Prologo giovanneo ha il proprio incunabolo.
La redazione nordoccidentale ha ora deciso, non senza
esitazioni, di riprendere il tema, a causa sia della densità
e della centralità kerigmatica del Prologo che
della sua inesauribile capacità di provocazione,
filosofica e teologica, ma non solo, provata con tutta
evidenza dalla Wirkungsgeschichte. L’occidente
non ha mai smesso di misurarsi con esso, meno che mai
nella modernità, sia all’interno che all’esterno
del circolo ermeneutica della fede cristiana, con esiti
diversi, ma tutti importanti. Abbiamo pensato che la densità
e la centralità kerigmatica della notizia esplosiva
comunicata da Giovanni nel Prologo del suo Vangelo, avrebbe
giustificato l’insistenza sull’argomento,
e la comprovata inesauribilità del suo appello
ci avrebbe consentito di affrontarlo ancora una volta
con un’angolatura particolare, riducendo il rischio
della ripetizione. Così mi pare sia in effetti
avvenuto. Anche là dove ricompaiono riferimenti
storico-teorici quasi obbligati, quali ad esempio il richiamo
al logos eracliteo, o la valenza anti-idealistica ed antimetafisica
del logos giovanneo, o ancora la sua connaturalità
con un pensiero della vita che non voglia perdere la presa
o meglio ancora la dimora nella vita stessa, non c’è
pura ripetizione rispetto al fascicolo del 1999, perché
quei medesimi riferimenti sono ora inseriti in uno specifico
contesto e messi al servizio della tesi sottostante all’intero
fascicolo, esplicitata ed argomentata nel saggio introduttivo
di D. Bubbio e M. Ravera. Per comodità dei lettori
mi permetto di sintetizzarla rapidamente.
La storia del pensiero e della prassi dell’occidente,
e più specialmente dell’occidente moderno e
contemporaneo, può essere ripercorsa fruttuosamente
come la storia di una sconfitta e di una vittoria: la sconfitta
della figura giovannea del logos, la vittoria della sua
figura eraclitea. Vale a dire: come storia della sconfitta
di una ragione mite ma non debole; accogliente verso la
vita, di cui sa riconoscere la «pateticità»,
ossia la caratteristica di esprimersi come ricevuta e in
grado di manifestarsi senza oggettivarsi; decisa a trarre
partito dalla finitezza degli esseri presso cui dimora,
compatendo la loro povertà e trasformandola in motivo
di fiducia e di speranza; e come storia della vittoria di
una ragione violenta che non accoglie ma raccoglie (lessico
heideggeriano) in una unità di senso forzata e illusoria
le differenze; pretende di innalzare il finito al di sopra
dei propri limiti, e in tal modo lo distrugge; spregia la
realtà carente e ambigua ma concreta delle nostre
vite, e la sostituisce coi fantasmi pericolosamente allettanti
della pretesa all’autotrasparenza e autosufficienza.
La civiltà dell’occidente, la Kultur
di cui esso è andato fiero e che è riuscito
a imporre al mondo intero, magari solo nella forma terminale
e degradata della tecnocrazia, si rivela dunque fondata
su una rimozione, precisamente sulla rimozione della figura
giovannea del logos. Sulla stessa rimozione è
fondata l’autonegazione della ragione seguita alla
crisi dell’illuminismo e dell’idealismo.
Quando l’evidenza dei disastri causati nei due ambiti
del pensiero e dell’esistenza dal primato assegnato
alla razionalità violenta della metafisica e della
tecnica ha costretto infine l’occidente a ripudiarla,
esso ha voluto credere di dover por fine a ogni esercizio
di ragione, a ogni pratica di giustizia e di verità
che non fosse decostruttiva, anzi distruttiva. Ed essendosi
identificato con quell’unica figura della razionalità
ha assegnato alla distruzione la valenza dell’autodistruzione.
Che le cose non stessero necessariamente così, perché
un’altra figura del logos, non costruttiva ma riflettente
ed interpretante, era disponibile, e sarebbe bastato trarla
dell’emarginazione patita per disporre di un nuovo
inizio, non rende meno tragica la vicenda. Al contrario:
un suicidio inutile è il più tragico di tutti.
