FILOSOFIA E TEOLOGIA
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Il quaderno che presentiamo, a cent’anni dalla nascita di Dietrich Bonhoeffer, costituisce il tentativo di un bilancio prospettico, con accentuato interesse per la situazione culturale italiana, su una delle figure più rappresentative della teologia protestante del Novecento. L’occasione appare pericolosamente esposta a intenti celebrativi, dal cui accento (imperniato ora sulla figura di testimone, ora su quella del teologo visionario, o viceversa concentrato nell’acribia neutrale della ricostruzione storiografica) sarebbe comunque possibile ricavare l’indice di attualità che si ascrive tuttora al teologo di Breslau. Ma i rischi celebrativi si complicano ulteriormente, quando si pensi che la teologia bonhoefferiana, in specie proprio in Italia, ha incrociato la formazione culturale di tanti, di provenienza culturale diversa e anche di matrice esplicitamente agnostica. La teologia bonhoefferiana, la sua stessa biografia come teologia, ha così interpellato la formazione di molti, sì che fare i conti con il suo pensiero – le sue intuizioni e i suoi limiti, le profezie avverate e quelle fallite – è un po’ come fare i conti con la stessa biografia spirituale di molti di noi. I rischi di una deformazione nell’impianto stesso del confronto si accrescono, allora, ulteriormente, ma si accresce altresì l’urgenza di una ricognizione di quegli elementi che hanno costituito il materiale della formazione di un’intera generazione (e oltre) di studiosi. Del resto, questo stesso approccio ha radici bonhoefferiane, nella sua urgenza a interpellarsi sul significato, oggi, per noi, di ciò che massimamente gli stava a cuore, il cristianesimo (cf. lettera del 30.4.44). La stessa modalità di domandare, oggi e per noi, ci interroga circa l’eredità bonhoefferiana.

Il suo significato ha riguardato, a mio parere, soprattutto questi cinque aspetti: il tema ecclesiologico-ecumenico; la dimensione spirituale della sequela fino ai suoi esiti di testimonianza politica; l’elaborazione di un’etica radicata in Cristo; le implicite valenze filosofico-ontologiche della sua teologia; la proposta di una definizione della vicenda della modernità in termini di secolarizzazione e la connessa questione dell’interpretazione non religiosa del cristianesimo. Le problematiche che si affacciano attraverso quest’elenco sono tali da accreditare una polimorfia della teologia bonhoefferiana, che solo un marketing culturale, interessato negli anni sessanta esclusivamente alle tematiche della secolarizzazione, ha potuto oscurare. E tuttavia sarebbe ingiusto trascurare il fatto che questa difficile reductio ad unum della teologia bonhoefferiana è pur sostenuta da un intento fondamentalmente unitario che attraversa tutto l’arco della produzione di Bonhoeffer, la quale, se giunge a nuove formulazioni, lo fa non a seguito di una cesura nel pensiero, ma in forza di nuove urgenze che l’oggi impone, obbligando a una ricapitolazione e rimodulazione di antichi convincimenti. La polimorfia di Bonhoeffer insomma – e in ciò alla fine gli studiosi prevalentemente convengono – è percorsa da un consapevole intento unitario.

