che avevo fatto? Debiti. O cosa rara e antiquaria! Debiti, dico, in tal quantità da superare il numero di tutti gli accoppiamenti possibili di tutte le consonanti con le vocali […]. Pensate voi se non son lieto, vedendomi tutte le mattine d’intorno questi creditori, così umili, servizievoli e abbondanti di riverenze? E quando osservo che, facendo all’uno viso più allegro e più bella cera che agli altri, il vagabondo già pensa di riavere il fatto suo per primo, stima d’essere il primo in data, e gli pare che il mio sorriso sia denaro contante? […] Ma non divien debitore chi vuole, e non basta volere per far creditori. E voi mi vorreste privare di questa felicità sublime? Voi mi venite a domandare quando sarò fuori dai debiti? Ma c’è di più: io mi consacro a San Babolino, il buono, se per tutta la vita non ho stimato sempre che i debiti siano qualcosa come una connessione e colleganza dei Cieli con la terra, il sostentamento unico dell’umano lignaggio, e cioè l’elemento senza il quale in brev’ora tutti gli uomini perirebbero; e che forse sono essi per avventura quella grande anima dell’universo la quale, secondo gli Accademici, vivifica tutte le cose.
Il travolgente spirito comico di Rabelais sa trasformare in caricatura surreale anche la più pesante delle condizioni: essendo affetto da una prodigalità rovinosa, Panurge, uno dei protagonisti di Gargantua e Pantagruele, è assediato da una muta di creditori e si lancia qui in un elogio cosmico dei debiti e dei prestiti. Sono questi a cementare i rapporti umani, sono i prestiti e i conseguenti debiti a tenere assieme tutto quanto, gli organismi come le parti del sistema solare. Nessun vivente eredita da se stesso e perciò ognuno è debitore, avendo necessariamente ricevuto. Ognuno peraltro è anche creditore, non tanto come destinatario di un’effettiva restituzione, ma in quanto gli altri hanno fiducia in lui come fonte di prestiti ed egli stesso dà credito ai suoi debitori, avendo fiducia di riporre ‘in buone mani’ i beni di cui si priva. Così come Venere non sarebbe «venerata», se non ci avesse prestato la passione per l’amore e la bellezza, e la Luna resterebbe «oscura e sanguinosa», se il Sole non fosse «obbligato» a prestarle la sua luce, altrettanto vale per il «piccolo mondo» degli uomini, che si regge e trova armonia nel mutuo soccorso tra creditori e debitori. Fulcro e collante del ‘contratto sociale’, che tiene lontano la ‘guerra di tutti contro tutti’, è l’interesse che lega debitore e creditore – in caso di rovescio a chi chiederebbe aiuto, altrimenti, il primo? E forse che non preme al creditore che viva a lungo il destinatario dei suoi prestiti? Così, quindi, prosegue Panurge:
Un mondo senza debiti? […] da questo mondo sarebbero sbandite Fede, Speranza, Carità: poiché gli uomini sono nati per aiutare e soccorrere gli uomini. E al loro posto succederanno Diffidenza, Disinteresse, Rancore, con la coorte di tutti i mali, di tutte le maledizioni, e di tutte le miserie. […] Gli uomini saranno lupi per gli uomini (Gargantua e Pantagruele, Libro III, capp. terzo e quarto).
Lo strepitoso ingegno di Rabelais riesce a trasfigurare, anziché nascondere o negare, le angustie della condizione debitoria. Si ride di gusto e insieme si respira l’amaro disincanto di chi riconosce nell’essere in debito non solo i ranghi serrati della coazione, ma anche il sovrapporsi di molteplici dimensioni e significati, nonché la pluralità di forme in cui il debito prende corpo. Trattasi di questione verso cui pure il filosofo e il teologo ‘sono in debito’ di pensiero - le virgolette sono di troppo -, necessitati dal fatto che, anche nell’urgenza storica attuale, l’immane debito pubblico economico, che assilla la Grecia e gli altri paesi deboli dell’area euro, ma pure le grandi potenze – in primo luogo gli U.S.A -, porta con sé molteplici rimandi, presupposti e implicazioni, insieme concreti e simbolici: politici, culturali, esistenziali e religiosi.