Comunque sia, pare lecito credere, o almeno sperare, che
dopo la crisi mortale dell’idealismo e l’autodistruzione
dell’anti-idealismo sia finalmente maturato in occidente
il tempo opportuno per la riscoperta della figura giovannea
del logos. I segni non mancano nel panorama filosofico,
ma anche teologico e perfino scientifico, contemporaneo.
In tutti i campi vediamo tentare percorsi esenti sia dalla
pretesa metafisica o (nel caso della scienza) criptometafisica
che dalla rinuncia al pensiero radicalmente negativo (del
non-pensiero). Lo hanno fatto nel secolo breve appena concluso
le diverse varianti non negative dell’esistenzialismo
e, più ambiguamente, quelle della fenomenologia;
lo stanno facendo in questo inizio di secolo e di millennio
le versioni non debolistiche dell’ermeneutica e le
nuove fenomenologie, tutt’affatto diverse da quelle
di Husserl e dei suoi seguaci, come dimostra il saggio di
U. M. Ugazio. Si tratta con tutta evidenza di un nuovo corso,
una interruzione della tradizione; ma anche della ripresa
di istanze già fatte valere dai pochissimi pensatori
che hanno contestato la tradizione dall’interno: Pascal,
l’anti-Cartesio; Kierkegaard, l’anti-Hegel;
Fichte, il personaggio forse più interessante perché
non si limita ad opporsi all’idealismo di Hegel, rovesciandolo
nel suo contrario, ma ne vede in anticipo i rischi connaturati
a un monismo assolutizzante e totalizzante, perciò
conserva la prospettiva trascendentalista, ricollocandola
però nell’ambito intrascendibile dei molteplici
finiti. Il risultato è una filosofia della libertà
capace di offrire tuttora indicazioni positive, in una linea
di pensiero non semplicemente antimoderno ma realmente postmoderno.
Vogliamo chiamarla ermeneutica, questa linea di pensiero
così poco costruttivista da prendere congedo dalla
questione husserliana della «costituzione di senso»,
e così poco decostruttivista da continuare tuttavia
a porre la questione del senso, più precisamente
del senso della vita, alla quale lo stesso Husserl aveva
finito per approdare? Noi pensiamo di sì, purché
si dia al termine il senso largo di un’indicazione
di stile piuttosto che di una posizione dottrinaria. Lo
pensiamo forse, noi «torinesi», perché
abbiamo memoria non solo degli scritti ma delle quotidiane
conversazioni di L. Pareyson, al quale sappiamo di dovere
tutti, in vari modi e misure, qualcosa di ciò che
muove il nostro pensiero. (Ma anche M. Ruggenini, che «torinese»
non è, ha fatto nel fascicolo del 1999 il nome di
Pareyson, suggerendo un nesso tra pensiero dell’incarnazione
e incarnazione del pensiero che riceve dalla e nella filosofia
pareysoniana dell’interpretazione particolare luce).
E dunque, con le riserve e le precisazioni appena fatte,
crediamo di poter dire che al presente e più ancora
al futuro dell’occidente sia intrinseco il privilegiamento
della figura giovannea del logos, almeno quanto lo è
stato in passato quello della figura eraclitea.