Se però le cose stessero così, o solo così, sarebbe difficile comprendere come gli studi su Bonhoeffer e gli interessi per lui siano animati da uno spirito di fondamentale convergenza, da un’innegabile, anche se difficile a precisarsi, “aria di famiglia”, la quale però – ed è qui forse il dato sorprendente – non sfocia in un’interpretazione unitaria e altrettanto convergente. Tutto, negli studi bonhoefferiani, sembra procedere esattamente al contrario di quanto abbiamo detto, ossia non da una polifonia di interessi che si stringe verso un centro unitario su cui prendere posizione interpretativa, ma piuttosto muovendo una previa unità di interessi, che poi si sfrangia nella polifonia delle questioni tematiche, mantenendo sì quell’aria di famiglia di cui s’è detto, ma anche eludendo, per il movimento eccentrico degli interessi, la presa di posizione finale e decisiva. Per comprendere come ciò sia stato possibile, occorre non tanto abbandonare l’ipotesi interpretativa che abbiamo avanzato, quanto renderla più complessa e approfondirla. In ciascuno dei punti che abbiamo enunciato, e se ne può talora intravedere una traccia nella stessa sintetica formulazione proposta, Bonhoeffer appare infatti attraversato da una divaricazione interiore, quasi una spaccatura. La sua interrogazione circa l’oggi non è in alcun modo motivata da un irenico adattarsi ai tempi che mutano. Non c’è in lui nessun semplicistico bisogno di “attualità”. Anzi Bonhoeffer, per educazione, formazione culturale e appartenenza di classe, è affatto refrattario a quest’atteggiamento e inclina piuttosto per un conservatorismo dei valori e delle stesse strutture L’oggi assurge piuttosto a categoria teologica. È per ragioni teologiche, infatti, che sono condotto a volgermi all’oggi, perché anche per esso è stata detta la parola di salvezza e perché la parola di salvezza che ha da essere detta deve parlare, rinnovata fino alla radice, anche all’oggi. Conservatore per indole, Bonhoeffer diviene innovatore radicale per ragioni teologiche. Qui egli parla a tutti, anche a coloro che non condividono le motivazioni delle sue scelte. Ma qui, anche – ed è questo il problema che ce lo riconsegna oggi – egli rischia di rimanere muto per molti, se non per tutti, e rigettarli nella parzialità delle adesioni settoriali ai tanti possibili risvolti ed esiti e prolungamenti di Bonhoeffer. E tuttavia come pronunciarsi, magari negativamente, magari prendendo le distanze, proprio da quel punto decisivo di svolta, che è la radice del fascino diffuso che il suo pensiero ha suscitato? E tanto più, come farlo oggi, quando il cuore estremo del suo messaggio – il tempo di una secolarizzazione compiuta – appare singolarmente smentito dalla storia? Perché mai affidarsi alla provocatoria e tagliente istanza teologica del suo “oggi“, quando il semplice "aggiornamento" appare dare esiti ben più promettenti e tanto meno radicali?

Tutte queste ipotesi valgono almeno a confermare che Bonhoeffer contiene ancora un materiale incandescente e che mette in questione le nostre stesse biografie intellettuali e spirituali. Ma, per esaminare più analiticamente le articolazioni di tali questioni, conviene ritornare partitamene, anche se brevemente, sui cinque punti, che ho evocato inizialmente. Il tema ecclesiologico, cui è dedicato in questo quaderno uno specifico approfondimento, appare accompagnare l’intero percorso bonhoefferiano, anche se più esplicita è la trattazione che gli si riserva nel periodo giovanile (in particolare con Sanctorum communio e Atto ed essere). Proprio questa questione, che appare a tutta prima esclusivamente intrateologica, mossa anzitutto dalla necessità di un riposizionamento dopo gli eccessi di attualismo collegati a Barth, contiene elementi di validità permanente, come mostra persuasivamente Bosco. L’ecclesiologia cristologia di Sanctorum communio contiene infatti in nuce le premesse per quegli sviluppi ontologici, su cui dovremo soffermarci, ma indirizza anche verso quel tema del primato della realtà sulla possibilità, che fruttificherà nell’etica e condurrà a conseguenze inattese negli ultimi scritti, quando il miracolo della chiesa dovrà confrontarsi con una compiuta maggiore età del mondo. È significativo peraltro che questo percorso, che può apparire progressivo (e che come tale è stato letto inizialmente dalla critica: un cammino “dalla chiesa al mondo”), contenga in sé un significativo ritorno circolare, per il riattingere proprio degli ultimi scritti a intuizioni come quelle che parlano della chiesa come della presenza di Cristo nella storia o per la ripresa di concetti come “essere con gli altri” ed “essere per gli altri”, che sono appunto un motivo conduttore dell’ultima produzione. Di qui quella che Bosco, con espressione felice, chiama “discontinuità nella continuità” o anche quell’ “eccentricità” rispetto al proprio contesto culturale cui si fa riferimento nel saggio di Gallas. L’analisi puntuale che egli conduce mostra infatti in modo convincente che Bonhoeffer opera continuamente ai margini del proprio ambiente culturale di riferimento. Questo vale anche per la sua stessa adesione alla Chiesa confessante, cui non risparmia critiche, e per il suo lavoro ecumenico, anzitutto nel dialogo tra le diverse confessioni protestanti. Ne scaturisce, come abbiamo accennato, la permanente possibilità di convenire con Bonhoeffer per quel tanto che ciascuno vi riconosce di proprio, ma anche il rischio non indifferente di fallire il cuore non riducibile, la tensione non eliminabile e talora neppure adeguatamente concettualizzato, del suo pensiero. L’eccentricità e la marginalità di Bonhoeffer rappresentano forse il dato più intimo del suo modo di pensare. Essi si prestano anche a un riconoscimento plurimo, verrebbe da dire universale. Favoriscono un’affinità che travalica le singole posizioni. Al tempo stesso, un passo oltre deve essere fatto, ed è quello di riconoscere che la ragione di questa marginalità non è solo storica, ma ha un fortissimo fondamento ultimo, che per Bonhoeffer è cristologico. Qui, allora, comprensibilmente le strade possono dividersi. E tuttavia non senza che si avverta che nessuno può appropriarsi di questo fondamento come se fosse il suo, perché esso vale piuttosto come un comando. E nessuno, reciprocamente, può sentirsene del tutto escluso, perché essenziale, prima ancora di dare nome a questo fondamento, è la dialettica, che tutti interpella, tra parzialità e particolarità di una scelta e suo radicamento in un assoluto. È in questo spirito, ad esempio, che possono essere lette le pagine intense di testimonianza in cui credenti e non credenti evidenziano il significato nel loro itinerario culturale della figura bonhoefferiana.

