Il quaderno che presentiamo,
a cent’anni dalla nascita di Dietrich Bonhoeffer,
costituisce il tentativo di un bilancio prospettico, con
accentuato interesse per la situazione culturale italiana,
su una delle figure più rappresentative della teologia
protestante del Novecento. L’occasione appare pericolosamente
esposta a intenti celebrativi, dal cui accento (imperniato
ora sulla figura di testimone, ora su quella del teologo
visionario, o viceversa concentrato nell’acribia
neutrale della ricostruzione storiografica) sarebbe comunque
possibile ricavare l’indice di attualità
che si ascrive tuttora al teologo di Breslau. Ma i rischi
celebrativi si complicano ulteriormente, quando si pensi
che la teologia bonhoefferiana, in specie proprio in Italia,
ha incrociato la formazione culturale di tanti, di provenienza
culturale diversa e anche di matrice esplicitamente agnostica.
La teologia bonhoefferiana, la sua stessa biografia come
teologia, ha così interpellato la formazione di
molti, sì che fare i conti con il suo pensiero
– le sue intuizioni e i suoi limiti, le profezie
avverate e quelle fallite – è un po’
come fare i conti con la stessa biografia spirituale di
molti di noi. I rischi di una deformazione nell’impianto
stesso del confronto si accrescono, allora, ulteriormente,
ma si accresce altresì l’urgenza di una ricognizione
di quegli elementi che hanno costituito il materiale della
formazione di un’intera generazione (e oltre) di
studiosi. Del resto, questo stesso approccio ha radici
bonhoefferiane, nella sua urgenza a interpellarsi sul
significato, oggi, per noi, di ciò che massimamente
gli stava a cuore, il cristianesimo (cf. lettera del 30.4.44).
La stessa modalità di domandare, oggi e per noi,
ci interroga circa l’eredità bonhoefferiana.
Il suo significato ha riguardato, a mio parere, soprattutto
questi cinque aspetti: il tema ecclesiologico-ecumenico;
la dimensione spirituale della sequela fino ai suoi esiti
di testimonianza politica; l’elaborazione di un’etica
radicata in Cristo; le implicite valenze filosofico-ontologiche
della sua teologia; la proposta di una definizione della
vicenda della modernità in termini di secolarizzazione
e la connessa questione dell’interpretazione non religiosa
del cristianesimo. Le problematiche che si affacciano attraverso
quest’elenco sono tali da accreditare una polimorfia
della teologia bonhoefferiana, che solo un marketing culturale,
interessato negli anni sessanta esclusivamente alle tematiche
della secolarizzazione, ha potuto oscurare. E tuttavia sarebbe
ingiusto trascurare il fatto che questa difficile reductio
ad unum della teologia bonhoefferiana è pur sostenuta
da un intento fondamentalmente unitario che attraversa tutto
l’arco della produzione di Bonhoeffer, la quale, se
giunge a nuove formulazioni, lo fa non a seguito di una
cesura nel pensiero, ma in forza di nuove urgenze che l’oggi
impone, obbligando a una ricapitolazione e rimodulazione
di antichi convincimenti. La polimorfia di Bonhoeffer insomma
– e in ciò alla fine gli studiosi prevalentemente
convengono – è percorsa da un consapevole intento
unitario.
Se però le cose stessero così, o solo
così, sarebbe difficile comprendere come gli studi
su Bonhoeffer e gli interessi per lui siano animati da
uno spirito di fondamentale convergenza, da un’innegabile,
anche se difficile a precisarsi, “aria di famiglia”,
la quale però – ed è qui forse il
dato sorprendente – non sfocia in un’interpretazione
unitaria e altrettanto convergente. Tutto, negli studi
bonhoefferiani, sembra procedere esattamente al contrario
di quanto abbiamo detto, ossia non da una polifonia di
interessi che si stringe verso un centro unitario su cui
prendere posizione interpretativa, ma piuttosto muovendo
una previa unità di interessi, che poi si sfrangia
nella polifonia delle questioni tematiche, mantenendo
sì quell’aria di famiglia di cui s’è
detto, ma anche eludendo, per il movimento eccentrico
degli interessi, la presa di posizione finale e decisiva.