Essere-debitori significa essere legati da vincoli che non si è scelto né voluto e da cui si è pesantemente condizionati, vincoli che da un lato ci obbligano e sovrastano e che dall’altro, però, non esauriscono tutte le possibilità del nostro essere. Stati di dipendenza da poteri che decidono il perimetro del nostro destino, esperienze in cui quanto riceviamo ci costituisce in modo inaggirabile, legami, anche sociali, cui siamo convintamente sottomessi, relazioni affettive cui sentiamo e pensiamo di dover rispondere, situazioni di cui siamo necessitati a prenderci cura se non vogliamo restarne semplicemente prigionieri, compiti o impegni di cui non possiamo non farci carico, persino condizioni che ci tengono in scacco come ostaggi senza speranza. Essere-in-debito significa non essere padroni della propria vita.
La prima peculiarità del fenomeno ‘essere-in-debito’ è di resistere a ogni lettura monodimensionale. Chi tentasse di sostenere che un debito economico-finanziario è solo e soltanto un fatto di denaro dimenticherebbe le implicazioni sociali, morali, antropologiche e simboliche del debito. Chi, d’altro canto, enfatizzasse solo la chiave morale oppure il rapporto religioso con il trascendente, mutilerebbe la condizione debitoria delle sue concrete ricadute nella situatezza esistenziale, relazionale e intramondana in cui si muove il debitore.
Il secondo aspetto, non meno essenziale, è che, quando la condizione debitoria è autenticamente tale, da un lato essa è condizione inoltrepassabile, dall’altro, nondimeno, è abitata intrinsecamente dalla tensione verso un suo superamento, vuoi mirante a una liberazione, vuoi, comunque, a stare dentro i suoi vincoli in modo non inerte o rassegnato e fatalista. In altri termini, se il debito è vero debito, non si può smettere di essere-in-debito, soprattutto non è questione di libera scelta, ma ci si può scoprire nella possibilità di non rimanere schiacciati dalla necessità della condizione debitoria. Possibilità che i credenti sperano venire da Dio, possibilità di cui i non-credenti fanno esperienza scavando più a fondo nel proprio essere-nel-mondo, possibilità su cui chi è ostaggio della macchina social-economica del capitale sembra poter, troppo spesso, solo fantasticare.
Nell’Epistola ai Romani si legge: «noi siamo debitori non verso la carne, […] perché se vivete secondo la carne, morirete» (Rm 8, 12-13). Secondo l’esperienza cristiana di fede gli esseri umani sono debitori e Paolo, qui, è sicuro che i suoi lettori completeranno la frase: «ma debitori verso lo spirito», tuttavia quello che più gli preme è che la condizione debitoria degli uomini, in quanto peccatori, trasgressori, inadeguati rispetto ai comandamenti della Legge, non saturi l’esperienza di fede, non si imponga come unica dimensione del rapporto con Dio. Il cristiano paolino non è semplicemente un condannato, prigioniero delle misurazioni che ne rilevano le necessarie mancanze, disobbedienze, bassezze, al cospetto della Legge di Dio. Il cristiano è un liberato, investito da una grazia salvifica che non proviene dalla abituale logica secondo la quale si fa il computo dei suoi meriti e demeriti, delle opere virtuose e degli atti manchevoli di cui si è reso responsabile. Si legge: «Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo [Adamo] tutti morirono, molto di più (p???? µ?????) la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti» (Rm 5, 15). Qui il contrasto è tra salario e dono, ma non si tratta di una contrapposizione o di un’alternativa secca, posta su un medesimo livello. A Paolo preme evocare l’eccedenza della potenza misericordiosa di Dio che investe l’uomo, di doni vivificanti, proprio nella sua condizione penosa e mortifera di debitore-peccatore – di “doni”, quindi senza risultare da quest’ultima. Siamo tutti debitori rispetto alla Legge, come potremo mai ripagare questo debito? Con l’essere peccatori gli uomini hanno tolto qualcosa alla Legge e possono restituirlo solo al prezzo della propria vita, attraverso la sanzione più radicale, ossia con la morte? Paolo risponde: «molto di più»! Per il cristiano paolino l’esperienza di fede è aperta da Dio attraverso doni che sovrabbondano ed eccedono ogni logica del computo dei peccati. Si legge: «Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 6, 23). Paolo non intende separare o contrapporre Legge e Grazia, entrambe sono per lui divine. Anzi, «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5, 20), ossia, pur non venendone così misurata, la misericordia di Dio si staglia nella sua luminosa potenza avendo anche ben presente quanti debiti e peccati pesino sull’uomo rendendolo morto, e ciò nondimeno venga gratuitamente salvato. Parimenti, il sacrificio di Gesù Cristo non è semplicemente un pagamento, foss’anche il fio più sublime, per riscattare i peccati umani. La fede cristiana, secondo Paolo, consiste in una liberazione dalla condizione di morte ed è dono che sovrasta e precede ogni calcolo o scambio, ogni computo di prestiti o mancanze. Tuttavia, si noti bene, siffatta liberazione non cancella la condizione debitoria, né la logica giuridica, morale o economica da cui essa risulta. In altri termini, anche per Paolo si conferma come l’umana condizione debitoria sia costitutivamente un intreccio di molte forme e dimensioni, che il cristiano interpreta da par suo come un sentirsi salvato proprio in quanto peccatore.
In pagine forti quanto coraggiose, cui anche le osservazioni appena proposte sono debitrici, Paul Ricoeur, per esempio in Il conflitto delle interpretazioni, 1969 (in particolare qui Interpretazione del mito della pena e Colpa, etica e religione), ha ripreso questi passaggi paolini non solo per enfatizzare il carattere eminentemente tragico e sacrale della dimensione religiosa, irriducibile alla sua estensione giuridica e/o morale. Facendo dono di sé, infatti, Dio non sottosta allo schema razionale per cui si calcolano i mali commessi dall’uomo e il castigo proporzionale che ne deve seguire, ma ‘segue’ «una nuova logica», ‘assurda’, della «sovrabbondanza», che vince e sovrasta quella del conteggio dei debiti dell’uomo e di quanto ‘è dovuto’ indietro da quest’ultimo come risarcimento. Il punto notevole delle riflessioni ricoeuriane non sta solo nell’evocare una giustizia di Dio che è «giustizia vivente», anziché «giudiziaria» o «moralistica». Ricoeur scava nel passaggio di Paolo, «il salario del peccato è la morte», in modo da non restare «prigionieri delle parole» e liberarne una/la possibile sovrabbondanza di significato: la morte, per il cristiano, consiste proprio nel pensare, sentire, agire in termini di salario che possa ripagare il peccato. L’intento forte di Ricoeur, alimentato anche dal tratto protestante del suo cristianesimo, non è quindi solo di sottolineare come il rapporto con un Dio sorgente di doni vivificanti apra possibilità che non siano effetti risultanti da alcun conteggio o tribunale o contratto. Ricoeur è più radicale: dinanzi a Dio peccato mortale è proprio il restare chiusi o appiattiti su una logica della colpa come debito da misurare e da risarcire. Male, il male, consiste in ciò che allontana e separa l’essere umano da Dio. Ragionare solo in termini economici e di equivalenze giuridiche tra colpe e pene, tra mal tolto e debitamente restituito, è precisamente quanto divide l’uomo da Dio, in primo luogo perché nutre l’illusione umana di poter pagare il proprio debito e così, quindi, di poter tornare a essere «padrone della propria vita».
