FILOSOFIA E TEOLOGIA
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Paura

 

Che la nostra sia l’epoca della paura può apparire una banalità. Tanto più adesso che questa paura è diventata oggetto di discorsi ricorrenti. Come se parlarne incessantemente fosse un modo per esorcizzarla.

Così anche l’attenzione che come Rivista abbiamo scelto di rivolgere al tema deve fare i conti con questo doppio movimento: da un lato, una sorta di fissazione collettiva nei confronti della paura e, d’altro lato, una ridondanza di riflessioni che appaiono come quegli infiniti discorsi inutili tipici di chi non ha ancora del tutto elaborato un trauma.

Credo che uno dei contributi più salutari che la filosofia e la teologia possono dare sia quello di sciogliere questo rapporto tra esperienza collettiva della paura e desiderio ossessivo di sapere qualcosa di più su di essa, evitando una delle tentazioni più grandi, che è quella del punto di vista del ‘tempo assoluto’. Credere cioè che lo spirito di questo tempo appartenga soltanto ad esso. Ciò accade in modo particolarmente drammatico quando il tempo in cui siamo non mostra vie di fuga, s’impone per il suo eccesso di disperazione.

Ora, non vi è dubbio che lo Zeitgeist contemporaneo sembra essere dominato da una morbosa ‘ridondanza’ della paura, in tutte le sue forme: la paura vissuta, la paura immaginata e quella anticipata, la paura inventata e quella pensata e collocata al centro delle nostre strutture sociali, politiche ed economiche.

Cosa può aggiungere l’attenzione della nostra Rivista a questa valanga di paura che ci travolge? Il senso che può aiutare il lettore a orientarsi all’interno di queste pagine si può dipanare secondo tre traiettorie prevalenti: una relativizzazione della paura, una contestualizzazione della paura, un’euristica della paura.

Relativizzare la paura non vuol dire affatto sottovalutarla. Anche perché, come osserva Salmann, «non sfuggiamo mai alla paura; ed è parte del tragico abisso e incoerenza della vita che anche la cura per la paura possa ravvivarla e aumentarla». La sfida raccolta dai saggi pubblicati qui di seguito è piuttosto d’ordine metodologico. Sono tempi in cui la complessità dei fenomeni sociali sembra irretita dalle semplificazioni disciplinari. Tempi in cui l’economia e la sociologia hanno la pretesa di sostituire la profondità metodologica della filosofia e della teologia. Viceversa, il tentativo presentato in queste pagine è di ricondurre la paura come fenomeno sociale al suo radicamento antropologico e teologico. Del resto, leggendo i contributi si noterà come, anche se la paura come fenomeno sociale ha una sua specificità recente (che la rende un frutto perverso della modernità, altra tesi trasversale di questi saggi), essa è un referente innato delle riflessioni filosofiche e teologiche. I lettori non mancheranno di trovare gli snodi principali attraverso cui si è svolta questa storia filosofica della paura: dai riferimenti all’età antica, attraversando quel breve periodo che – soprattutto con Hobbes e Spinoza – ha fondato una genealogia della politica fondata sulle passioni in generale (e sulla paura in particolare), fino alla celebre distinzione concettuale tra Furcht e Angst operata da Heidegger. Insomma, l’esercizio di relativizzazione viene facile per la filosofia, dal momento che dinanzi al fenomeno sociale della paura essa non si fa trovare impreparata ma, per certi versi, anche troppo preparata.

Anche il versante teologico, da questo punto di vista, contribuisce eloquentemente a riconoscere la paura come esperienza immanente all’umanità universale. Mi preme sottolineare in modo particolare soprattutto un aspetto di questa eloquenza teologica che emerge nelle pagine che seguono: già i principali miti biblici fondativi si possono interpretare come narrazioni ed elaborazioni dell’esperienza umana della paura e della Verunsicherung dell’esistenza umana. Fare i conti con l’esperienza della paura è dunque un compito con cui si confronta già la sapienza più antica.