Per comprendere come ciò sia stato possibile, occorre
non tanto abbandonare l’ipotesi interpretativa che
abbiamo avanzato, quanto renderla più complessa
e approfondirla. In ciascuno dei punti che abbiamo enunciato,
e se ne può talora intravedere una traccia nella
stessa sintetica formulazione proposta, Bonhoeffer appare
infatti attraversato da una divaricazione interiore, quasi
una spaccatura. La sua interrogazione circa l’oggi
non è in alcun modo motivata da un irenico adattarsi
ai tempi che mutano. Non c’è in lui nessun
semplicistico bisogno di “attualità”.
Anzi Bonhoeffer, per educazione, formazione culturale
e appartenenza di classe, è affatto refrattario
a quest’atteggiamento e inclina piuttosto per un
conservatorismo dei valori e delle stesse strutture L’oggi
assurge piuttosto a categoria teologica. È per
ragioni teologiche, infatti, che sono condotto a volgermi
all’oggi, perché anche per esso è
stata detta la parola di salvezza e perché la parola
di salvezza che ha da essere detta deve parlare, rinnovata
fino alla radice, anche all’oggi. Conservatore per
indole, Bonhoeffer diviene innovatore radicale per ragioni
teologiche. Qui egli parla a tutti, anche a coloro che
non condividono le motivazioni delle sue scelte. Ma qui,
anche – ed è questo il problema che ce lo
riconsegna oggi – egli rischia di rimanere muto
per molti, se non per tutti, e rigettarli nella parzialità
delle adesioni settoriali ai tanti possibili risvolti
ed esiti e prolungamenti di Bonhoeffer. E tuttavia come
pronunciarsi, magari negativamente, magari prendendo le
distanze, proprio da quel punto decisivo di svolta, che
è la radice del fascino diffuso che il suo pensiero
ha suscitato? E tanto più, come farlo oggi, quando
il cuore estremo del suo messaggio – il tempo di
una secolarizzazione compiuta – appare singolarmente
smentito dalla storia? Perché mai affidarsi alla
provocatoria e tagliente istanza teologica del suo “oggi“,
quando il semplice "aggiornamento" appare dare
esiti ben più promettenti e tanto meno radicali?
Tutte queste ipotesi valgono almeno a confermare che Bonhoeffer
contiene ancora un materiale incandescente e che mette in
questione le nostre stesse biografie intellettuali e spirituali.
Ma, per esaminare più analiticamente le articolazioni
di tali questioni, conviene ritornare partitamene, anche
se brevemente, sui cinque punti, che ho evocato inizialmente.
Il tema ecclesiologico, cui è dedicato in questo
quaderno uno specifico approfondimento, appare accompagnare
l’intero percorso bonhoefferiano, anche se più
esplicita è la trattazione che gli si riserva nel
periodo giovanile (in particolare con Sanctorum communio
e Atto ed essere). Proprio questa questione, che appare
a tutta prima esclusivamente intrateologica, mossa anzitutto
dalla necessità di un riposizionamento dopo gli eccessi
di attualismo collegati a Barth, contiene elementi di validità
permanente, come mostra persuasivamente Bosco. L’ecclesiologia
cristologia di Sanctorum communio contiene infatti in nuce
le premesse per quegli sviluppi ontologici, su cui dovremo
soffermarci, ma indirizza anche verso quel tema del primato
della realtà sulla possibilità, che fruttificherà
nell’etica e condurrà a conseguenze inattese
negli ultimi scritti, quando il miracolo della chiesa dovrà
confrontarsi con una compiuta maggiore età del mondo.