In Genealogia della morale (II, 4-5) Nietzsche aveva aggiunto considerazioni importanti. Lo si fraintenderebbe infatti se si ritenesse che, riconducendo la nozione morale di colpa al «rapporto contrattuale tra creditore e debitore», dove colpevole è chi ha danneggiato la comunità e dunque è condannato a pagare un debito conteggiabile attraverso equivalenze di pena, si fraintenderebbe Nietzsche, dicevo, se si credesse che egli stia qui riportando a univocità l’ambivalenza della parola tedesca «Schuld», la quale significa sia «colpa» che «debito», riducendo quindi una sovrastruttura morale a una struttura economica, ossia insinuando che il senso morale di colpa non è che una maschera dietro la quale si nasconde una realtà bassa quanto monodimensionale. Nietzsche, piuttosto, addita la «brutale rozzezza» di un intero modo di essere, morale, economico e religioso, il modo di essere di quegli umani che sono schiavi innanzitutto di una coazione temporale e così sono sia ostaggi della memoria del passato, incapaci, in quanto creditori, di dimenticare torti e danni subiti, sia succubi del futuro, specie da debitori, schiavi responsabili delle promesse fatte (Ivi, II, 1-3). Peraltro, nell’attaccare tale rozzezza, Nietzsche non fa che rinnovare una delle sue principali ‘obiezioni’ al ‘cattivo gusto’ degli uomini moderni, i quali, ammalati di semplicismo, misurano in prezzi tutte le cose (Ivi, II, 8-9), per cui tutto risulta quadrare, o non quadrare, con il massimo grado di organizzazione ed esplicitazione. In questo modo di interpretare la vita vi sono, allora, solo e soltanto debitori solventi oppure debitori insolventi, un modo la cui rozzezza sta nell’assenza di polisemia, di possibilità, di enigmaticità. Il punto forte, però, Nietzsche lo tocca quando parla di sofferenza: a suo avviso, non solo «il cristiano», ma anche l’uomo «di più antiche età» non riesce a sopportare «quanto nel soffrire è privo di senso (das Sinnlose des Leidens)» (Ivi, II, 7). Soffrire non ha un senso, uno scopo o un valore, ma una lunga tradizione lo sussume entro costrutti morali e/o estetici per poter presumere che ‘serva a questo o a quest’altro’. Ecco quindi uno dei vertici toccati da Nietzsche: l’uomo il cui essere è lontano da ogni magnanimità e generosità resta ostaggio della logica dello scambio e dei calcoli di colpe, debiti e crediti in quanto è uomo che a ogni cosa conferisce un significato strumentale: la sofferenza del debitore serve a ripagare, come ‘giusta pena’, il danno di cui è colpevole, mentre la sofferenza del creditore serve ad ascrivergli meriti a venire - così quest’ultimo potrà anche raccontare a se stesso: soffro molto, molto ho sofferto (rinunciato e penato), dunque ho pagato il mio debito, anzi, sono in credito nei confronti del destino.
Decidendo di dedicare un fascicolo alle questioni del debito, l’intento della Redazione nord-orientale di questa rivista era proprio di cimentarsi con il complicato intreccio che tiene assieme le forme religiose ed esistenziali della umana condizione debitoria con le sue forme economiche, sociali, addirittura domestiche. Peraltro, persino lo sforzo di distinguere tra debiti, per così dire, nobili e debiti indegni di tenerci prigionieri, sforzo che, in modo non solo comprensibile, ma anche necessario, attraversa pure alcuni dei contributi che seguono, diventa pregnante alla luce del carattere necessario, in senso storico e ontologico, della condizione debitoria, e degli intrecci e sovrapposizioni di cui essa è fatta. In altri termini, se da un lato resta vero che nessuna esistenza umana possa esaurirsi, per esempio, in mutui bancari, in insolvenze finanziarie e conseguenti pignoramenti o sequestri, non è men vero che la nostra situatezza quotidiana così è costituita e dunque anche la spinta a una liberazione o a un’apertura di altre possibilità non può che restare inscritta proprio nella necessità di questa situatezza polisemica e stratificata.
