«Il «viaggio
anateistico» è «un ritorno al Dio della vita dopo la morte di Dio
(dissoluzione di un falso divino). Tuttavia, se si tratta
effettivamente di un viaggio di ritorno, esso allora non ha una fine:
una via del pellegrino, una strada piena di curve e deviazioni, che
deve essere presa più e più volte» (R. Kearney)
L’eco delle suggestioni offerte dal volume di
Kearney Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, è chiaramente
rinvenibile nei contributi che danno indirizzo a questo numero della
rivista, i quali, va specificato, non hanno come principale oggetto la
prospettiva dello studioso irlandese. Intendono piuttosto lasciarsi
sollecitare da essa per affondare lo sguardo, con varietà di percorsi,
sulla questione determinante in ordine alla quale «ana-teismo» si
rivela «termine nuovo» per «qualcosa di molto antico» (Kearney) che
oggi investe, con inedita forza, l’«epoca in cui l’umanità è connessa a
Dio tramite il suo silenzio e la sua assenza» (Bonhoeffer). La
questione di cui si tratta ci è parso opportuno raccoglierla dentro la
cifra del «Dio sospeso». Riguarda infatti l’intrigo di smarrimenti e di
attese, di dure riserve e di risorgenti aperture di credito che
caratterizza, nel tempo attuale, le chances di un riconfigurato
rapporto con Dio, capace di attraversare l’impressionante processo di
‘spoliazione’ da cui sono state spazzate via tante manomissioni
idolatriche del divino. Nel nostro clima spirituale, misurarsi con il
Dio possibile vuol dire, per il pensiero e per la fede, affrontare un
compito interpretativo mai così oscillante tra disorientamento e
speranze di ri-orientamento. Non a caso Kearney, ricorrendo al
linguaggio tradizionale della mistica, parla di una «notte oscura
dell’anima» che pervade di tensione drammatica la temperie culturale
postmoderna. Nella prospettiva anateista, che viene illustrata
sinteticamente dall’autore nel saggio con cui partecipa a questo
numero, l’espressione «ana» allude a un «ancora» e un «dopo» - quindi
profila possibilità di ripresa della relazione con Dio - ma include
pure (nell’incalzante successione dell’an e dell’a) il
duplice smarcarsi dalle roccaforti del «teismo dogmatico» e
dell’«ateismo militante». Va dismessa una rappresentazione del divino
funzionale all’ansia di certezze, che domina sia le affermazione
oggettivanti sia le liquidazioni sommarie della presenza di Dio.
Discostandosi da tali posizioni, l’ana-teismo assume come suo
tratto essenziale una certa sospensione del giudizio che
permetterebbe di ricollocarsi in una «libera apertura» precedente la
scelta tra teismo e ateismo. E favorirebbe, così, lo scambio fra questi
due orientamenti attraverso un processo di crescita che trasforma
entrambi. Per un verso entra in salutare crisi un modo servile e/o
arrogante di celebrare il Dio del potere sovrano, del trionfalismo,
della teodicea (l’«omni-God») che in verità da sempre rappresenta il
referente di un bisogno di sicurezza portato all’estremo. A tal fine si
rivelano essenziali gli aspetti liberanti del negare a-teo nella misura
in cui esso, restituendo al rapporto con Dio uno sfondo di
problematicità, può offrire tutela sia ai tratti insondabili del
divino, sia alla «sacra insicurezza», all’esitazione che deve
caratterizzare l’accostarsi all’eventualità di Dio. Nello stesso
tempo, la salutare crisi deve riguardare anche ogni secolarismo che per
principio attribuisce al cammino umano una sistematica autosufficienza.