È significativo peraltro che questo percorso, che
può apparire progressivo (e che come tale è
stato letto inizialmente dalla critica: un cammino “dalla
chiesa al mondo”), contenga in sé un significativo
ritorno circolare, per il riattingere proprio degli ultimi
scritti a intuizioni come quelle che parlano della chiesa
come della presenza di Cristo nella storia o per la ripresa
di concetti come “essere con gli altri” ed “essere
per gli altri”, che sono appunto un motivo conduttore
dell’ultima produzione. Di qui quella che Bosco, con
espressione felice, chiama “discontinuità nella
continuità” o anche quell’ “eccentricità”
rispetto al proprio contesto culturale cui si fa riferimento
nel saggio di Gallas. L’analisi puntuale che egli
conduce mostra infatti in modo convincente che Bonhoeffer
opera continuamente ai margini del proprio ambiente culturale
di riferimento. Questo vale anche per la sua stessa adesione
alla Chiesa confessante, cui non risparmia critiche, e per
il suo lavoro ecumenico, anzitutto nel dialogo tra le diverse
confessioni protestanti. Ne scaturisce, come abbiamo accennato,
la permanente possibilità di convenire con Bonhoeffer
per quel tanto che ciascuno vi riconosce di proprio, ma
anche il rischio non indifferente di fallire il cuore non
riducibile, la tensione non eliminabile e talora neppure
adeguatamente concettualizzato, del suo pensiero. L’eccentricità
e la marginalità di Bonhoeffer rappresentano forse
il dato più intimo del suo modo di pensare. Essi
si prestano anche a un riconoscimento plurimo, verrebbe
da dire universale. Favoriscono un’affinità
che travalica le singole posizioni. Al tempo stesso, un
passo oltre deve essere fatto, ed è quello di riconoscere
che la ragione di questa marginalità non è
solo storica, ma ha un fortissimo fondamento ultimo, che
per Bonhoeffer è cristologico. Qui, allora, comprensibilmente
le strade possono dividersi. E tuttavia non senza che si
avverta che nessuno può appropriarsi di questo fondamento
come se fosse il suo, perché esso vale piuttosto
come un comando. E nessuno, reciprocamente, può sentirsene
del tutto escluso, perché essenziale, prima ancora
di dare nome a questo fondamento, è la dialettica,
che tutti interpella, tra parzialità e particolarità
di una scelta e suo radicamento in un assoluto. È
in questo spirito, ad esempio, che possono essere lette
le pagine intense di testimonianza in cui credenti e non
credenti evidenziano il significato nel loro itinerario
culturale della figura bonhoefferiana.
Il secondo tema, che può essere richiamato sotto
la cifra della sequela-testimonianza, è la straordinaria
rilevanza che, nel suo percorso culturale, riveste la dimensione
biografica. La grande biografia dell’amico Bethge
ha assunto in questo contesto quasi l’inconsueto valore
di canone ermeneutico, non solo per la ricchezza del materiale
offerto, ma anche per l’autorevolezza di testimone
del suo redattore. Bonhoeffer sembra riproporre in teologia
qualcosa di simile a quello che era accaduto ai giovani
hegeliani. La sua biografia, pur avendo anche legami con
l’accademia, è però sostanzialmente
estranea ad essa. Le preoccupazioni dominanti sono ecclesiali,
pastorali, storiche. Dall’esperienza di Finkenwalde
si passa all’attività per il movimento ecumenico,
che ben presto si intreccia con l’attività
di cospirazione antinazista. La vita in Germania, sempre
più difficile, si orienta sulla base di ripetuti
e prolungati soggiorni all’estero. Ma, nel momento
decisivo, la Germania ritorna a essere il luogo della vocazione
cui non ci si sottrae. Su queste basi non è difficile
costruire la figura di Bonhoeffer testimone e martire o
di risolvere il possibile criptomonachesimo di Finkenwalde
nella mondanità del resistente. E ancora una volta
ciascuno può trovare la figura che più gli
è congeniale, e accentuare quella. Ma sarebbe far
torto a Bonhoeffer trascurare che è la medesima vocazione
a reggere percorsi tanto differenziati e, ancora, che si
tratta di percorsi che non si collocano sul piano di uno
sviluppo lineare – quasi che l’ultimo Bonhoeffer
non potesse più tornare all’attività
di pastore e di educatore – ma che potrebbero benissimo
essere pensati (salvo il mutare di certi accenti) anche
alla rovescia. Mai, nemmeno nell’epoca delle esperienze
comunitarie, Bonhoeffer ha pensato di dover divenire santo,
e dunque neppure è legittimo ipotizzare la santità
laica del martire. Con sempre più intransigenza egli
ha voluto soltanto imparare a credere, e le strade dell’oggi
– quelle strade in cui egli misura le urgenze del
tempo, si pensi alle intense pagine di Dieci anni dopo –
l’hanno condotto volta a volta verso altre direzioni,
e verso altre ancora avrebbero potuto guidarlo, se avesse
potuto continuare a vivere. Sempre per imparare a credere.
L’opera più matura di Bonhoeffer è
l’Etica. Qui troviamo il centro della sua riflessione.