Dopo aver sottolineato come, nell’era capitalistica, l’unica parte di ricchezza nazionale che acceda a una condivisione collettiva sia proprio il debito pubblico, già Marx riconosceva come la pratica di prestare soldi allo Stato, ricevendone indietro obbligazioni, contribuisca a imporre tre effetti: propiziare la creazione della genia dei finanzieri, porre sotto il giogo del debito pubblico la maggioranza dei cittadini e suggellare la «bancocrazia moderna» (Il capitale, Libro I, cap. XXIV). Peraltro, l’indebitamento è la necessaria linfa vitale del sistema liberista e come si indebitano gli Stati, così fanno ‘le imprese individuali’. Il mercato capitalista vive, infatti, della decolpevolizzazione del debito, sia dal punto di vista dell’imprenditore che da quello del consumatore. La narrazione motrice racconta che verrà premiato soltanto l’imprenditore che abbia il coraggio di rischiare, indebitandosi per investire sulla possibile crescita della sua azienda. Analogamente, il consumatore scaltro è ‘imprenditore di se stesso’ ed è quello che sa aggirare i limiti attuali del proprio reddito: ‘compra ora e paga domani’, ‘diventa proprietario di un appartamento più spazioso, diluisci al futuro il tuo debito’. Apparentemente, così vuole il mito dominante, si tratta di libera scelta, da parte di chi comunque sa calcolare rischi e probabilità di riuscita, e tuttavia è una necessità che rivela il proprio tratto angusto e coatto non appena subentrano le insolvenze del debitore. Il sistema, allora, capovolge repentinamente il racconto decolpevolizzante nella sentenza più spietata: non solo hai perso la gara, ma devi anche vergognarti di averne disatteso le regole. Proprio la punizione scoperchia nel modo più concreto il mutuo compenetrarsi, di cui sopra, di fattori antropologici, mitici, simbolici, cultuali, morali e socio-economici. D’altronde, la strenua capacità del capitalismo di sopravvivere a crisi e rivoluzioni, viene dal fatto di essere sì realtà oggettiva, ma altrettanto oggettivamente intrisa di fattori soggettivi. Quanto l’oggettivismo moderno è incline a rubricare come un insieme piuttosto secondario di fattori soggettivi e psicologici, è invece parte costitutiva, essenziale, della realtà storica oggettiva. Il sistema del capitale sarebbe morto da un pezzo, se non fosse penetrato a fondo nell’immaginario dei suoi adepti, i quali desiderano, si appassionano, ripongono fiducia e lottano in forza di fattori dalla potente valenza simbolica e sociale. Ecco perché da un semplice mutamento di Weltanschauung non potrà mai venire una rivoluzione che demolisca il nostro «debito infinito» verso il capitale: persino i desideri che consideriamo come fantasmi individuali sono in effetti «iscrizioni corporee», produzioni e codificazioni frutto della «macchina sociale» del capitalismo (Deleuze e Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, capp. I, § 4; III, §§ 1 e 5). Hegelianamente, marxianamente, wittgensteinianamente e gadamerianamente emerge il carattere tremendamente oggettivo di tutto questo, trattasi di ‘spirito oggettivo’, di istituzione ‘politico-sociale’, di ‘realtà materiale’ storica, di ‘forma di vita’, di effettività del ‘mondo-della-vita’. Nessun soggetto riuscirà mai a prendere alle spalle ‘il proprio modo di pensare, immaginare e credere’, poiché questo è un modo di essere e può trasformarsi solo come parte integrante della realtà storica.
«Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non espia il peccato, ma piuttosto è culto colpevolizzante e indebitante (Der Kapitalismus ist vermutlich der erste Fall eines nicht entsühnenden, sondern verschuldenden Kultus)». In questo e altri celebri passaggi, tratti dal frammento giovanile che ha per titolo Capitalismo come religione, Walter Benjamin allude al fatto che vi è un che di religioso nel moderno modo di essere sottomessi al potere economico del capitale: al cospetto di quest’ultimo siamo tutti colpevoli-debitori, ma, anziché sperare in un’espiazione, ci adoperiamo con zelo convinto per il capitalismo, debitori che sperano e ‘credono’ proprio nel perpetuarsi astorico della condizione debitoria e quindi del potere che tiene loro in scacco.