Se dovessi indicare brevemente a cosa conducano questi esercizi di relativizzazione sarei in difficoltà. Mi pare infatti che emergano due conclusioni possibili, entrambe del tutto legittime. La prima, più radicale, sosterrebbe che ricondurre la paura al suo fondamento antropologico vuol dire depoliticizzarla. Ora, non sempre depoliticizzare significa di per sé ricondurre al fondamento antropologico. Il rapporto problematico tra tecnica e democrazia è l’esempio di una depoliticizzazione in atto che è molto più un inaridimento dell’umano che una sua rivalorizzazione. Dunque questa prima conclusione va interpretata in senso restrittivo: semplicemente come l’indicazione del fatto che sia stata proprio l’egemonia moderna della politica ad averci fatto perdere di vista la complessità antropologica della paura.

Seguendo invece una seconda conclusione possibile di questa relativizzazione, dovremmo riconoscere che la condizione di strutturale ambivalenza ontologica dell’esistenza umana apra non tanto a un ridimensionamento della funzione moderna assegnata alla politica, quanto all’urgenza del compito di antropologizzare la politica, riconducendola alla sua storia degli affetti (si legga in modo particolare il bel saggio di Cesarone). La relativizzazione della paura fornirebbe così il pretesto per riattivare la profondità filosofica come rigenerativa della politica, spingendola oltre la crisi attuale.

In entrambi i casi è evidente come la paura vada contestualizzata e, altresì, come il suo contesto attuale sia l’intreccio tra la società e il potere, ciò che noi definiamo politica. Ora, questa tesi che sembra essere condivisa da tutti i nostri autori non è tutto sommato così scontata. La sua prima conseguenza è infatti quella di eludere il rischio che ricondurre il discorso filosofico sulla paura alla sua autentica profondità filosofica voglia dire farne un ‘esistenziale’ astrattamente predicabile per ogni esistenza umana e, in questo modo, contrapporre una ‘vera’ paura esistenziale e individuale a una ‘falsa’ (o costruita) paura sociale e intersoggettiva.

Ciò che emerge da tutte le riflessioni presentate è piuttosto il contrario. Da un lato la profondità antropologica della paura (anche nella prospettiva biblica magnificamente descritta nel testo di Salmann) non la rende «uno stato d’animo esclusivamente individuale» (come sintetizza esemplarmente Boschini), ma la contestualizza all’interno di una socialità originaria e trascendentale. D’altro lato la paura come ‘fatto sociale totale’ dei nostri tempi sembra essere scatenata dall’indebolimento e dalla precarizzazione dei legami sociali veri e propri e della capacità di immaginare forme rinnovate d’istituzioni sostenibili (come ci ricorda per esempio Tomelleri). Insomma, quello che si presenta come collante della società è in realtà l’indizio più evidente del suo sfaldamento. La paura non sta ‘risocializzando’ ma sta piuttosto istituzionalizzando – anche attraverso la neutralizzazione delle forme acquisite della democrazia – l’obiettivo neoliberista della ‘desocializzazione’. In questo senso non possiamo propriamente riferirci a una ‘società della paura’, quanto piuttosto a una ‘società slegata’ dall’avvento sociale della paura.

Gli effetti degli esercizi di contestualizzazione non si limitano però alla teorizzazione di questa natura irriducibilmente sociale della paura. L’altra cifra ricorrente in queste pagine è il riconoscimento che l’esperienza contemporanea della paura ci mette dinanzi a un confronto genealogico con il moderno e i suoi esiti ultimi. Come se la paura rappresentasse l’inconscio politico della modernità e la prepotenza attuale delle sue manifestazioni non fosse che un suo traumatico burnout. La paura porterebbe dunque alla luce l’inconscio del moderno, permettendo – ancorché in forma drammatica – di capire qualcosa di più sulle sue leggi e sul suo progetto genealogico. Essa non va dunque tematizzata semplicemente come il sentimento della fine del moderno, quanto innanzitutto come il sentimento del suo inizio.

La stessa invenzione della democrazia non è che il modo moderno per anestetizzare la paura (come propone magistralmente Perone). Invenzione ben riuscita, tutto sommato. Perché non possiamo negare che ‘la paura della paura’ abbia per decenni prodotto la sua (relativa) messa a distanza dall’orizzonte della storia, grazie essenzialmente ai meccanismi di autolimitazione del potere. Si potrebbe dire che l’invenzione moderna della democrazia ha, per la prima volta, cercato di uscire da un impulso infantile che lega troppo strettamente l’esperienza del potere con la soggezione sentimentale propria della paura. Laddove cioè si manifesti il potere, non si può che avere paura.