Ma, ancora una volta, l’etica non è la traduzione
né la risoluzione della teologia, bensì il
luogo teologico che l’oggi ci consegna. Come suggerisce
la formulazione adottata da Sorrentino, l’etica bonhoefferiana
è un’etica della mediazione. Ciò comporta
una triplice prospettiva: l’etica è orientata
al concetto di realtà (e in sede cristiana la realtà
ultima è Cristo); la realtà è, per
un verso dotata di un forma (le riflessioni sul “naturale”),
e per l’altro suscettibile di ricevere forma (essa
può essere conformata a Cristo: la natura è
in verità creazione); dare forma significa operare
secondo responsabilità per conferire al nostro essere
la forma dell’umano. Come ho osservato altrove, l’Etica
è il crocevia tensivo in cui tutte le strade del
pensiero di Bonhoeffer confluiscono. Essa è anche
il luogo da cui si dipartono possibili ulteriori sviluppi.
Proprio perciò rischia di essere intesa come luogo
di passaggio e non come “luogo” teologico, terreno
sui cui oggi la teologia insiste e si radica (e forse non
solo la teologia). Anche l’Etica è frammentaria.
Per certi aspetti più delle lettere dal carcere.
Queste infatti lo sono da un punto di vista di cifra stilistica
e di formulazione ancora liminare di pensiero, l’Etica
invece è un incastro, non definitivamente unificato,
di spezzoni di pensiero che restano in tensione tra loro.
L’etica è luogo della svolta, dove svolta significa
mutare di prospettiva per tener fermo alle medesime radici.
Come si è detto, appunto, discontinuità nella
continuità. La mediazione, allora, non va intesa
come un’irenica operazione di composizione, ma come
un rischioso e responsabile progetto di unità. Quanto
rischioso esso sia, è mostrato dal tentativo di comporre
il radicalismo cristiano di un Barth con la pagana fedeltà
alla terra di un Nietzsche. Senza cristianizzare nulla,
e senza annacquare mondanamente alcuna fede. Anche qui,
mirare a una nuova completezza dell’uomo, che è
direttamente alternativa al fallimentare neopaganesimo nazista,
ma che è anche consapevole delle insufficienze di
etiche laiche o di annunci cristiani che restino, a diverso
titolo, meramente formali e perciò indifesi di fronte
alla concretezza del reale. E sul tema della fedeltà
alla terra, letto nella sua rilevanza teologica, si sofferma
nel suo inteso saggio Jürgen Moltmann.
Ma quest’uomo completo, questa compiutezza dell’uomo,
cui tutti, da diversa prospettiva vagamente aspiriamo, come
si compone con le concrete scelte storiche e di coscienza,
con le scelte della politica e la collocazione ecclesiale,
anch’essa secondo una determinata, visibile, confessione.
Come condividerla nelle divisioni dell’operare storico?
O, diversamente, come preservarne il senso? Come è
noto, la disciplina dell’arcano pare la formula cui
(con tutta l’indeterminatezza in cui è lasciata)
affidarsi per trovare una soluzione a questa duplice esigenza.
Ma proprio essa, per la sua esplicita matrice teologica,
è ciò che respinge chi laicamente si accosti
a Bonhoeffer. E come allora conservarne i motivi etici,
respingendone il fondamento? Forse fermandosi prima di esso,
lasciandolo sullo sfondo. E come conservare allora la fedeltà
a Bonhoeffer, per voler essere fedeli alle sue suggestioni?
Resta un enigma. Ma non è forse un enigma la fede,
un enigma che si fa vedere, e perciò risulta ancora
più enigmatico: un infondato fondamento?
