L'attualità e, forse,
l’urgenza di un’interrogazione intorno al
tema della coscienza morale trova la sua ragione più
immediata in una situazione culturale, come quella attuale,
nella quale al riconoscimento pressoché unanime
dei diritti della coscienza e alle frequenti esortazioni
al dovere di un suo pieno e consapevole esercizio, fa
riscontro una diversità di intenzionalità
e di sensi di siffatti riconoscimenti ed esortazioni,
dietro la quale sembra farsi avanti qualcosa come il logoramento
di questo come di altri lemmi del nostro lessico morale.
Eppure, in questo momento storico, un esercizio consapevole
della coscienza morale sembra essere richiesto in non
pochi ambiti: dalle questioni riguardanti la responsabilità
nei confronti dell’ambiente e delle generazioni
future, ai controversi problemi bioetici relativi al nascere
e al morire. Anche i fenomeni degenerativi della vita
politica e sociale, cui nel nostro paese si assiste da
un tempo oramai troppo lungo e nei quali consiste l’ampia
costellazione di problemi che va sotto il nome di «questione
morale», reclamano l’urgenza di un’interrogazione
intorno a quella che si presenta come la fonte viva della
vita morale. L’attuale orizzonte culturale appare
invece affetto da una sorta di schizofrenia poiché,
mentre da un lato, è insistito l’appello
alla coscienza morale, alla sua dignità, ai suoi
diritti, alla sua inviolabile libertà, d’altro
lato, mai come in quest’epoca, così avara
di autentiche testimonianze di integra moralità,
essa è stata così timida, così incerta,
così fragile, così condizionata dalle potenti
agenzie formative della pubblica opinione, così
soffocata da ipocrisie e da convenienze di vario genere,
così anestetizzata.
Nel dibattito pubblico in corso nel nostro Paese si
assiste per lo più al confronto tra due opposti
atteggiamenti nei quali la coscienza risulta in qualche
modo ridimensionata: per un verso, un nichilismo morale
diffuso, pratico prima ancora che teorico, per il quale
il disconoscimento di ogni dimensione di verità
e di universale doverosità dell’agire rischia
di ridurre l’appello alla (propria) coscienza alla
rivendicazione di un puro e semplice soggettivismo morale
e la stessa assunzione della responsabilità morale
dei propri atti a pura autoaffermazione dell’io;
per altro verso, il tentativo esplicito di limitare la
responsabilità ultima che ciascuno porta di se
stesso e dei propri atti attraverso l’imposizione
di norme giuridiche che surrogano o impediscono di fatto
l’insostituibile opera di discernimento della coscienza
individuale. Ciò che nella divaricazione tra questi
due opposti atteggiamenti sembra andare irrimediabilmente
perduto, è il nucleo più intimo e delicato
dell’esperienza della coscienza morale: la difficile
e sempre problematica tensione tra l’universalità
dell’aspirazione al bene e la particolarità
delle condizioni individuali dell’agire, della quale
vive ogni autentica coscienza morale e che solo nel «coscienzioso»
discernimento personale del proprio dovere «qui
ed ora» può trovare scioglimento.
Sul fronte teologico, uno tra i più noti e significativi
appelli alla dignità della coscienza morale ed
alla sua centralità nell’agire umano è
contenuto nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes (GS 16).
La formulazione conciliare risente senza alcun dubbio
del rinnovato slancio pastorale di cui il concilio si
fa interprete e utilizza le sollecitazioni provenienti
da nuovi orientamenti teologici (si pensi alla determinante
e per molti versi innovativa riflessione sulla coscienza
morale di John Henry Newman). Tuttavia nel suo richiamo
ad una legge che risiede «nell’intimo della
coscienza» e che non è l’uomo a darsi
«ma alla quale deve obbedire», nel sottolineare
che «la dignità stessa dell’uomo»
si identifica con questa obbedienza, infine nella determinazione
della funzione della «coscienza retta» nella
vita morale, la costituzione conciliare si colloca, non
soltanto nel suo senso complessivo ma finanche nella terminologia
utilizzata, all’interno di una consolidata (ma non
per questo univoca) tradizione filosofica e teologica.