Kearney, la cui formazione è maturata alla scuola di Ricoeur, Levinas,
Derrida, invita l’ateismo a lasciare campo, senza restrizioni
preconcette, a quella profonda intuizione che anima oggi le laiche
peripezie del pensiero: l’avvertimento di una «ospitalità radicale» che
contrassegna l’origine e la vocazione dell’umana ricerca, attestando il
suo protendersi a partire da e verso l’incalcolabile. Indagando le
ragioni indisponibili che presiedono all’intesa comunicativa, le trame
del dono che strutturano il co-esistere, l’inquietudine della
responsabilità dinanzi all’irruzione della differenza, l’impresa
filosofica sperimenta di dover tenere insieme due istanze: prestare
instancabile ascolto alla voce dell’Altro, dalle multiformi versioni
(alterità della natura, del volto umano, del mistero da cui tutto
dipende); custodire la dignità ermeneutica dell’esistenza, impegnata a
interrogare ogni cosa e a rischiare in libertà le sue scelte. In questo
clima, l’anateismo chiede al teista e all’ateo un rapporto di
vicendevole attenzione e di «reciproco apprendimento», non contaminato
da patologie fondamentaliste. Non si tratta di istituire una nuova
religione: Kearney non si schiera per l’abbandono della tradizione e
neanche per un superficiale nuovismo. Cerca di valorizzare in modo
appassionato ed ecumenico il gioco di rinvio tra secolare e sacro che
si staglia nei diversi ambiti vitali e traluce in tante forme di
espressione simbolica - riflessive, meditative, artistiche – al
crocevia di sconfinate relazioni interculturali e interreligiose.
I saggi qui raccolti intorno al «Dio sospeso»
mentre si distendono ad ampio raggio, esaminano anche, in maniera
diretta o indiretta, aspetti centrali della proposta anateista. Va
detto anzitutto che si è voluto lasciare indeterminato il nesso tra Dio
e la dinamica sospensiva. Seguendo una chiave di lettura più consueta,
«Dio» risulterebbe l’«oggetto» del tenere in sospeso esercitato da una
ragion critica che sfoggia il diritto-dovere di esaminare quali
figurazioni del divino vanno ormai abbandonate e quali invece possiamo
re-immaginare capaci di coinvolgerci con rinnovata incisività. Ma,
rovesciando questo scenario, un rilievo trainante potrebbe spettare a
un’altra idea, per la quale sarebbe Dio, in prima istanza, l’attore
della sospensione. Sarebbe Dio, cioè, a tenersi primariamente in
sospeso, secondo una iniziatività che, donando in ogni dono
anche il suo sottrarsi, per un verso regala spazio ermeneutico al pondering
umano – in certo modo affidando e relativizzando il suo evento
all’umana finitezza - e intanto mantiene appesa questa stessa finitezza
a una misura spiazzante.
Perché risulti più chiaro come i diversi saggi
sviluppano in maniera polifonica l’unitario aggancio al tema comune, è
forse utile indicare cinque varianti semantiche, tra loro
inevitabilmente intrecciate, che presenta il movimento sospensivo di
cui si fa argomento: A) sospendere come lasciar conservata
nelle sue potenzialità una realtà a cui non si intende affatto
rinunciare; B) sospendere come smontare qualcosa a cui non è più il
caso di restare legati; C) sospendere come prendere distanza da
un potere impositivo che impedisce l’esercizio del libero interrogare e
aderire; D) sospender(si) come ricusare tentazioni possessive
ma anche, in chiave di generosa gratuità, come dare spazio all’altro
curando nella discrezione il rapporto con esso; E) trovarsi sospesi
come esser presi da responsabile esitazione dinanzi ad alternative
cruciali
È evidente come nel caso dell’anateismo
tenersi sulla linea di (A), ovvero rispettare la possibilità antica,
che sempre torna a offrirsi, di un’alleanza tra il Dio degno di questo
nome e l’umana passione di senso, renda necessario abbandonare (B) ogni
presunzione di ridurre al piano della disponibilità una provocazione
che, mentre attende di essere meglio interpretata, avrebbe in sé la
forza di chiamare in causa la buona volontà (ragionevolmente
confortata) di esporsi al non padroneggiabile. Solo questa
buona volontà può favorire circuiti di comunicazione rischiosi e
fecondi, non meramente rituali, tra fede e ragione, tra credere e non
credere, nonché tra diverse prospettive di fede religiosa. È in opera,
qui, quel sospendere (prima voce in D) che deve condurre ogni presa di
posizione a rivedere se stessa, lottando contro le tentazioni di
unilateralità e di arroccamento che internamente la insidiano. Il «Dio
sospeso» può allora coincidere (seconda voce in D) con un appello
proveniente non si sa da dove, a cui nessuno resta in fondo
indifferente e che nessuno è autorizzato a inquadrare in base a
esclusive o comunque privilegiate certezze.
