Èfacile osservare come il tema del «timore di Dio» urti oggi innanzitutto contro vissuti di ordine morale e perfino religioso, prima ancora che se ne possano discutere sul piano concettuale o esegetico le risorse eventuali per uno scavo fruttuoso nelle relazioni fondamentali dell'uomo. Si può difendere ancora il timore di Dio come aspetto essenziale della relazione religiosa senza restare in un modo o nell'altro prigionieri di una concezione violenta e dispotica della relazione con il divino, incompatibile con il rispetto della dignità umana? Non sarà questa difesa il limite irriducibile dell'atteggiamento religioso, che resta prigioniero di uno stato insuperabile di minorità di fronte a una forma più radicale di laicità, capace di fare a meno di ogni dio, mentre il legame con qualsiasi dio finisce per avallare in un modo o nell'altro una qualche "risacralizzazione", per quanto travestita e "urbanizzata", della violenza? E di contro: non dovrà rinunciare per sempre a questa difesa chi voglia invece continuare a vivere una religione autentica e adulta, consapevole dei rischi dell'esistenza non più giustificabili da arcaiche teodicee del dio della giustizia, e tuttavia fiduciosa nella sovrabbondanza di bene che il dono della vita tiene in serbo per gli uomini? Un'uscita dal timore è del resto raccomandata dal richiamo a un dio misericordioso presente in molte religioni e in modo particolarmente esplicito in quelle del Libro. Continuare a dire di sì al timore di Dio potrebbe significare ostinarsi nell'initium peccati, perdendo di vista attraverso indebite generalizzazioni filosofiche e teologiche, come osserva Cavadi in uno dei saggi, l'«angolazione esistenziale» che sola ha potuto legittimare come inizio della sapienza (per esempio presso il popolo ebreo dell'Antico Testamento) il timore generato da una sorta di positiva responsabilizzazione all'amore e alla gratitudine nei confronti del proprio Dio, dal quale ci si crede beneficiati di innumerevoli doni. Timore in questo caso non di Dio, ma semmai dell'offesa che si può recare a Lui.
Prima però di arrivare all'eventuale disputa tra difesa e condanna del timore di Dio, i saggi raccolti nella parte monografica di questo numero della rivista tentano di riprendere i tratti determinanti di questo stato d'animo, sin dalle origini coltivato dalle religioni come un atteggiamento appropriato all'esperienza umana del divino. Perché temere Dio? Perché Dio è stato considerato il più temibile se non addirittura l'unica realtà che meriti davvero timore? Può quel «timore di Dio» che viene interpretato positivamente nelle diverse tradizioni religiose (anche se, nella maggior parte dei saggi che seguono, i testi di riferimento si restringono in realtà alla tradizione ebraico-cristiana) aiutare a disambiguare varie forme differenti di timore, per separarne nettamente la valutazione o al contrario per catturarne più efficacemente l'unità di fondo, così da renderla decisiva anche per la vita religiosa? In effetti, un tratto di fondo del timore, resistente a ogni tentativo di cancellazione, sembra restare in ogni sua figura la fuga (phygé, aversio) da una fonte di male. Ma nella relazione religiosa questa fuga porta all'estremo una dimensione antagonistica che finisce per logorare la relazione stessa. Nel suo ritrarsi, il timore resta infatti legato alla potenza che vuole allontanare da sé. Se un tale legame diventa religioso, allora esso lascia quale fondamentale «seme naturale» della religione la «devozione per ciò che gli uomini temono»: un rapporto che, anche quando guadagna la dimensione razionale, conserva per Hobbes i tratti di un'elaborazione strategica (e perciò, aggiungo io, mai liberata da una residuale ostilità) della stessa aversio, e consiste nel volgere a proprio vantaggio, sottomettendosi ad essa, quella strapotenza che, se non trattata amichevolmente, diventerebbe fonte di rovina.
Ma può il sotterraneo antagonismo di una tale devozione restare alla lunga compatibile con l'esperienza religiosa nel suo significato più autentico e positivo? La religione, in effetti, non fa che coltivare nel suo intimo l'invocazione di un legame alternativo a una tale devozione, non fa che confidare in una dilezione liberatrice da quel coinvolgimento conflittuale. Certo, ci si può chiedere fino a che punto questa promessa di liberazione possa essere effettivamente mantenuta da una forma storica e istituzionale di religione. Il tentativo, che la storia ci mostra fino a oggi vincente per esempio nella Chiesa cattolica, di salvaguardare il timor servilis, o almeno forme intermedie tra il timore puramente mondano e quello filiale, contro l'opposta tendenza a stabilire (sulla base di 1Gv 4, 17) una netta alternativa tra il timore servile e la carità cristiana, induce il saggio di Russino alla tesi secondo cui, almeno in relazione alla necessità di una mediazione gerarchica, il mantenimento del timore servile sia una componente essenziale dell'istituzionalizzazione storica di una dottrina religiosa.