È la tradizione speculativa, il cui inizio può
essere rinvenuto nella riflessione di Tommaso d’Aquino
e il culmine ideale nel Trattato della coscienza morale
di Rosmini. Ciò che emerge come elemento costante
di questa secolare tradizione, al di là di tutte
le pur non trascurabili variazioni e innovazioni, è
il riferimento ai princìpî oggettivi e universali
della legge naturale, rispetto ai quali l’atto della
coscienza si pone come applicazione della legge al caso
particolare: nel linguaggio tomista la polarità
tra la synderesis, che è l’habitus
conoscitvo della legge naturale posta da Dio nel cuore
dell’uomo, come tale esente da errore, e l’atto
del giudizio che applica la legge al caso particolare,
come tale fallibile. La distinzione tra coscienza vera
e coscienza retta è un corollario importante di
questo paradigma: la coscienza può essere erronea
in quanto può ignorare o applicare in maniera scorretta
la legge naturale, ma essere ugualmente retta, e come
tale fonte di obbligo, se è onesta, cioè
se si trova nell’ignoranza o nell’errore senza
sua colpa. Ma è proprio in relazione a questo corollario
che emerge tutta la problematicità di tale paradigma
nelle attuali condizioni della cultura nelle quali è
divenuta quanto meno problematica la nozione di legge
naturale e a maggior ragione l’idea che possa esservi
un interprete autentico di essa.
Storicamente la crisi di questo paradigma a lungo dominante
si è accompagnata a quella del modello kantiano
di coscienza morale, anch’esso, peraltro, come il
primo, esposto ai possenti colpi di maglio sferrati dai
«maestri del sospetto». Nella Genealogia
della morale, ad esempio, la riconduzione della nozione
di coscienza, insieme a tutto il «mondo dei concetti
morali», al «focolare d’origine»
costituito dal diritto delle obbligazioni, va di pari
passo con la messa in discussione dell’etica kantiana
(«perfino nel vecchio Kant: l’imperativo categorico
puzza di crudeltà»). Dall’attuale situazione
di disorientamento morale e dalla crisi dei paradigmi
della coscienza morale consegnatici dalla tradizione,
prende le mosse la sezione monografica di questo fascicolo.
Da un punto di vista fenomenologico la coscienza morale
si presenta, anche nelle sue forme difettive, come una
struttura permanente dell’esistenza umana: è
il fenomeno rappresentato per lo più nei termini
metaforici del cuore o del «foro interiore»
o della voce interna, o dell’altro in me, che mi
accompagna come un’ombra o come un testimone implacabile
che, in tutti i momenti della mia vita, ordina, discute,
giudica, ed eventualmente, condanna e suscita rimorso
o senso di colpa. («Dicitur enim conscientia testificari,
ligare vel instigare, et etiam accusare vel remordere
sive reprehendere», Tommaso d’Aquino, S.
Th., I, qu, 79 a 13). È il fenomeno dell’altro
in me (o il «due-in-uno» per dirla con la
Arendt). Ma chi è l’altro? E qual è
la legge di cui è portatore? E in che rapporto
questa legge è con la legge della città?
E qual è il momento saliente di questa interna
dialettica? Quello della conoscenza dei principi o della
legge, oppure quello della deliberazione intima, che confronta,
valuta, giudica, decide? Tutte le diverse comprensioni
del fenomeno della coscienza morale si possono ordinare
intorno alle diverse risposte che si danno a queste domande.
L’altro è la presenza della trascendenza
in me oppure è la semplice introiezione dell’altro
uomo, del mio vicino? E se è presenza della trascendenza
dell’Altro, quale trascendenza? Quella della lex
naturalis o quello della maestà dell’universale
legge della ragione? E se, invece, è la presenza
dell’altro con la minuscola, che cosa ci dice questa
presenza circa la struttura della coscienza? E se l’autorità
della coscienza morale deve trovare il suo fondamento
nell’eternità della legge di cui essa è
portatrice in quanto legge morale naturale, come potrà
salvarsi dai dubbi che possono investire l’idea
stessa di una legge naturale? E, viceversa, si può
ridurre la legge della coscienza a introiezione della
legge della città senza disconoscere il valore
delle più alte testimonianze della coscienza morale
che si danno proprio allorché essa si erge contro
la legge della città, dal demone di Socrate, al
«Ich kann nicht anders» pronunciato da Lutero
alla Dieta di Worms, ai tanti episodi di disobbedienza
civile per obbedire alla «voce» della coscienza?