Il quarto snodo teorico dell’eredità bonhoefferiana
sono i potenziali sviluppi filosofici e ontologici della
sua teologia. A ciò ha richiamato soprattutto la
letteratura secondaria italiana, come mostrano anche le
pagine dedicate in questo quaderno alla ricezione italiana
di Bonhoeffer e il saggio esplicitamente dedicato alla lettura
di Italo Mancini. Vi sono al riguardo ragioni storiche e,
per così dire istituzionali, che si fanno del resto
avvertire anche nella storia di questa rivista. La teologia
in Italia non dispone infatti di uno statuto accademico
laico, ma trova espressione pressoché esclusiva all’interno
di Facoltà ecclesiastiche o comunque confessionali
che hanno reagito assai più lentamente alle provocazioni
bonhoefferiane di quanto non sia accaduto nelle facoltà
dello stato, prevalentemente attraverso le cattedre di filosofia
della religione. Queste, sviluppatesi all’indomani
del ’68, furono particolarmente sensibili alle suggestioni
della più recente teologia protestante di origine
tedesca, come del resto mostra anche l’imponente attività
editoriale condotta dalla Queriniana. Naturalmente ciò
avveniva sulla base di una formazione anzitutto e prevalentemente
filosofica (basti pensare, a conferma, che la prima introduzione
italiana alla teologia sia avvenuta a partire da filosofi
e con una prevalenza di competenze filosofiche, cf. F. Ardusso,
G. Ferretti, A. Pastore, U. Perone, Introduzione alla teologia
contemporanea, Sei, Torino 1972, evoluta poi, presso Marietti,
1980, in La teologia contemporanea). Diveniva perciò
naturale un’attenzione tutta particolare per le implicazioni
filosofiche del discorso bonhoefferiano, attestate del resto
ampiamente anche da studiosi di matrice teologica. Anche
in questo caso siamo di fronte a una robusta struttura unitaria,
che si dipana dai primi scritti ecclesiologici fino alle
lettere dal carcere. Anche qui, però, questa struttura
unitaria contiene fortissimi (e affascinanti) elementi tensivi,
perché si svolge per esigenze anzitutto teologiche
(e affatto refrattarie a contaminazioni con saperi allotri
come il freudismo e l’esistenzialismo) e in continuità
con un’impostazione, come quella barthiana, che non
manca di essere esplicitamente polemica con il sapere filosofico.
E tuttavia, come già del resto in Barth, il confronto,
ancorché implicito, con la filosofia conduce la teologia
a cercare risposta alle grandi questioni che nell’oggi
si affacciano. Determinante diviene allora il confronto
con l’illuminismo, da cui Bonhoeffer ricava il concetto
di onestà intellettuale, con Feuerbach e Nietzsche,
che lo conducono a rivendicare teologicamente tanto l’umanismo
ateo di Feuerbach quanto il principio nietzschiano della
fedeltà alla terra. Ma determinante resta anche,
come mostra il saggio di Ferrario, un’attenta calibratura
della portata della critica di Bonhoeffer a Barth, cioè
a quello che resta pur sempre l’orizzonte teologico
determinante del nostro autore. E, più vicino a noi,
sollecitata anche da un confronto con Heidegger, l’esigenza
di riguadagnare, dopo la crisi e il rifiuto della metafisica
e della religione, un nuovo terreno ontologico che concepisca
(teologicamente) l’essere come essere creato e fondi
in Cristo la possibilità di quest’ontologia.
Tale programma, già avviato in Atto ed essere, trova
svolgimento nell’Etica, che è la dichiarazione
del fallimento tanto del formalismo etico kantiano quanto
del puro e semplice rifiuto, cristianamente motivato, del
fatto etico. Ne sono riprova i noti concetti bonhoefferiani
di Cristo come “forma” della realtà,
il ripensamento di categorie come quelle di naturale e creato
e di penultimo e ultimo, la concretezza storica che viene
riconosciuta al bene e la significanza etica che assume
il tema della riuscita. Si avvia di qui quel concetto di
multidimensionalità dei piani dell’essere che
mira, come le lettere esplicitamente affermano, a «rivendicare»
a Cristo la realtà nel suo complesso spessore, ma
anche a riconoscere a questa una consistenza autonoma, una
validità penultima, che giova piuttosto proteggere,
che contestare. Tutto ciò sullo sfondo di un’unità
in Cristo, che non è mai irenica o presupposta, ma
che resta tensiva o, come egli si esprime, che è
unità «polemica» di cielo e terra.
Tutto ciò, a parer mio, rimette in discussione
produttivamente una troppo semplice opposizione tra teologia
evangelica e teologica cattolica, scombinando le carte tanto
per l’una quanto per l’altra, e inquieta il
filosofo, il quale si trova spiazzato da una riflessione
che radica l’ontologia nella cristologia (horribile
dictu), ma che al tempo stesso assicura all’ontologia
(e anche all’etica) un vigoroso statuto di autonomia.