Questo spiega perché abbiamo scelto di riservare
per intero il limitato spazio disponibile all’osservazione
della situazione filosofico-teologica presente o di poco
precedente: un sacrificio, specie per me, che trovo di
grande interesse la ricezione patristica del Prologo di
Giovanni, a cominciare dalla dicotomia tra la lettura
degli orientali (le tenebre non hanno potuto trattenere
la luce del logos venuto nel mondo) e quella degli occidentali
(le tenebre non l’hanno accolta), inizio e origine
di due opposte visioni della storia del mondo e del compito
della conoscenza. Spiega anche perché un saggio
di impianto teoretico e panoramico come quello di R. Repole
dia in nota referenti storici tutti contemporanei (Rahner,
De Lubac, von Balthasar) e anche il saggio esegetico di
C. Doglio sia molto attento a tenere conto degli esiti
recenti raggiunti in questo campo; perché nelle
sue considerazioni sulla fenomenologia U.M. Ugazio si
concentri sull’osservazione della fenomenologia
francese più recente, e fin dalle prime righe sottolinei
quanto sia diversa e critica rispetto alla fenomenologia
husserliana, giudicata ormai «trascorsa» e
inattiva, se non nell’invito a riportare l’attenzione
sul luogo d’origine di ogni esperienza e conoscenza;
individuato però non nell’intenzionalità
obiettivante della coscienza ma nell’immanente automanifestazione
patica della vita. E infine spiega perché si sia
scelto di prendere le mosse dal dibattito tra Heidegger
e Girard a proposito dei due logoi, eracliteo e giovanneo,
ma di non trattenervisi. Lo schema del contrasto tra i
due logoi, che è più o meno tutto ciò
che facciamo nostro di quel dibattito, non funziona, o
almeno non apertamente, in tutti i testi; implicito in
qualche modo nel testo di Ugazio, che mostra assai bene
come la nuova fenomenologia rappresenti il congedo dall’idealismo
e dall’ontologismo residuali di Husserl, parrebbe
inattivo nell’originale meditazione di E. Guglielminetti
sul «cambiamento di tono» che la generazione
del logos-figlio e la sua incarnazione nell’uomo
Gesù producono rispettivamente in Dio (il fondamento
diventa un padre amorevole) e nel mondo (la comunicazione
fra le persone, in Dio perfetta ma bloccata e dolorosa
nella creazione e fra questa e Dio, è ripristinata
anche nel mondo, sia pure nei limiti del conflitto fra
tenebre e luce e dell’ambiguità della «doppia
assegnazione»: il mondo è perdonato), come
anche nella cristologia e nell’antropologia filosofico-teologiche
proposte da Rosmini nell’«Introduzione al
Prologo» di cui parla G. Riconda.
Sarebbe tuttavia inopportuno trascurare l’ampia,
complessa e sotto certi aspetti originale costruzione rosminiana,
sorta non per caso in margine al Prologo. Essa dà
concretezza alla tesi della circolarità di filosofia
e teologia, particolarmente interessante per la nostra rivista,
e contiene una enigmatica ma affascinante teoria sulla «misteriosa
vita eucaristica» presente nel Cristo morto e non
ancora risorto e anche negli uomini che entrano in comunione
sacramentale con Lui. Questa vita più divina che
umana, benché non propriamente soprannaturale, secondo
Rosmini è capace di resistere alla morte del corpo
pur essendo altra cosa dall’immortalità dell’anima
sola; e l’istante della morte non è solo quello
della separazione dell’anima dal corpo, bensì
è quello in cui l’uomo intero sprofonda nel
nulla eterno, se non accoglie il dono che Cristo gli fa
della propria vita teandrica; mentre se l’accoglie
trasforma la morte nel biblico sonno dei giusti, attesa
della resurrezione. Come dire che il duello luce-tenebra,
vita-morte, non è finto né vinto a priori.
Può essere mortale, perché realmente nel mondo
e nell’umanità agiscono demoniache forze distruttive,
e perché sta alla libertà umana arrendersi
ad esse o lasciarsi salvare dalla grazia, anch’essa
all’opera negli individui umani e nella storia del
mondo. Ma, poiché la grazia è potente seppure
non violenta ed è universalmente offerta, la speranza
cristiana che le nostre vite e la storia del mondo avranno
un lieto finale, pur non potendo presentarsi come una certezza
metafisica che sopprimerebbe tanto la libertà umana
quanto la gratuità divina, rappresenta una sicurezza
non solo morale ma a suo modo ontologica.