Le illuminazioni benjaminiane hanno contribuito a riaccendere la riflessione mai interrottasi sulla connessione intrinseca tra teologia, in particolare cristiano-protestante, economia e politica. Agamben (Archeologia dell’opera, 2013) ha così da un lato sottolineato l’autoreferenzialità, a suo avviso priva di fondamento oggettivo, di quanto ha valore nelle società capitaliste, in primo luogo il Dio-denaro: «il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito, ossia nel denaro». Dall’altro si è spinto sino a rimarcare alcuni tratti teologici cristiani, in particolare Trinitari, della «religione capitalista».
Sono almeno due gli snodi decisivi in questo tipo di riflessioni. In primo luogo si insiste ancora sul fatto che «l’indebitamento universale», che opprime tutte le parti sociali, non sia effetto solo del potere economico e statuale, ma anche, in modo altrettanto intrinseco, di fattori teologici e religiosi (R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, 2013). In secondo luogo ci si sofferma sul fatto che il capitalismo perpetua se stesso come prassi autoreferenziale e autotelica anche in forza di adepti che in modo consenziente e autodisciplinato si sottomettono al giogo debitorio (E. Stimilli, Il debito del vivente, 2011; Debito e colpa, 2015). Come già suggerito da Weber (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo), sarebbe allora decisiva la disposizione cristiana all’ascetismo, inteso come disposizione ad agire e a impegnarsi senza essere mossi né da scopi utilitaristici o interessi personali, né dall’aspettativa di potersi così costruire da sé la propria condizione beata. In questa chiave di lettura, ‘l’imprenditore di sé’ si adopera liberamente, in forza di un ascetismo di ascendenza cristiana, per mantenere in vita l’automovimento fine a se stesso del capitalismo e quindi la propria condizione debitoria economico-finanziaria e sociale (Stimilli, opp. citt.). Debitori vittime della propria presunta sublimità e generosità, della umile oppure compiaciuta capacità di ergersi oltre la dimensione dello scambio utile, di darsi agli altri o di consegnarsi alla terra senza attendersi indietro una qualche acquisizione. Insomma, ciò che per Paolo prepara lo spazio della possibilità del rivelarsi della grazia divina e per Nietzsche costituisce il manifestarsi della grandezza e della potenza gioiosa del sovrauomo, è qui considerato come il suggello e anzi un fattore decisivo dell’oppressione prodotta dal capitalismo moderno. Sebbene indubbiamente preziose e degne di attenzione, queste chiavi di lettura rischiano, però, di dimenticare che la realtà storica e naturale della vita è potenza che nemmeno il potere economico può mai prendere alle spalle e che anche la forza del capitalismo è derivata o, meglio, è così sovrana perché incanala da par suo, oggettivamente e intrinsecamente, energie e simboli primari verso cui essa stessa è in debito. Forse, allora, la via da seguire non consiste nel pretendere di ‘dire di no’ alla condizione debitoria, bensì nel coltivare in essa l’apertura di possibilità, custode dell’enigmaticità della vita, contro ogni deriva tardo-moderna, favorita da capitalismo e tecnologia, verso il semplicismo, il monopolio semantico, l’esplicitazione univoca.
I contributi che seguono, per presentare i quali si rimanda agli abstract, sono differenti tra loro, tuttavia, con l’eccezione del saggio di Galanti Grollo, che riflette sul senso fenomenologico dell’essere in debito verso quanto si dà nell’esperienza percettiva, si cimentano tutti con la questione del debito economico-finanziario. L’intento prevalente è quello di rendere giustizia al complicato e polisemico intreccio di forme religiose, sociali ed esistenziali che costituisce l’umana condizione debitoria, intreccio che con la sua eterogeneità custodisce anche quelle possibilità che impediscono al debito di risolversi in un che di mortifero, intreccio la cui effettività impone l’esperienza più decisiva: essere-in-debito non si oppone a non-essere-in-debito, e comunque venga sperata o immaginata la liberazione essa non consiste nel tornare a essere padroni della propria vita.