E ancora: qual è il fondamento dell’inviolabile
libertà della coscienza: l’obbligo cui essa
è tenuta a seguire il proprio giudizio (quand’anche
fosse erroneo come giunge a sostenere Tommaso) o altro?
Nel tentativo di articolare ulteriormente queste domande,
la discussione che si è svolta in seno alla redazione
meridionale della rivista si è snodata intorno
ad alcuni nodi problematici attraverso i quali è
venuta emergendo l’interna aporeticità della
questione della coscienza morale dovuta al fatto che all’apparente
ovvietà dei suoi possibili significati si accompagna
un’opacità che non è affatto contingente
e che rinvia piuttosto ad una problematicità del
suo senso legata alla struttura stessa dell’esistenza
umana. La prospettiva antropologica adottata da Sergio
Sorrentino, che analizza la coscienza morale come «struttura
antropologica peculiare e distintiva» dell’essere
umano, mette in luce la complessità del fenomeno
e il suo carattere, ad un tempo, di datità, di
punto di arrivo di un processo storico di formazione e
di perenne istanza formativa della vita morale, esposta
al suo possibile rafforzamento come al suo indebolimento
e persino alla sua cancellazione. Il tema dell’emergenza
del Tu che appare nel varco del mio limite interpellando
la mia libertà viene sviluppato nel contributo
di Giuseppe Limone, nel quale la coscienza morale viene
analizzata, allo scopo di disoccultarne i presupposti
nascosti, quale «evento strutturale» nel quale
il soggetto «si scopre in uno stato di legame che
interroga e vincola la sua libertà» e che
«tiene insieme il ‘qui ed ora’ [della
coscienza] con la sua ‘universale necessità’».
Sul versante teologico, Armido Rizzi indaga il fenomeno
della coscienza morale così come è presentato
nell’Antico Testamento, quale luogo del discernimento
e dell’adesione alla volontà/promessa di
Dio: condurre l’uomo alla vita e alla felicità.
In questa prospettiva, la coscienza morale, è ciò
che costituisce propriamente l’uomo in quanto individuo,
portatore di un «cuore-coscienza», luogo della
libertà e del discernimento così come del
possibile incontro con Dio. Al’interno di questa
prospettiva la questione del discernimento ha costituito
un motivo ulteriore di riflessione poiché nel circolo
costituito dalla polarità tra l’universale
del giudizio etico e la contingenza della giusta deliberazione,
decisa/definita dalla singolarità agente, si aggiunge
la polarità costituita dall’emergenza d’Altri
che esige di vedere riconosciuto il proprio desiderio
di bene. Tale emergenza, come mostra Carlo Greco, richiede
che al discernimento intellettuale si accompagni un discernimento
spirituale che consenta alla coscienza di deliberare sul
caso particolare non solo in obbedienza alla norma universale,
bensì a partire dalla richiesta di riconoscimento
di sé, dei suoi desideri, progetti, bisogni che
l’altro avanza e che si impone con la stessa imperatività
della legge universale.
Spunti ulteriori di riflessione sono offerti dalla ‘figure’
delineate da Guglielmo Forni Rosa e da Gian Paolo Cammarota
in relazione a due momenti alti della riflessione sulla
questione della coscienza morale, rispettivamente: J.J.
Rousseau e I. Kant. Nel quadro delle ricerche svolte in
preparazione della sezione monografica di questo fascicolo
si colloca anche il contributo di Cloe Taddei Ferretti
sul problema della debolezza della volontà nel
pensiero di B. Lonergan che si pubblica nella sezione
"Interventi" in quanto solo indirettamente attinente
al tema monografico.