Riconda mostra bene come vi sia nell’idealismo
cristiano di Rosmini, autore nelle «Cinque piaghe»
di una straziata contemplazione del male, una forte dialettica
tra negatività e positività, realtà
e idealità, natura e sopranatura, che gli vieta
da un lato di portare a coincidenza i due termini di ogni
coppia, al modo hegeliano, dall’altro di sconnetterli,
con effetti derealizzanti e designificanti a carico del
finito e del naturale. Se trasgredisce il primo divieto
l’idealismo, infatti, non è più cristiano;
ma non lo è neppure, un po’ meno ovviamente,
per il consolidato luogo comune dell’incompatibilità
fra cristianesimo ed ellenismo, se trasgredisce il secondo
e non mostra una certa tendenza quasi gnostica a fare
sormontare la realtà angosciosa della morte e più
in generale del limite, di cui la carne è il simbolo,
dalla realtà esaltante della signoria del logos
non sulla ma nella (sta qui tutta la differenza tra l’ortodossia
e l’eresia) carne dell’umanità e del
cosmo. Questa dissimmetria, per realtà e per potenza,
fra ciò che è bene (la grazia donata e accolta)
e ciò che è male (la tentazione diabolica
e l’ambivalenza della libertà umana) appartiene
al cristianesimo. Perciò l’eresia gnostica
erra lontano dalla verità del kerigma cristiano
quando misconosce la realtà e la dignità
della carne assunta e trasfigurata dal logos, ma nel suo
errore custodisce tuttavia la verità annunciata
da Giovanni nel Prologo con l’affermazione che quando
il logos è venuto al mondo le tenebre non hanno
potuto soffocarne la luce. Lo compresero i Padri greco-bizantini
e, molti secoli dopo, i sociologi russi; sembra intuirlo
faticosamente anche Rosmini, quando, specialmente con
la teoria della vita eucaristica ma non solo, ripropone
in modo debole e tortuoso l’idea orientale della
redenzione come divinizzazione e, quasi da solo nell’occidente
moderno, a parte von Balthasar, abbozza una «teologia
dei tre giorni» trascorsi da Cristo nel sepolcro.
È forse a causa di questa parziale e da parte di
Rosmini inconsapevole consonanza con il cristianesimo
orientale che egli è praticamente il solo filosofo
italiano moderno a cui hanno prestato attenzione i filosofi
russi suoi contemporanei, Solov’ev e Franck in particolare.
Sono convinta che approfondire il confronto qui appena
accennato fra idealismo rosminiano, sofiologia russa e Prologo
di Giovanni (l’evangelista in cui l’oriente
cristiano maggiormente si riconosce) potrebbe essere molto
utile per la migliore comprensione del contrasto fra idealismo
e anti-idealismo, e dei rapporti fra ciascuno dei due e
il cristianesimo, e fra il cristianesimo occidentale e orientale.
Ma ovviamente non è questo il luogo per farlo. È
invece tempo di completare, dopo questa credo non inutile
divagazione, la presentazione del fascicolo. Mi rimangono
da fare alcune poche considerazioni, che ritengo possano
aiutare il lettore a sintonizzarsi con i risultati del nostro
lavoro. La prima riguarda la scarsità nel fascicolo
degli esempi della Wirkung esercitata nella storia
del pensiero moderno e contemporaneo dal Prologo giovanneo
(le cosiddette figure). Lo deploriamo per primi, ma invitiamo
a tenere anche presente la limitatezza dello spazio disponibile
e, diciamolo pure, delle competenze. Non proverò
nemmeno a giustificare le poche presenze e le molte assenze;
come in tutte le selezioni esse sono figlie dell’incontro
tra la casualità e una particolare «ratio».
Nel nostro caso la «ratio» dipende principalmente
dalla scelta di interrogarci sul significato del Prologo
oggi per noi, da filosofi e teologi.
La seconda considerazione riguarda ancora i motivi della
scelta del Prologo come tema. Al principale, dichiarato
all’inizio, due si sono aggiunti nel corso dei seminari
nei quali abbiamo preparato il fascicolo; uno, già
notato nell’editoriale del fascicolo del 1999, è
la capacità posseduta dal Prologo in maniera straordinaria
di dare concretezza all’incontro tra dire filosofico
e dire teologico che «Filosofia e Teologia»
si è data come compito istituzionale di promuovere,
e di disincagliarlo dalle questioni metodiche e definitorie,
che sono importanti e necessarie come questioni previe,
ma alle quali non si può restare aggrappati senza
rischiare l’astrattezza e la monotonia, dopo quasi
vent’anni di lavoro. La terza e ultima considerazione
è che una riflessione corale intorno al Prologo di
Giovanni può meglio di altre, a causa della già
menzionata inesauribilità del suo appello ermeneutico,
mostrare come la polifonia sia risorsa e non difetto di
una rivista come la nostra, che non può e non vuole
essere di scuola. Chiudo segnalando due particolarità
del fascicolo, minori ma pure significative, come l’aver
rinverdito la consuetudine della rivista, ultimamente un
po’ trascurata, di ospitare il testo di un’«autorità»
(K. Barth in questo caso) e l’aver provato con l’articolo
di M. Pedrazzoli ad allargare lo sguardo al campo scientifico,
un gesto non nuovo per la nostra redazione ma insolito nella
pratica globale della rivista.