Ecco, il moderno ha tentato di fare eccezione rispetto alla ripetitività di questa legge («col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili», è una citazione che si ritrova nel saggio di Doni), attraverso i sistemi di bilanciamento dei poteri oppure attraverso la performatività della parola all’interno del parlamentarismo. Tutto ciò che adesso sembra non reggere più all’urto del tempo. Se l’effetto dell’anestesia sta cessando, o ci inventiamo con urgenza altri anestetici oppure torneremo dentro quella scena iniziale dominata dalla paura e che tutti immaginiamo ancora attraverso la vivida fantasia dello stato naturale di Hobbes.

È per questo che collocare la paura all’inizio e non alla fine dell’età moderna permette anche di comprendere meglio l’eccezionalità di ciò che accade oggi. Il progetto politico moderno sembra essere passato dalla paura costituente dei suoi inizi alla paura destituente contemporanea. Mentre la prima era un modo per imbrigliare l’inquietudine delle passioni attraverso la solidità della razionalità (e di quella particolare razionalità che appartiene all’esercizio dell’interesse, secondo la celebre tesi che risale a Hirschmann e Dumont), quella di oggi sembra piuttosto avere un obiettivo opposto: sciogliere quella solidità razionale dentro un impulso che unifica l’azione politica con l’improvvisazione propria delle sue passioni. Che fa dunque della società non il luogo in cui la paura viene depotenziata, ma dove viene enfatizzata.

Appartiene a questa tendenza ultimativa anche un altro tema che attraversa buona parte delle pagine qui presentate: la trasformazione della paura in risentimento. In realtà non è così scontato che il risentimento sia una forma di derivazione patologica della paura. Se andiamo a leggere la voce a esso dedicata nel bel dizionario dedicato alle Passions sociales uscito recentemente in Francia (G. Origgi [ed.], Passions sociales, Puf, Paris 2019) il risentimento viene ricondotto ad altre passioni sociali: la rabbia, la disperazione, la frustrazione. Non la paura. Probabilmente perché la paura contiene in sé un’attitudine alla passività, mentre il risentimento è la passione di chi non ha più nulla da perdere, propriamente. E dunque di chi agisce proprio perché non ha paura. Insomma, il passaggio da una società della paura a una del risentimento non è né semplice né diretto. Credo che un altro dei meriti di questi saggi sia di aiutare a penetrare la complessità di questo passaggio che caratterizza la società contemporanea. Perché se tra paura e risentimento non c’è un nesso diretto, non vi è dubbio che una paura eccessiva finisca per produrre un senso d’impotenza profondo, il cui approdo inevitabile dal punto di vista sociale è proprio il risentimento (come sottolinea diffusamente Tomelleri). Ancor più chiaramente: se la modernità ha usato la paura proattivamente, inventando la politica, l’inibizione attuale – prodotta dalla paura ‒ dell’azione politica come fonte di cambiamento sfocia nel risentimento. Paura e risentimento sarebbero dal punto di vista della modernità due tendenze paradigmatiche opposte: mentre la prima dà luogo a un infinito lavoro genealogico, il secondo si rivolge verso la fine. È la tesi che riannoda i fili dei discorsi e che si può trovare tematizzata nel saggio di Perone.

Tesi che serve a chiarire ulteriormente come l’ossessione contemporanea della paura sia fondata su un vero e proprio lavoro filosofico presupposto. Lavoro paradigmatico quanto minaccioso, perché mira probabilmente ad abbandonare la pretesa genealogica della politica moderna per approdare definitivamente a un nichilismo della fine.

Ciò che risulta evidente, a partire da questo esercizio di contestualizzazione, è che la paura connota un’epoca drammatica – molto più che tragica ‒ fatta di passaggi non ancora avvenuti, di mutamenti paradigmatici e di conflitti storico-concettuali la cui drammaturgia è ancora in divenire, non è giunta all’ultimo atto (la differenza tra un’ermeneutica tragica e una drammatica della paura è spiegata con chiarezza da Cesarone).