Questo però di nuovo non dimostra ancora la sostanziale riconducibilità di tutte le forme del timore a quello servile, come del resto le stesse dispute riferite da Russino nel suo testo chiaramente testimoniano. Anzi, la questione del timore di Dio si accende intorno alla possibilità di concepire un timore privo di ogni connotazione servile, e come tale non ricompreso nella contrapposizione lucreziana tra religio e ratio: la prima principio di un timore che opprime e dunque di male, la seconda in grado di diradare, cura semota metuque, le tenebre della vita, restituendo alla natura una luce piena, senza l'ombra terrificante del nulla introdotta dalle spiegazioni religiose dei fenomeni naturali e senza l'inquietante commistione della vita atarassica degli dèi con il mondo mutevole degli uomini. Del resto, la rimozione perfetta di affanno e timore annunciata da Lucrezio non appare in ultima analisi compatibile con la condizione umana e forse nemmeno con la ratio, una volta che la filosofia si avventuri con più rigore nell'ardua questione della negatività. Osservazione, questa, che non costringe per contro nemmeno ad abbracciare l'acuta e cruda ripresa hobbesiana della religio quale legame prezioso in quanto in esso, anche quando fossero del tutto superate le ansie di ogni uomo per la propria sorte mondana, il timore resterebbe comunque parte essenziale della «politica umana» e perfino di quella «divina», entrambe impegnate a ricavare ordine e obbedienza dalla facoltà, tutta umana, di riconoscere una potenza capace di dominio incondizionato.
Rispetto a queste due posizioni assume in effetti rilevanza, nelle dottrine religiose, l'idea di una profonda trasformazione del timore quando viene a contatto con la sfera del divino. Lo mostrano il saggio di Lupo, che parte da Agostino per fermarsi sulla inconfondibile specificità del timor castus, che «non ha paura, non si allontana dalla fonte del timore», e quello di Palumbo che, sulla base delle domande aperte dall'insistente ricerca tommasiana di un timore precipuo nei confronti di Dio come sommo Bene, arriva alla tesi di un timore che non descrive più la fuga dal male ma il «vertiginoso spiazzamento» proveniente dall'«autorevolezza del bene» e dal suo «dono-appello che chiede al nostro esserci di lasciarsi arricchire lasciandosi decentrare». Questo timore diventa per un verso il timore di perdere Dio — timore che però, come fa notare Cavadi, andrebbe esplicato, nella sua forma religiosa più autentica e degna di resistere anche dopo l'abbandono del «timore di Dio», come timore per Dio in quanto considerato in certo modo vulnerabile, esposto alle offese umane; oppure, come mostra la vivida analisi della relazione d'amore fatta da Lupo, andrebbe portato fino alla reciprocità concependo arditamente un timore amoroso anche da parte di Dio: il timore di ferire la creatura.
Per altro verso il timore come «spiazzamento» (Palumbo) tocca un punto ancora più delicato, in quanto intende restare ancora diretto verso Dio, verso colui che «contrasta, nell'io e nel noi, ogni seducente ebbrezza di autoreferenzialità». Ed è interessante che un passo significativo in questa direzione provenga anche dall'analisi che Agnello fa del sébas e dell'eusébeia, mostrando in un contesto del tutto diverso da quello ebraico-cristiano, e cioè nel mondo filosofico greco, l'inscrizione del timore reverenziale, diretto all'asimmetria ineliminabile tra gli uomini e gli dèi, in una forma di relazione in grado di dischiudere in modo conveniente «l'accesso umano alla verità»: il timore, come «ritegno» di fronte al divino, sembrerebbe riconfigurarsi, in particolare nella torsione socratico-platonica della religiosità greca, quale inizio appropriato della risposta umana a una distanza che non respinge più, ma al contrario «invita l'uomo ad approssimarsi il più possibile al divino».