Il secondo tema, che può essere richiamato sotto la cifra della sequela-testimonianza, è la straordinaria rilevanza che, nel suo percorso culturale, riveste la dimensione biografica. La grande biografia dell’amico Bethge ha assunto in questo contesto quasi l’inconsueto valore di canone ermeneutico, non solo per la ricchezza del materiale offerto, ma anche per l’autorevolezza di testimone del suo redattore. Bonhoeffer sembra riproporre in teologia qualcosa di simile a quello che era accaduto ai giovani hegeliani. La sua biografia, pur avendo anche legami con l’accademia, è però sostanzialmente estranea ad essa. Le preoccupazioni dominanti sono ecclesiali, pastorali, storiche. Dall’esperienza di Finkenwalde si passa all’attività per il movimento ecumenico, che ben presto si intreccia con l’attività di cospirazione antinazista. La vita in Germania, sempre più difficile, si orienta sulla base di ripetuti e prolungati soggiorni all’estero. Ma, nel momento decisivo, la Germania ritorna a essere il luogo della vocazione cui non ci si sottrae. Su queste basi non è difficile costruire la figura di Bonhoeffer testimone e martire o di risolvere il possibile criptomonachesimo di Finkenwalde nella mondanità del resistente. E ancora una volta ciascuno può trovare la figura che più gli è congeniale, e accentuare quella. Ma sarebbe far torto a Bonhoeffer trascurare che è la medesima vocazione a reggere percorsi tanto differenziati e, ancora, che si tratta di percorsi che non si collocano sul piano di uno sviluppo lineare – quasi che l’ultimo Bonhoeffer non potesse più tornare all’attività di pastore e di educatore – ma che potrebbero benissimo essere pensati (salvo il mutare di certi accenti) anche alla rovescia. Mai, nemmeno nell’epoca delle esperienze comunitarie, Bonhoeffer ha pensato di dover divenire santo, e dunque neppure è legittimo ipotizzare la santità laica del martire. Con sempre più intransigenza egli ha voluto soltanto imparare a credere, e le strade dell’oggi – quelle strade in cui egli misura le urgenze del tempo, si pensi alle intense pagine di Dieci anni dopo – l’hanno condotto volta a volta verso altre direzioni, e verso altre ancora avrebbero potuto guidarlo, se avesse potuto continuare a vivere. Sempre per imparare a credere.