I temi ora abbozzati sono largamente intercettati
nei saggi che seguono. Russino, dopo aver messo in evidenza i motivi
per i quali è accaduto e accade che «ognuno risulti sempre ateo
rispetto al Dio di qualcun altro», dà rilievo cruciale all’esigenza di
ripensare in chiave laica il riferimento al «Dio ignoto». Tornare al
«Dio ignoto» significa esser capaci di abitare uno spazio dialogico
dove lo stesso ateismo può rivelarsi dono prezioso per le religioni,
aiutando a ricordare che Dio resta incatturabile, e dove, in pari
tempo, si mantiene viva l’attenzione del pensare ad un’alterità
irriducibile che sfida di continuo le nostre idee. Nel contributo di
Caldarone la proposta anateista viene collegata alla necessità
di superare le pieghe falsanti che ha spesso assunto la tradizionale
disputa tra fede e ragione. Concentrando l’attenzione su alcuni testi
di Marion, si evidenzia quanto sia consono alle più significative
aperture della ragione il rapporto vitale con «ciò che essa non governa
ma da cui è governata». Un rapporto ricco di affidamento che le
consente di dispiegare al massimo il suo compito di fedeltà alla
«donazione incondizionata dei fenomeni», là dove si offrono dimensioni
rivelative la cui eccedenza intuitiva trasgredisce ogni orizzonte
controllato dall’io. In questa luce va ripensata la dinamica del
«credere per vedere» e la relazione con l’Infinito. Il contributo di
Lupo, a sua volta, traccia un serrato confronto fra la sospensione
anateista dell’ «omni-God» e quel trovarsi alle prese con una potenza
enigmatica e ambigua che caratterizza l’originaria esperienza del
sacro, come ha mostrato la filosofia della religione novecentesca.
Sulla scia, in parte, di quest’ultima, una odierna «teologia debole»
cerca di tutelare il darsi immanente della trascendenza senza fare
ricorso a fondazioni onto-teologiche o all’impianto di una
fenomenologia coscienzialista. Il «Dio straniero», infatti, non si
annuncia sottoponendosi a garanzie, bensì toccando in maniera radicale
la ‘carnalità’ del sentire emotivo. Su questa base può avviarsi la
tensione ermeneutica che, mobilitando ‘immaginazione’ e ‘fiducia’,
porta il soggetto al drammatico appuntamento tra la sua libertà e ciò
che appare dapprima come intrusione indecifrabile ma può diventare
termine di un riconoscimento ospitale, come accade per «uno straniero
divenuto amico». Lo stile di un credere che rinuncia a confortanti
sicurezze per volgere cuore e mente a ciò che resta inafferrabile, è
riscoperto, poi, da Naro dentro le tessiture dell’opera teatrale di
Diego Fabbri. In sintonia con l’invito di Kearney a interpretare
«sacramentalmente» la testimonianza resa dalle creazioni
artistico-letterarie, viene svolto «una sorta di esperimento
‘anateistico’» che mira, dal punto di vista di un’ermeneutica
teologica, a rintracciare nella scrittura del drammaturgo forlivese il
«lessico di una ‘apologia’ nuova, capace di parlare ancora di Dio
all’uomo di oggi, anche se in termini inediti, inusuali per la
tradizione cristiana e, in particolare, per quella cattolica, non più
somigliante a un’arringa contro il mondo».