La distanza che non respinge, la fuga che non allontana riportano alla fine il percorso accidentato dell'analisi del «timore di Dio» a uno snodo centrale, individuato da tutti i contributi, pur sulla base di valutazioni a volte profondamente diverse sul timore stesso: quello che impegna in ogni caso il nucleo più autentico della religione a un «superamento» del timore. La questione si riapre poi sulla forma di superamento, come mostra il saggio di Paltrinieri, il quale avvicina in una prospettiva inconsueta ed efficace la via dell'uomo di fede e quella del non credente nella ricerca di un'«armonia travagliata», che non censura il timore verso quanto è «soverchiante» rispetto ai nostri progetti e bisogni personali, ma attua una trasformazione del timor vitae in una superiore serenità, con la quale giungiamo a sentire, come viene detto con formula felice, «passare dallo stato solido a quello aeriforme l'amore per noi stessi». Il timore di Dio, per parte sua, è rivolto al suo «mistero inarrivabile» (Bellia): e questo spiega i punti di profondo contatto tra il non credente e quell'uomo di fede che, sul modello del saggio Qohelet descritto da Bellia, smetta di atteggiarsi «a sicuro interprete dell'insondabile volere divino».
La vicinanza tra le due prospettive peraltro convive con esperienze diverse di «superamento», che «avvantaggiano» il non credente, per riprendere ancora Paltrinieri, nel sostenere fino in fondo il timore senza presumere di poterlo infine «annientare» grazie alla stessa potenza soverchiante che minaccia; mentre «avvantaggiano» l'uomo di fede che riesca a mantenere saldamente nella sfera dell'insondabile il modo nel quale il Dio che egli continua a temere lo libererà dal timore. La considerazione di questi due contrapposti vantaggi risulta preziosa per disegnare il passaggio stretto attraverso il quale avanzare almeno un poco nella comprensione del «timore di Dio». Un timore che, come fa notare Lo Sardo sulla base di una particolare interpretazione di Kierkegaard, va guardato anche come una possibilità, come un segno della libertà umana di fare un passo indietro nei confronti di Dio e di fare d'altra parte come Abramo esperienza, attraverso la spoliazione di sé, di un'autolimitazione di Dio. Così compreso, il timore di Dio risponde a suo modo a un comportamento divino e apre uno speciale accesso a Dio: nel momento in cui arriva a cogliere come proprio riferimento il ritrarsi di Dio, il timore fa esperienza di un intimo rivolgimento, dal quale emerge, quale sua radice più segreta, l'incontro con il Dio che libera; alla fine l'incontro con il Dio che si fa riconoscere come colui che non deve essere temuto. «Chi teme Dio non deve più temere»: così Naro riassume questa particolarissima forma di superamento del timore generata dal timore di Dio, che il NT ripensa radicalmente come uno speciale timore filiale, «il timore sperimentato da Dio nell'uomo», in Gesù. Assimilato alla sua Passione, il credente approfondisce il timore come riferito al disegno di gratuità di Dio, custodito nell'invito più radicale a non temere.
Proprio il «non temete (me phobeisthe)!», che in certo modo riassume la buona novella di Cristo, nella sua abissale incondizionatezza diviene il vero, ultimo oggetto del timore. È il timore rivolto da ultimo verso il Bene (Palumbo), è il timore verso una «certezza velata d'inevidenza» circa la fedeltà di Dio (Naro), è il timore che attende da Dio, come conclude Bellia alla luce di approfondite analisi di alcuni testi biblici, «un supplemento di luce per continuare a cercare ancora». Si tratta del timore più profondo, che non può essere abbandonato perché anzi in un certo senso cresce quanto più «una fede matura e disincantata» (Bellia) percepisce il carattere incondizionato dell'invito: «non temete!». Si tratta però anche di un timore che è già superato dal suo dire di sì a ciò che più teme, al Dio che chiede totale affidamento.
Temere veramente Dio significherà allora non temerlo, cioè rovesciare l'aversio, convertire ogni timore verso Dio? A questa tesi sembra indirizzarci Naro, richiamando tra l'altro la figura del terzo servo nella parabola dei talenti di Matteo. In ogni caso, la disputa tra mantenimento e rigetto del timore di Dio mi sembra attraversata, in tutti i saggi della raccolta, dall'acuto avvertimento del rivolgimento radicale cui va incontro il timore quando entra in relazione con Dio. Ci introduce bene alla spiazzante esperienza di questo rovesciamento di senso che accade nel timore di Dio la sequenza logica sorprendente che Bellia lascia sprigionare da una traduzione letterale del Salmo 130: «presso di te è il perdono, affinché tu sia temuto».