FILOSOFIA E TEOLOGIA
Sito ufficiale dell'Associazione Italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia (AISFET)
+ | -

L'attualità e, forse, l’urgenza di un’interrogazione intorno al tema della coscienza morale trova la sua ragione più immediata in una situazione culturale, come quella attuale, nella quale al riconoscimento pressoché unanime dei diritti della coscienza e alle frequenti esortazioni al dovere di un suo pieno e consapevole esercizio, fa riscontro una diversità di intenzionalità e di sensi di siffatti riconoscimenti ed esortazioni, dietro la quale sembra farsi avanti qualcosa come il logoramento di questo come di altri lemmi del nostro lessico morale. Eppure, in questo momento storico, un esercizio consapevole della coscienza morale sembra essere richiesto in non pochi ambiti: dalle questioni riguardanti la responsabilità nei confronti dell’ambiente e delle generazioni future, ai controversi problemi bioetici relativi al nascere e al morire. Anche i fenomeni degenerativi della vita politica e sociale, cui nel nostro paese si assiste da un tempo oramai troppo lungo e nei quali consiste l’ampia costellazione di problemi che va sotto il nome di «questione morale», reclamano l’urgenza di un’interrogazione intorno a quella che si presenta come la fonte viva della vita morale. L’attuale orizzonte culturale appare invece affetto da una sorta di schizofrenia poiché, mentre da un lato, è insistito l’appello alla coscienza morale, alla sua dignità, ai suoi diritti, alla sua inviolabile libertà, d’altro lato, mai come in quest’epoca, così avara di autentiche testimonianze di integra moralità, essa è stata così timida, così incerta, così fragile, così condizionata dalle potenti agenzie formative della pubblica opinione, così soffocata da ipocrisie e da convenienze di vario genere, così anestetizzata.

Nel dibattito pubblico in corso nel nostro Paese si assiste per lo più al confronto tra due opposti atteggiamenti nei quali la coscienza risulta in qualche modo ridimensionata: per un verso, un nichilismo morale diffuso, pratico prima ancora che teorico, per il quale il disconoscimento di ogni dimensione di verità e di universale doverosità dell’agire rischia di ridurre l’appello alla (propria) coscienza alla rivendicazione di un puro e semplice soggettivismo morale e la stessa assunzione della responsabilità morale dei propri atti a pura autoaffermazione dell’io; per altro verso, il tentativo esplicito di limitare la responsabilità ultima che ciascuno porta di se stesso e dei propri atti attraverso l’imposizione di norme giuridiche che surrogano o impediscono di fatto l’insostituibile opera di discernimento della coscienza individuale. Ciò che nella divaricazione tra questi due opposti atteggiamenti sembra andare irrimediabilmente perduto, è il nucleo più intimo e delicato dell’esperienza della coscienza morale: la difficile e sempre problematica tensione tra l’universalità dell’aspirazione al bene e la particolarità delle condizioni individuali dell’agire, della quale vive ogni autentica coscienza morale e che solo nel «coscienzioso» discernimento personale del proprio dovere «qui ed ora» può trovare scioglimento.