Anche qui egli rimette in discussione la troppo facile opposizione
tra autonomia ed eteronomia e più in generale tra
un sapere filosofico che garantisce la validità dei
propri concetti per il fatto di averli prodotti, e una ricerca
filosofica che si sporge continuamente oltre se stessa e
che perciò deve continuamente ripensare le stesse
categorie di cui si avvale. Ancora una volta la duplicità
bonhoefferiana attira e respinge. Credenti e non credenti,
filosofi e teologi, difensori e critici dell’ontologia,
tutti insomma, trovano qualcosa che parla al loro cuore,
perché nulla in Bonhoeffer è mai detto come
se solo una parte avesse ragione. Anzi tutto si affaccia
sempre come se fosse sempre “l’altra parte”
ad avere qualche ragione in più, qualcosa che mi
provoca e mi interpella. Ma poi respinge anche, perché
la tensione mirabile, che egli attraversa, mira infine a
un’unità, anzi mai ne dubita, e la cerca radicata
nel contesto cristiano e teologico. Non diversamente, infine,
accade per il tema della secolarizzazione, che per ultimo
e più brevemente affrontiamo, considerata la sua
notorietà. Non solo la sbrigativa requisizione di
Bonhoeffer come teologo della morte di Dio fallisce completamente
la complessità della formula bonhoefferiana dell’etsi
deus non daretur, anche il recente ribaltamento della formula
che invita, in una società atea, a darsi regole di
comportamento etsi deus daretur appare inadeguata a reggere
la complessità della situazione cristiana delineata
da Bonhoeffer. La sua visione della maggiore età
del mondo viene letta infatti, dall’una e dall’altra
parte, come l’esito lineare di un processo continuo:
da abbracciare, pieni di speranza, o da arginare, per lo
smarrimento che produce. Ma non è questo lo schema
bonhoefferiano, che, ben consapevole delle asprezze dell’oggi,
lo vede come l’esito di un processo di rottura, di
una discontinuità dolorosa e non colmabile. E tuttavia
rivendicabile teologicamente, qualcosa di cui farsi carico,
con responsabilità, come ci si fa carica di un’eredità.
E analogamente si deve dire per l’interpretazione
non religiosa del cristianesimo, che, alla luce delle pertinenti
critiche a Bultmann volte a riscattare l’intero contenuto
mitologico dell’annuncio ebraico-cristiano (cf. lettera
dell’8.6.44), non può essere letta in chiave
semplicemente riduzionistica, ma riposizionata, come hanno
mostrato gli studi di Ernst Feil, su un ben più articolato
e complesso dibattito relativo alla nozione di religione
come condizione della fede. Oggi questa condizione non è
più data; essa del resto non si deve neppure considerare
necessaria. Tutto ciò, a parer mio, delinea un compito
che non è valido solo in sede teologica, ma che,
mutatis mutandis, interpella anche la filosofia, la quale,
come spesso è accaduto, può trovare lo stimolo
per il proprio ripensamento proprio a partire da suggerimenti
che provengono da fuori di sé, da sfide che la storia
pone e che altre discipline possono aver avvertito anche
prima e anche meglio. L’eredità bonhoefferiana
dunque non è solo teologica, né risiede esclusivamente
sulla sua capacità di descrivere il disagio e i fallimenti
di un tempo che continua a essere il nostro. Essa non si
limita neppure alle indicazioni di pensiero, pur numerose
e preziose, che egli ci ha lasciato. Quest’eredità
risiede soprattutto nel fatto che, meglio e più di
altri, Bonhoeffer ha compreso che il nostro tempo pone il
problema di un nuovo inizio che non può più
avere la forma della continuità o della ripresa del
passato. Proprio quest’inizio nella discontinuità
– una discontinuità che però non è
sottovalutazione o banalizzazione del già stato –
doveva essere il pensiero di una teologia forte, di una
teologia della pienezza dell’uomo, come Bonhoeffer,
senza scorciatoie all’indietro verso sentieri definitivamente
preclusi, voleva che fosse, ma anche, al tempo stesso, una
teologia del Dio sofferente. Proprio a partire di qui, Moltmann,
in quella che è una raffinata rilettura della teologia
del «più noto teologo tedesco del XX secolo»
condotta in controcanto con le proprie tesi teologiche e
con le vicende spirituali e culturali del dopoguerra, sottolinea
nel saggio che introduce questo quaderno come il Dio sofferente
sia un Dio che «porta e sostiene» il mondo,
che ne assume, in una dimensione globale le sofferenze e
le attese, un Dio a cui conviene, dunque, il nome di Dio
della speranza.
Ma un nuovo, difficile inizio è richiesto oggi
anche alla filosofia e probabilmente, più in generale,
al nostro tempo. Perciò, anche, abbiamo bisogno di
ascoltarci molto seriamente l’un l’altro, teologi
e filosofi, credenti e non credenti.