È importante notare come nei percorsi accennati
sia il sospendere logiche possessive (B) sia il trovarsi sospesi
sperimentando esitazione (E), comportino un continuo riaccendersi di
slanci affettivo-razionali e di attese che rimangono correlati ad una
fonte di coinvolgimento di cui si custodisce l’inesauribile, sospeso
(A), potere di avvento. L’idea di un «ateismo metodologico» capace di
diventare via privilegiata di «speranza» per il «contatto tra fede e
ragione discorsiva» (Russino), l’accento posto sulle «certezze
negative» (Caldarone riprendendo Marion) mediante cui la ragione
attinge l’inoggettivabile sperimentando un «vuoto» che «va salvato per
ridare fiato al credere», il congedo dal «dio della sovrana potenza»
(Lupo), sono tutte indicazioni che suffragano il ruolo essenziale di
una «capacità negativa che ci mantiene vigili» (Kearney). Ma tutto
questo rilancia una domanda cruciale: quali equilibri si configurano
allorché, superati i contrapposti dogmatismi, sembra determinarsi una
«tensione fertile» fra «teismo» e «ateismo»? Quale segreto presiede ad
essa? In altri termini: se la dimensione di attesa vissuta dalla
finitezza comporta un lasciarsi misurare dall’assenza, come si
armonizzano in ciò l’esperienza del «vuoto» e dell’ambiguo, la «notte
oscura dell’anima», con lo stare sulle tracce di un Dio che, grazie al
suo irriducibile potere di iniziativa, torna a offrire visite
salvifiche?
Secondo Kearney, con l’anateismo viene
guadagnato un «terzo spazio» nel quale verrebbe salvaguardata una
libera apertura che non solo precede la scelta tra teismo e ateismo, ma
l’accompagna e la eccede. Come intendere tale affermazione? Accettato
che sia il pensare sia il credere esigono il ripudio simultaneo di
teismo dogmatico e di ateismo militante, occorre chiedersi in cosa
differiscano un teismo anateista e un ateismo
anateista. Se questi due compagni di strada non differissero tra loro,
non si darebbe affatto l’esitante responsabilità di dover scegliere tra
essi (E). L’anateismo non sembrerebbe, dunque, avallare la loro mera
equivalenza. Si può dire, allora, che è un rinnovato sbilanciamento
teistico a costituire l’orientamento guida a cui reca solidale aiuto un
purificante ateismo? Oppure, affinché l’esitazione sospensiva conservi
il suo slancio di libera esposizione, senza rimanere
condizionata da alcun potere impositivo (C), è necessario che essa
tenga sotto riserva ogni sbilanciamento?
Nelle pagine di Kearney è evidente la
preoccupazione di rispettare, nei suoi risvolti più preziosi e meno
schematizzabili, l’aperta dinamica di scambi tra il pondering
ermeneutico e i richiami di un Dio non fissabile, continuamente
caratterizzato da allontanamenti e arrivi. La possibilità di «ritrovare
Dio dopo la morte di Dio» non si traduce mai in certezza da tenere in
pugno o nell’esito conseguito da un ineluttabile svolgimento
dialettico; dipende anche, poi, secondo un margine ineliminabile, dal
nostro impegno a discernere e decidere. Un «teismo senza ateismo», dice
Kearney, «sarebbe violazione della libertà umana» che ha bisogno
dell’«oscillazione rinvigorente tra dubbio e fede» per stare
responsabilmente «dinanzi alle richieste dell’estraneo». Nello stesso
tempo, però, se si tratta di «perdere come possesso ciò che è possibile
ritrovare come dono», se viene decisamente sollecitata la generosa
disposizione ad andare incontro allo straniero, ciò significa che ha
senso ogni volta scommettere sulla logica della gratuità per la
quale nel farsi avanti dell’estraneo è sempre in gioco una chiamata a
superarsi e ad accogliere, tentando di trasformare qualunque ostilità
in ospitalità. Per tali motivi sembrerebbe che nell’affrontare la
lezione dell’assenza accada già, anche per le vie più implicite, di
trovarsi inquietati-orientati da un fondamento affidabile. Sostenuti,
cioè, da una garanzia sui generis che merita di non essere affatto
confusa con tutte le garanzie funzionali a tranquillizzare l’esistenza,
agognate da chi cerca rassicurazioni e aborrite da chi ne coglie il
peso soffocante. Le certezze connesse al Dio della padronanza sovrana,
temuto servilmente, sfruttato ignobilmente, detestato
comprensibilmente, possono, così, lasciare campo alla riconoscibilità
di un altro potere da cui lasciarsi reggere? Occorre, insomma, capire
se a chi interroga il mistero è offerto un modo di sfuggire
all’alternativa tra inseguire comode garanzie e rifiutare ogni
possibile sostegno donato dal «Dio sospeso».