Sul fronte teologico, uno tra i più noti e significativi appelli alla dignità della coscienza morale ed alla sua centralità nell’agire umano è contenuto nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (GS 16). La formulazione conciliare risente senza alcun dubbio del rinnovato slancio pastorale di cui il concilio si fa interprete e utilizza le sollecitazioni provenienti da nuovi orientamenti teologici (si pensi alla determinante e per molti versi innovativa riflessione sulla coscienza morale di John Henry Newman). Tuttavia nel suo richiamo ad una legge che risiede «nell’intimo della coscienza» e che non è l’uomo a darsi «ma alla quale deve obbedire», nel sottolineare che «la dignità stessa dell’uomo» si identifica con questa obbedienza, infine nella determinazione della funzione della «coscienza retta» nella vita morale, la costituzione conciliare si colloca, non soltanto nel suo senso complessivo ma finanche nella terminologia utilizzata, all’interno di una consolidata (ma non per questo univoca) tradizione filosofica e teologica. È la tradizione speculativa, il cui inizio può essere rinvenuto nella riflessione di Tommaso d’Aquino e il culmine ideale nel Trattato della coscienza morale di Rosmini. Ciò che emerge come elemento costante di questa secolare tradizione, al di là di tutte le pur non trascurabili variazioni e innovazioni, è il riferimento ai princìpî oggettivi e universali della legge naturale, rispetto ai quali l’atto della coscienza si pone come applicazione della legge al caso particolare: nel linguaggio tomista la polarità tra la synderesis, che è l’habitus conoscitvo della legge naturale posta da Dio nel cuore dell’uomo, come tale esente da errore, e l’atto del giudizio che applica la legge al caso particolare, come tale fallibile. La distinzione tra coscienza vera e coscienza retta è un corollario importante di questo paradigma: la coscienza può essere erronea in quanto può ignorare o applicare in maniera scorretta la legge naturale, ma essere ugualmente retta, e come tale fonte di obbligo, se è onesta, cioè se si trova nell’ignoranza o nell’errore senza sua colpa. Ma è proprio in relazione a questo corollario che emerge tutta la problematicità di tale paradigma nelle attuali condizioni della cultura nelle quali è divenuta quanto meno problematica la nozione di legge naturale e a maggior ragione l’idea che possa esservi un interprete autentico di essa.

Storicamente la crisi di questo paradigma a lungo dominante si è accompagnata a quella del modello kantiano di coscienza morale, anch’esso, peraltro, come il primo, esposto ai possenti colpi di maglio sferrati dai «maestri del sospetto». Nella Genealogia della morale, ad esempio, la riconduzione della nozione di coscienza, insieme a tutto il «mondo dei concetti morali», al «focolare d’origine» costituito dal diritto delle obbligazioni, va di pari passo con la messa in discussione dell’etica kantiana («perfino nel vecchio Kant: l’imperativo categorico puzza di crudeltà»). Dall’attuale situazione di disorientamento morale e dalla crisi dei paradigmi della coscienza morale consegnatici dalla tradizione, prende le mosse la sezione monografica di questo fascicolo.

Da un punto di vista fenomenologico la coscienza morale si presenta, anche nelle sue forme difettive, come una struttura permanente dell’esistenza umana: è il fenomeno rappresentato per lo più nei termini metaforici del cuore o del «foro interiore» o della voce interna, o dell’altro in me, che mi accompagna come un’ombra o come un testimone implacabile che, in tutti i momenti della mia vita, ordina, discute, giudica, ed eventualmente, condanna e suscita rimorso o senso di colpa. («Dicitur enim conscientia testificari, ligare vel instigare, et etiam accusare vel remordere sive reprehendere», Tommaso d’Aquino, S. Th., I, qu, 79 a 13). È il fenomeno dell’altro in me (o il «due-in-uno» per dirla con la Arendt). Ma chi è l’altro? E qual è la legge di cui è portatore? E in che rapporto questa legge è con la legge della città? E qual è il momento saliente di questa interna dialettica? Quello della conoscenza dei principi o della legge, oppure quello della deliberazione intima, che confronta, valuta, giudica, decide? Tutte le diverse comprensioni del fenomeno della coscienza morale si possono ordinare intorno alle diverse risposte che si danno a queste domande. L’altro è la presenza della trascendenza in me oppure è la semplice introiezione dell’altro uomo, del mio vicino? E se è presenza della trascendenza dell’Altro, quale trascendenza? Quella della lex naturalis o quello della maestà dell’universale legge della ragione? E se, invece, è la presenza dell’altro con la minuscola, che cosa ci dice questa presenza circa la struttura della coscienza? E se l’autorità della coscienza morale deve trovare il suo fondamento nell’eternità della legge di cui essa è portatrice in quanto legge morale naturale, come potrà salvarsi dai dubbi che possono investire l’idea stessa di una legge naturale? E, viceversa, si può ridurre la legge della coscienza a introiezione della legge della città senza disconoscere il valore delle più alte testimonianze della coscienza morale che si danno proprio allorché essa si erge contro la legge della città, dal demone di Socrate, al «Ich kann nicht anders» pronunciato da Lutero alla Dieta di Worms, ai tanti episodi di disobbedienza civile per obbedire alla «voce» della coscienza? E ancora: qual è il fondamento dell’inviolabile libertà della coscienza: l’obbligo cui essa è tenuta a seguire il proprio giudizio (quand’anche fosse erroneo come giunge a sostenere Tommaso) o altro?