L’opera più matura di Bonhoeffer è l’Etica. Qui troviamo il centro della sua riflessione. Ma, ancora una volta, l’etica non è la traduzione né la risoluzione della teologia, bensì il luogo teologico che l’oggi ci consegna. Come suggerisce la formulazione adottata da Sorrentino, l’etica bonhoefferiana è un’etica della mediazione. Ciò comporta una triplice prospettiva: l’etica è orientata al concetto di realtà (e in sede cristiana la realtà ultima è Cristo); la realtà è, per un verso dotata di un forma (le riflessioni sul “naturale”), e per l’altro suscettibile di ricevere forma (essa può essere conformata a Cristo: la natura è in verità creazione); dare forma significa operare secondo responsabilità per conferire al nostro essere la forma dell’umano. Come ho osservato altrove, l’Etica è il crocevia tensivo in cui tutte le strade del pensiero di Bonhoeffer confluiscono. Essa è anche il luogo da cui si dipartono possibili ulteriori sviluppi. Proprio perciò rischia di essere intesa come luogo di passaggio e non come “luogo” teologico, terreno sui cui oggi la teologia insiste e si radica (e forse non solo la teologia). Anche l’Etica è frammentaria. Per certi aspetti più delle lettere dal carcere. Queste infatti lo sono da un punto di vista di cifra stilistica e di formulazione ancora liminare di pensiero, l’Etica invece è un incastro, non definitivamente unificato, di spezzoni di pensiero che restano in tensione tra loro. L’etica è luogo della svolta, dove svolta significa mutare di prospettiva per tener fermo alle medesime radici. Come si è detto, appunto, discontinuità nella continuità. La mediazione, allora, non va intesa come un’irenica operazione di composizione, ma come un rischioso e responsabile progetto di unità. Quanto rischioso esso sia, è mostrato dal tentativo di comporre il radicalismo cristiano di un Barth con la pagana fedeltà alla terra di un Nietzsche. Senza cristianizzare nulla, e senza annacquare mondanamente alcuna fede. Anche qui, mirare a una nuova completezza dell’uomo, che è direttamente alternativa al fallimentare neopaganesimo nazista, ma che è anche consapevole delle insufficienze di etiche laiche o di annunci cristiani che restino, a diverso titolo, meramente formali e perciò indifesi di fronte alla concretezza del reale. E sul tema della fedeltà alla terra, letto nella sua rilevanza teologica, si sofferma nel suo inteso saggio Jürgen Moltmann.

Ma quest’uomo completo, questa compiutezza dell’uomo, cui tutti, da diversa prospettiva vagamente aspiriamo, come si compone con le concrete scelte storiche e di coscienza, con le scelte della politica e la collocazione ecclesiale, anch’essa secondo una determinata, visibile, confessione. Come condividerla nelle divisioni dell’operare storico? O, diversamente, come preservarne il senso? Come è noto, la disciplina dell’arcano pare la formula cui (con tutta l’indeterminatezza in cui è lasciata) affidarsi per trovare una soluzione a questa duplice esigenza. Ma proprio essa, per la sua esplicita matrice teologica, è ciò che respinge chi laicamente si accosti a Bonhoeffer. E come allora conservarne i motivi etici, respingendone il fondamento? Forse fermandosi prima di esso, lasciandolo sullo sfondo. E come conservare allora la fedeltà a Bonhoeffer, per voler essere fedeli alle sue suggestioni? Resta un enigma. Ma non è forse un enigma la fede, un enigma che si fa vedere, e perciò risulta ancora più enigmatico: un infondato fondamento?