In sede di riflessione filosofica, Sesta commenta
alcune pagine di Jonas solitamente poco frequentate, che danno esempio
di una maniera argomentativa, cauta e acuta, di accostarsi al senso
della trascendenza pur restando «liberi dall’illusione di aver trovato
una prova». Ci si chiede, nello specifico, se i tentativi umani,
continuamente praticati, di ricostruire fedelmente il passato non si
appoggino in chiave ultima ad un vigore di «verità», indipendente e
normativo, degli eventi trascorsi che può trovare adeguata dimora solo
nella mente di Dio. Ancora una volta la ragione potrebbe attestare che
per restituire all’esperienza l’accordo con se stessa è necessario
ricondursi al di là dell’esperienza. Per quanto riguarda, invece, il
vissuto della fede, l’esegesi biblica svolta da Bellia mette a fuoco,
nei libri sapienziali, quella «sapienza della crisi» che la
fede di Israele ha dovuto sostenere quando, nel periodo postesilico, è
emersa la «diffrazione penosa e avvincente tra l’essere di Dio e il suo
nascondersi nel mondo e nella storia». Dove un «dirompente processo di
desacralizzazione» ha visto franare gli schemi della teodicea, è potuto
fiorire un nuovo rapporto con il Dio che si sottrae ad ogni cattura
idolatrica. Una fede capace di porsi come «radice di ogni vera
inquietudine», ha riguadagnato vicinanza al Dio velato, la cui
affidabilità, imprevedibile quanto ai modi del suo manifestarsi, non
viene mai messa in dubbio dalla sofferta meditazione del sapiente. In
assonanza con gli interrogativi prima espressi, il contributo di Samonà
esplora l’estrema tensione contenuta nel particolarissimo rapporto
sospensivo con Dio - Dio della fede e Dio del pensare – che ha
accompagnato il cammino di ricerca heideggeriano. Un cammino rimasto
segnato, nelle sue più profonde ispirazioni, dal confronto con la
genuina attitudine della fede cristiana a sostenere la più sconvolgente
insecuritas, e che però ha affermato un
suo necessario
compito di ateismo. Ma proprio portando avanti l’attacco contro
l’impianto ontoteologico della metafisica e rivendicando al pensiero
una audacia interrogativa impareggiabile, Heidegger ha battuto sentieri
lungo i quali si dischiudeva la possibilità, stando senza Dio, di nuova
attenzione a Dio. Così, il suo procedere ha sfidato tante volte la
fede, altre volte l’ha invitata a rimanere ‘follia’ non compromessa da
stampelle metafisiche, ma ha finito sempre per sperimentare nei
confronti di essa una mai rinnegabile affinità e il segreto dolore del
distacco.
Riprendendo le coordinate della tematica
comune, si può forse dire che nel relazionarsi pensante e credente al
«Dio sospeso» viene a stagliarsi, in forme diverse ma paragonabili, una
complessa partita tra attitudine riconoscente e attitudine
sospensiva. Quando Kearney allude alla «libertà di credere che
precede la scelta tra ateismo e teismo e l’accompagna» vuole certo
mantenere viva una scommessa continua da dover giocare tra teismo e
ateismo. Ora, tale scommessa è qualificata da una «originaria
disposizione di apertura all’altro radicale». Ma è possibile ciò senza
che già l’inquietudine per il bene non sbilanci l’impegno esistenziale,
orientando la «libertà di credere»? A guidare discretamente questo
rischio ermeneutico non c’è un sempre familiare, sempre sorprendente
invito del bene che «mi ha scelto prima di ogni mia decisione»
(Levinas)? Se è così, in questo concretissimo essere ispirati da un
appello nel fondo più segreto della libertà, sembra rintracciabile quel
nucleo essenziale del principio teistico che fa scattare, per via
eminentiae, una differenza: mentre l’inclinazione teistica può e
deve purificarsi passando attraverso un ateismo anateista, non
sembra valere il contrario.