Nel tentativo di articolare ulteriormente queste domande, la discussione che si è svolta in seno alla redazione meridionale della rivista si è snodata intorno ad alcuni nodi problematici attraverso i quali è venuta emergendo l’interna aporeticità della questione della coscienza morale dovuta al fatto che all’apparente ovvietà dei suoi possibili significati si accompagna un’opacità che non è affatto contingente e che rinvia piuttosto ad una problematicità del suo senso legata alla struttura stessa dell’esistenza umana. La prospettiva antropologica adottata da Sergio Sorrentino, che analizza la coscienza morale come «struttura antropologica peculiare e distintiva» dell’essere umano, mette in luce la complessità del fenomeno e il suo carattere, ad un tempo, di datità, di punto di arrivo di un processo storico di formazione e di perenne istanza formativa della vita morale, esposta al suo possibile rafforzamento come al suo indebolimento e persino alla sua cancellazione. Il tema dell’emergenza del Tu che appare nel varco del mio limite interpellando la mia libertà viene sviluppato nel contributo di Giuseppe Limone, nel quale la coscienza morale viene analizzata, allo scopo di disoccultarne i presupposti nascosti, quale «evento strutturale» nel quale il soggetto «si scopre in uno stato di legame che interroga e vincola la sua libertà» e che «tiene insieme il ‘qui ed ora’ [della coscienza] con la sua ‘universale necessità’».

Sul versante teologico, Armido Rizzi indaga il fenomeno della coscienza morale così come è presentato nell’Antico Testamento, quale luogo del discernimento e dell’adesione alla volontà/promessa di Dio: condurre l’uomo alla vita e alla felicità. In questa prospettiva, la coscienza morale, è ciò che costituisce propriamente l’uomo in quanto individuo, portatore di un «cuore-coscienza», luogo della libertà e del discernimento così come del possibile incontro con Dio. Al’interno di questa prospettiva la questione del discernimento ha costituito un motivo ulteriore di riflessione poiché nel circolo costituito dalla polarità tra l’universale del giudizio etico e la contingenza della giusta deliberazione, decisa/definita dalla singolarità agente, si aggiunge la polarità costituita dall’emergenza d’Altri che esige di vedere riconosciuto il proprio desiderio di bene. Tale emergenza, come mostra Carlo Greco, richiede che al discernimento intellettuale si accompagni un discernimento spirituale che consenta alla coscienza di deliberare sul caso particolare non solo in obbedienza alla norma universale, bensì a partire dalla richiesta di riconoscimento di sé, dei suoi desideri, progetti, bisogni che l’altro avanza e che si impone con la stessa imperatività della legge universale.

Spunti ulteriori di riflessione sono offerti dalla ‘figure’ delineate da Guglielmo Forni Rosa e da Gian Paolo Cammarota in relazione a due momenti alti della riflessione sulla questione della coscienza morale, rispettivamente: J.J. Rousseau e I. Kant. Nel quadro delle ricerche svolte in preparazione della sezione monografica di questo fascicolo si colloca anche il contributo di Cloe Taddei Ferretti sul problema della debolezza della volontà nel pensiero di B. Lonergan che si pubblica nella sezione "Interventi" in quanto solo indirettamente attinente al tema monografico.

Elisabetta Barone
Giuseppe Razzino
Angelo Maria Vitale