Il quarto snodo teorico dell’eredità bonhoefferiana sono i potenziali sviluppi filosofici e ontologici della sua teologia. A ciò ha richiamato soprattutto la letteratura secondaria italiana, come mostrano anche le pagine dedicate in questo quaderno alla ricezione italiana di Bonhoeffer e il saggio esplicitamente dedicato alla lettura di Italo Mancini. Vi sono al riguardo ragioni storiche e, per così dire istituzionali, che si fanno del resto avvertire anche nella storia di questa rivista. La teologia in Italia non dispone infatti di uno statuto accademico laico, ma trova espressione pressoché esclusiva all’interno di Facoltà ecclesiastiche o comunque confessionali che hanno reagito assai più lentamente alle provocazioni bonhoefferiane di quanto non sia accaduto nelle facoltà dello stato, prevalentemente attraverso le cattedre di filosofia della religione. Queste, sviluppatesi all’indomani del ’68, furono particolarmente sensibili alle suggestioni della più recente teologia protestante di origine tedesca, come del resto mostra anche l’imponente attività editoriale condotta dalla Queriniana. Naturalmente ciò avveniva sulla base di una formazione anzitutto e prevalentemente filosofica (basti pensare, a conferma, che la prima introduzione italiana alla teologia sia avvenuta a partire da filosofi e con una prevalenza di competenze filosofiche, cf. F. Ardusso, G. Ferretti, A. Pastore, U. Perone, Introduzione alla teologia contemporanea, Sei, Torino 1972, evoluta poi, presso Marietti, 1980, in La teologia contemporanea). Diveniva perciò naturale un’attenzione tutta particolare per le implicazioni filosofiche del discorso bonhoefferiano, attestate del resto ampiamente anche da studiosi di matrice teologica. Anche in questo caso siamo di fronte a una robusta struttura unitaria, che si dipana dai primi scritti ecclesiologici fino alle lettere dal carcere. Anche qui, però, questa struttura unitaria contiene fortissimi (e affascinanti) elementi tensivi, perché si svolge per esigenze anzitutto teologiche (e affatto refrattarie a contaminazioni con saperi allotri come il freudismo e l’esistenzialismo) e in continuità con un’impostazione, come quella barthiana, che non manca di essere esplicitamente polemica con il sapere filosofico. E tuttavia, come già del resto in Barth, il confronto, ancorché implicito, con la filosofia conduce la teologia a cercare risposta alle grandi questioni che nell’oggi si affacciano. Determinante diviene allora il confronto con l’illuminismo, da cui Bonhoeffer ricava il concetto di onestà intellettuale, con Feuerbach e Nietzsche, che lo conducono a rivendicare teologicamente tanto l’umanismo ateo di Feuerbach quanto il principio nietzschiano della fedeltà alla terra. Ma determinante resta anche, come mostra il saggio di Ferrario, un’attenta calibratura della portata della critica di Bonhoeffer a Barth, cioè a quello che resta pur sempre l’orizzonte teologico determinante del nostro autore. E, più vicino a noi, sollecitata anche da un confronto con Heidegger, l’esigenza di riguadagnare, dopo la crisi e il rifiuto della metafisica e della religione, un nuovo terreno ontologico che concepisca (teologicamente) l’essere come essere creato e fondi in Cristo la possibilità di quest’ontologia. Tale programma, già avviato in Atto ed essere, trova svolgimento nell’Etica, che è la dichiarazione del fallimento tanto del formalismo etico kantiano quanto del puro e semplice rifiuto, cristianamente motivato, del fatto etico. Ne sono riprova i noti concetti bonhoefferiani di Cristo come “forma” della realtà, il ripensamento di categorie come quelle di naturale e creato e di penultimo e ultimo, la concretezza storica che viene riconosciuta al bene e la significanza etica che assume il tema della riuscita. Si avvia di qui quel concetto di multidimensionalità dei piani dell’essere che mira, come le lettere esplicitamente affermano, a «rivendicare» a Cristo la realtà nel suo complesso spessore, ma anche a riconoscere a questa una consistenza autonoma, una validità penultima, che giova piuttosto proteggere, che contestare. Tutto ciò sullo sfondo di un’unità in Cristo, che non è mai irenica o presupposta, ma che resta tensiva o, come egli si esprime, che è unità «polemica» di cielo e terra.