Sarà per questo che tutti i saggi qui presentati non rinunciano a prefigurare tendenze che dalla paura possano liberarci o almeno possano provare a contenerla (senza la pretesa di proporre ricette di guarigione. Bondolfi ad esempio ci ricorda che persino «la speranza cristiana non toglie qualsiasi ansia, ma ci dà la forza di conviverci»). Non vi è alcuna rassegnazione dinanzi alla paura, ma un solido compito filosofico che consiste nel tentativo di produrre un’euristica della paura, un nuovo patto concettuale e sociale in grado di interrompere il declino che la paura contemporanea sembra incarnare. La paura non è l’ultima parola della filosofia e della teologia. Riprendere la parola è dunque sperare per i disperati, trovare vie d’uscita paradigmatiche. Per fortuna ‒ a dimostrazione che la filosofia sa ancora immaginare il nuovo, anche quando si confronta con l’eccesso del presente sotto la forma della paura ‒ le proposte sono davvero innumerevoli: l’idea di abbandonare il primato del nesso tra paura e speranza per tornare a quello tra paura e desiderio (Tidona, Perone), la necessità della trasformazione del rapporto tra paura e religione (Salmann, Bondolfi), l’indicazione di processi di autorelativizzazione della paura (Boschini), la diffidenza da esercitare nei confronti della potenza, che è la promessa di distruzione su cui si regge il sentimento collettivo della paura (Poggiali), la cura affinché si eviti il passaggio da un inevitabile andamento schizoide della paura a una sua degenerazione paranoica (Doni) nel momento in cui si riconosce l’origine perturbante della politica (Cesarone), il suggerimento di arginare la paura mettendo un freno all’insicurezza sociale e alla destrutturazione del Welfare (Tomelleri).

Per parte mia, voglio chiudere queste brevi note introduttive sottolineando tre tesi euristiche che mi appaiono decisive anche per tracciare il compito attuale della filosofia dinanzi alla sfida della paura.

Innanzitutto il riconoscimento che la paura sociale problematizza il principio di realtà e la sua percezione. Come suggerisce Tidona – assecondato da tanti guadagni delle neuroscienze – l’immagine di una cosa ci impaurisce quanto la cosa stessa. Così un mondo dominato dalla paura è un mondo che sostituisce la realtà con le immagini, i fantasmi, le prefigurazioni. Dobbiamo prendere atto che questo processo prolettico (e allucinatorio) è ciò che determina la maggior parte delle decisioni all’interno della scena pubblica. Ciò trasforma probabilmente il compito stesso della filosofia. Essa non deve tanto immaginare nuovi dispositivi sociali in grado di rafforzare il pragmatismo sospeso della politica, quanto piuttosto contribuire a una vera e propria terapia della politica, in grado di decolonizzarci da questo carattere allucinatorio che ha reso la paura una vera e propria psicosi sociale.

In secondo luogo bisogna insistere – come questi testi fanno benissimo – sull’evidenza antropologica per cui il rovescio positivo della patologia della paura è la vulnerabilità umana. In fondo un uomo che si scopre impaurito ha anche più possibilità di scoprirsi vulnerabile. La paura è la moneta falsa della vulnerabilità. ‘Sfruttare’ la paura per rimettere al centro dei nostri processi d’identificazione una cura comunitaria della nostra vulnerabilità è un altro compito che la filosofia può assumersi.

Infine, mi pare che la paura costringa la filosofia a ripensare il suo rapporto con le epoche storiche. La debolezza della modernità e delle sue genealogie va ormai a braccetto con l’evaporazione di ogni mitologia progressiva e del portato escatologico secolarizzato. Anche la filosofia si è dedicata troppo a rincorrere genealogie ed escatologie della modernità, nel timore di riconoscere al presente di essere l’unico tempo dato qui e ora. La paura suscitata dal disorientamento della modernità richiede probabilmente una rinnovata capacità di penetrare dentro «la forza ambigua del presente» (Perone) per riconoscere il suo dato ontologico irriducibilmente positivo. Imparare a non avere paura di ciò che è, senza eccesso di elaborazioni genealogiche o escatologiche. Ciò che è dato, per il semplice fatto di esserci, contiene in sé una forma di bene. Sostituire al disgusto del tempo presente – scena madre delle nostre paure – il gusto del presente che non si arrende e che c’è. E non contiene solo la minaccia dell’infelicità, ma anche la latenza sempre possibile dell’esistenza dataci in affidamento.

 


Sergio Labate