Una simile lettura della questione corre certo
il pericolo di rimettere in campo l’ansia di conquistare certezze. Ma
sembra inevitabile il profilarsi di un’alternativa. O la sospensione
responsabilmente esitante (E) va riconoscendo di porsi come risposta
sempre rinnovata ad una provocazione orientatrice che le dà misura;
oppure si ritiene che il pondering ermeneutico trovi la sua più
adeguata misura proprio nel sospendere in quanto tale, ossia nel
continuo tenersi aperti a un gioco non predeterminabile di opportunità,
nel quale vale il criterio secondo cui «più in alto della realtà sta la
possibilità» (Heidegger).
Nella prima ipotesi il rimanere esitanti
dinanzi al quando e al come del tornare di Dio, resta correlato a una
sorgente primaria: l’abissale tenersi in sospeso di quel Dio che nel
suo velarsi sempre lascia tracce di una cura e di un appello da cui
l’avventura della finitezza può ritrovarsi sorretta. Il Dio sospeso
terrebbe in serbo quella piena conferma del suo dono alla quale
ci si può relazionare nell’affidamento e nella speranza, mentre già si
è conquistati da essa, in maniera determinante, proprio perché
coinvolti dalla logica incondizionata del bene. Qui, a smentita
dell’ateismo razionalistico e anche di quello ‘metodologico’, Dio non
si ridurrebbe a mera congettura esaminata da una ragione fiera della
sua autosufficienza, ma neanche a puro orizzonte dell’imponderabile. Il
Dio ignoto inviterebbe la ragione non solo a rinunciare a mire
totalizzanti ma a riconoscere che essa non ricava né da sé né da
semplici effetti di contingenza l’ispirazione che la muove a vivere
ricerca, attesa, slancio di apertura all’altro
Nella seconda ipotesi la attitudine sospensiva
sembra privilegiare la fedeltà al possibile rispetto a qualunque
vincolo nei confronti di un dono originario di senso, già fruito e
intravisto nella sua affidabilità, di cui si è chiamati a nutrirsi
inesauribilmente. Ora, questo sospensivismo è davvero
compatibile con il vissuto della fede
e, fatte le dovute distinzioni, riflette adeguatamente la maturazione
critica del pensare? Non è forse vero che il pensare e il credere, in
guise diverse ma non senza analogia, restano felicemente
vincolati-sospesi a incancellabili garanzie nascoste? A partire da un
tale vincolo, nello stesso orizzonte anateistico si è
calamitati da quel «di più» che attira tutti verso il «terreno
profondo», verso una «scaturigine silenziosa» inappropriabile. Per chi
crede, ciò implica praticare una «ospitalità chenotica» nei confronti
del Dio delle diverse tradizioni, del «Dio straniero», così da
sperimentare cosa significhi «perdere la fede per ritrovarla» ovvero
«ricevere nuovamente il proprio Dio, ma questa volta come un dono
dell’altro» (Kearney).
Nel sentire contemporaneo la percezione,
divenuta sempre più consapevole, del rapporto intrinseco tra finitezza
esistenziale e regno dell’indisponibile, si coniuga sovente con la
diffidenza riguardo all’idea che, al fondo dell’umano dipendere da
altro ed esser slanciati verso l’altro, si possa scorgere
l’impronta della eccedenza del bene. Come se il grato affidarsi
al potere inconfondibile del bene comportasse sempre un atteggiamento
meno aperto e puro di quello che accetta-valorizza il contingente, il
fallibile, il precario quali luoghi da abitare con autentica passione
etica senza ancorarsi ad alcun Principio e senza prenotare una salvezza
finale. Le concezioni sospensiviste intravedono nell’assenza il
grembo infondato e infondabile del positivo, dove la gratuità che
presiede all’esistere si lega all’imponderabile e all’enigmatico. Dove
l’indecidibile e l’ambiguo restano aspetti che avvolgono anche ogni
possibile richiamo del Dio velato, ogni sporgenza rivelativa del
divino. Come potrebbe avere spazio la coraggiosa apertura all’inatteso,
se si imponesse già l’evidenza che il Bene regge le sorti della nostra
vicenda? Ma alla serietà di questo dubbio si può replicare con un
interrogativo non meno incalzante: come si potrebbe sperimentare la
pregnanza etica dell’esposizione al non disponibile, senza esser già
coinvolti dalla strana forza di un appello capace di responsabilizzare
inequivocabilmente, chiamando alla cura dell’altro su un piano di
gratuità non dominato da determinismi naturali, né da volontà di
potenza soggettiva, né da nuda casualità? Il pensiero che rivendica per
principio la distanza da tutte le possibili garanzie sembra portarsi
dentro questa cruciale aporia.