Tutto ciò, a parer mio, rimette in discussione produttivamente una troppo semplice opposizione tra teologia evangelica e teologica cattolica, scombinando le carte tanto per l’una quanto per l’altra, e inquieta il filosofo, il quale si trova spiazzato da una riflessione che radica l’ontologia nella cristologia (horribile dictu), ma che al tempo stesso assicura all’ontologia (e anche all’etica) un vigoroso statuto di autonomia. Anche qui egli rimette in discussione la troppo facile opposizione tra autonomia ed eteronomia e più in generale tra un sapere filosofico che garantisce la validità dei propri concetti per il fatto di averli prodotti, e una ricerca filosofica che si sporge continuamente oltre se stessa e che perciò deve continuamente ripensare le stesse categorie di cui si avvale. Ancora una volta la duplicità bonhoefferiana attira e respinge. Credenti e non credenti, filosofi e teologi, difensori e critici dell’ontologia, tutti insomma, trovano qualcosa che parla al loro cuore, perché nulla in Bonhoeffer è mai detto come se solo una parte avesse ragione. Anzi tutto si affaccia sempre come se fosse sempre “l’altra parte” ad avere qualche ragione in più, qualcosa che mi provoca e mi interpella. Ma poi respinge anche, perché la tensione mirabile, che egli attraversa, mira infine a un’unità, anzi mai ne dubita, e la cerca radicata nel contesto cristiano e teologico. Non diversamente, infine, accade per il tema della secolarizzazione, che per ultimo e più brevemente affrontiamo, considerata la sua notorietà. Non solo la sbrigativa requisizione di Bonhoeffer come teologo della morte di Dio fallisce completamente la complessità della formula bonhoefferiana dell’etsi deus non daretur, anche il recente ribaltamento della formula che invita, in una società atea, a darsi regole di comportamento etsi deus daretur appare inadeguata a reggere la complessità della situazione cristiana delineata da Bonhoeffer. La sua visione della maggiore età del mondo viene letta infatti, dall’una e dall’altra parte, come l’esito lineare di un processo continuo: da abbracciare, pieni di speranza, o da arginare, per lo smarrimento che produce. Ma non è questo lo schema bonhoefferiano, che, ben consapevole delle asprezze dell’oggi, lo vede come l’esito di un processo di rottura, di una discontinuità dolorosa e non colmabile. E tuttavia rivendicabile teologicamente, qualcosa di cui farsi carico, con responsabilità, come ci si fa carica di un’eredità.

E analogamente si deve dire per l’interpretazione non religiosa del cristianesimo, che, alla luce delle pertinenti critiche a Bultmann volte a riscattare l’intero contenuto mitologico dell’annuncio ebraico-cristiano (cf. lettera dell’8.6.44), non può essere letta in chiave semplicemente riduzionistica, ma riposizionata, come hanno mostrato gli studi di Ernst Feil, su un ben più articolato e complesso dibattito relativo alla nozione di religione come condizione della fede. Oggi questa condizione non è più data; essa del resto non si deve neppure considerare necessaria. Tutto ciò, a parer mio, delinea un compito che non è valido solo in sede teologica, ma che, mutatis mutandis, interpella anche la filosofia, la quale, come spesso è accaduto, può trovare lo stimolo per il proprio ripensamento proprio a partire da suggerimenti che provengono da fuori di sé, da sfide che la storia pone e che altre discipline possono aver avvertito anche prima e anche meglio. L’eredità bonhoefferiana dunque non è solo teologica, né risiede esclusivamente sulla sua capacità di descrivere il disagio e i fallimenti di un tempo che continua a essere il nostro. Essa non si limita neppure alle indicazioni di pensiero, pur numerose e preziose, che egli ci ha lasciato. Quest’eredità risiede soprattutto nel fatto che, meglio e più di altri, Bonhoeffer ha compreso che il nostro tempo pone il problema di un nuovo inizio che non può più avere la forma della continuità o della ripresa del passato. Proprio quest’inizio nella discontinuità – una discontinuità che però non è sottovalutazione o banalizzazione del già stato – doveva essere il pensiero di una teologia forte, di una teologia della pienezza dell’uomo, come Bonhoeffer, senza scorciatoie all’indietro verso sentieri definitivamente preclusi, voleva che fosse, ma anche, al tempo stesso, una teologia del Dio sofferente. Proprio a partire di qui, Moltmann, in quella che è una raffinata rilettura della teologia del «più noto teologo tedesco del XX secolo» condotta in controcanto con le proprie tesi teologiche e con le vicende spirituali e culturali del dopoguerra, sottolinea nel saggio che introduce questo quaderno come il Dio sofferente sia un Dio che «porta e sostiene» il mondo, che ne assume, in una dimensione globale le sofferenze e le attese, un Dio a cui conviene, dunque, il nome di Dio della speranza.

Ma un nuovo, difficile inizio è richiesto oggi anche alla filosofia e probabilmente, più in generale, al nostro tempo. Perciò, anche, abbiamo bisogno di ascoltarci molto seriamente l’un l’altro, teologi e filosofi, credenti e non credenti.

Ugo Perone