La garanzia sui
generis del bene, a cui si accennava, potrebbe invece render
conto di come, nella dinamica del già e non ancora, il «Dio sospeso» è
amico inseparabile dell’umana finitezza. Perché nel già c'è la forza di un
sostegno-radicamento che da sempre custodisce, ma come dono che non si
lascia mai ridurre a una conquista posseduta e anzi invita, in maniera
discreta e implacabile, a disimparare logiche di possesso, a lasciarsi
educare dal non ancora, chiedendo al cammino umano impegno creativo e
spirito di attesa. Il non ancora,
a sua volta, non diventa mai lo spazio del puramente incerto esaltato
oggi da una sensibilità
finitista, che teme di cadere
tra le braccia di un ‘già’ opprimente, nemico delle avventure della
libertà, ma rischia di sposare una mistica dell'incertezza
paradossalmente votata al trionfo del ripetitivo e chiusa alle reali
sorprese del novum.
Si è visto come Kearney riprenda a suo modo la
critica irrinunciabile all’«omni-God», al dio del dispotismo padronale.
Ora, però, nella nostra temperie spirituale la critica del
fondamento che opprime non può più evitare di mettere a fuoco i
suoi motivi più pregnanti. Quando sospende l’«omni-God», la ragione sa
o dovrebbe sapere che si tratta di sospendere tentazioni possessive
che essa trova dentro di sé. Infatti il dio della potenza appare ormai
irricevibile non perché impedirebbe alla soggettività umana di
esplicare un suo conato di egemonia, ma perché corrisponde a un modello
violento di auto-affermazione di cui conosciamo perfettamente il volto
distruttivo dal quale si deve cercare affrancamento. Questo mostra che
il peso più soffocante non viene da una imposizione esterna bensì da
quella spinta a padroneggiare che genera sia lo sfruttare Dio come
utile baluardo di sicurezza, sia l’escluderlo a priori in quanto nemico
della umana libertà. A questo punto, per essere coerenti con il ripudio
di una logica che produce violenza, bisogna chiedersi se lo stesso
atteggiamento sospensivo non corra il pericolo di trasformarsi in gesto
di dominio. A quali condizioni il sospendere non è risucchiato dentro
una spirale aggressiva? Forse riconoscendo senza remore il suo debito
nei confronti di una provocazione a superarsi verso il bene che è del
tutto fuorviante asservire a impianti dogmatici e che però non è mai
stato possibile - e non lo è neppure per l’anateismo - tenere
sotto riserva.
Verso dove, dunque, ci porta la domanda sul
«Dio sospeso»? Ci induce a consacrare un’ambiguità insuperabile che
sovrasta lo scenario del senso, senza la quale la stessa sapienza ed
etica del gratuito, lo stesso rischioso esporsi a versanti di alterità
non avrebbe respiro? E sarebbe allora il caso di ammettere che la
misura più vincolante, epekeina perfino rispetto alla forza e
regia del bene, si dispiega nel tratto indecidibile del gioco delle
possibilità a cui la libertà è di volta in volta rimessa? Oppure «Dio
sospeso» continua a significare che vige una garanzia sui generis per
nulla accomodabile e per nulla opprimente, capace di ospitare il
dilatarsi sconfinato dello spazio di gioco e tutto il travaglio della
problematicità, ma donando già le tracce che consentono di attraversare
l’ambiguo senza rimanerne sottomessi?
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