Cosa resta dell’idea
di salvezza in un tempo come il nostro che, «disaffezionato
al futuro», «riorienta l’esistenza sul
‘tempo reale’» (Samonà)? Come
fronteggiare la prospettiva che appare sempre più
condivisa oggi in filosofia, di chi con timore rifiuta
ogni eschaton, schiacciando anche i presagi delle
"cose future" sulla cura del presente? C’è
ancora, per la salvezza e per il tipo di "fine"
su cui essa insiste, un senso possibile e quanto può
incidere in esso il modello della salvezza cristiana?
E infine, su questo versante, la «salvezza senza
fede», a quale fede, a quale Dio, effettivamente
rinuncia? Questa rinuncia, d’altra parte, è
condizione necessaria per l’accoglimento di un’istanza
«multisalvifica» (Cavadi) che vorrebbe correggere
un certo tratto escludente dell’idea di salvezza
imputato alla salvezza cristiana? Ciò che sembra
ineludibile, a partire dalla configurazione di queste
domande che provengono dai contributi raccolti in questo
fascicolo, è l’idea che oggi non sia possibile
parlare di salvezza se non all’interno della consapevolezza
di un solco oramai installato fra noi e la salvezza. Solco
scavato dal fatto che proprio la condizione finita, consegnataci
dalla modernità come la condizione insuperabile
del discorso filosofico, sembra venire tradita dalla stessa
idea di salvezza. Con un solo gesto, infatti, allo stesso
tempo rassicurante (rispetto ai travagli e ai rischi dell’esistenza)
ed escludente (i non salvabili), la salvezza ferirebbe
la finitezza offendendone la strutturale contingenza,
la vulnerabilità. Il suo portare un senso finale,
ultimo, priverebbe l’esistenza del suo senso proprio,
eternamente penultimo, immanente al finito, coprendolo
con un altro senso, accusato di violenza proprio perché
avvertito come compensatorio, sostitutivo, liquidatorio;
depotenziante quella penultimità e quell’immanenza,
ritenute condizioni legate alla natura del finito, che
tuttavia diventano, per il finito, valori da proteggere.
Da proteggere, appunto, da ogni salvezza che li calpesterebbe
nell’atto stesso di implicarne il superamento, volgendoli
in un altro senso; un senso imposto in cui si consumerebbe
un tipo di "soluzione" dei conflitti del finito
che non si libera a sua volta dal conflitto e dalla violenza
ma, anzi, li accentua, perché ha la pretesa di
toglierli superandoli, marcando così una rivalità
all’interno dell’opposizione: ciò che
deve essere tolto è in definitiva ciò che
non deve essere come è; ciò che ha in altro
la sua verità, in qualcosa che sta più in
alto.
Questo «altro» portato dalla salvezza è
inteso come l’anomos, l’ospite non
gradito nella terra della finitezza, ciò che depotenzia
il finito, che «relativizza i prodotti della ragione»,
perché «se la ragione avesse una forza autonoma,
la fede sarebbe solo soggettiva», come scrive Russino.
Proprio per arginare l’aspetto oppositivo della
salvezza escatologica cristiana, che appare salvezza dal
mondo, salvezza contro il mondo, Cavadi punta su una «soteriologia
al plurale», guidata dall’auspicio «che
le diverse escatologie possano annegare in un blob indistinto
in cui tutti i cigni sono bianchi». In questa prospettiva,
l’azzeramento della differenza nell’uguaglianza
indifferente delle posizioni proviene dalla consapevolezza
di un aspetto negativo, oppositivo della differenza, che
comporta la rivalità, la lotta per la supremazia
e dunque il conflitto. Come risponde la teologia, in particolare
quella cristiana, alla quale la maggior parte dei testi
che seguono fa riferimento, a questa posizione - oggi,
come ai tempi di Hegel, particolarmente viva in filosofia
- che contrappone alle ragioni del finito l’istanza
della salvezza? Quali risorse mette in campo? Il saggio
di Naro, Prima viene l’ultimo, e quello
di Bellia, Salvezza ed eschaton nella Bibbia,
hanno in comune la particolare attenzione rivolta al concetto
di eschaton e la puntualizzazione, che nel saggio
di Naro diviene centrale, del fatto che non si può
comprendere la specificità della salvezza cristiana
se non ci si sofferma sul passaggio dagli eschata
e dall’eschaton all’Eschatos.
L’ultimo: il tempo ultimo o la cosa ultima, nel
Cristianesimo divengono Qualcuno. Il tempo stesso, preso
al futuro, si personalizza, diventando volto – volto
che viene al futuro. Secondo Naro è solo a partire
da questa trasformazione del futurum nel Novissimus
che «la storia diventa capace di aspettare e ricevere»,
abbastanza in linea, in questo, con la tesi di Pannenberg
secondo cui «il Rivelatore della volontà
escatologica di Dio è diventato l’incarnazione
della realtà escatologica stessa» (W. Pannenberg,
Grundzüge der Christologie, Gütersloh
1966, p. 381).
Proverò a esplicitare tenendo conto dei saggi,
ma con parole mie, che senso ha sottolineare questo aspetto
e che tipo di risposta, all’accusa rivolta alla
salvezza dalle filosofie che assumono l’insuperabilità
della finitezza come condizione del loro discorso, esso
ha il potere di contrapporre. Il fatto che il tempo della
salvezza, il tempo finale, possa venire alla maniera di
Qualcuno, suggerisce il darsi, il venire incontro di un
volto – qualcuno diventa qualcuno in quanto è
volto. Questo aspetto dona innanzitutto al tempo il carattere
dell’incontro, facendo pesare su di esso l’attesa
e la sorpresa che accompagnano spesso nella vita l’incontro
con un volto. Ma poiché questo volto viene per
ognuno come quello atteso, sperato, da ognuno, quello
che desideriamo sommamente vedere, perché viene
per noi, parla a noi, includendoci nel suo sguardo –
ecco che esso non può non configurarsi come il
volto che riassume la nostra esistenza («J’ai
vu ton visage être cette pierre/dont j’aurais
voulu faire ma maison», B. Noël, La chute
des temps, Gallimard, Paris 1993, p. 65) perché
alla fine è proprio lui che vogliamo vedere, la
carità in persona («Qualcun-Altro è
indeducibile dal mondo e però capace di ricapitolare
in sé tutto e tutti», come scrive Naro).
E se lo vogliamo vedere, alla fine, è perché
Egli prende con sé, dice in verità la nostra
esistenza, liberandola dal peso della solitudine, dal
peso del corpo mortale e offrendole, nella condivisione
che vi offre, una ritrovata leggerezza, quasi un’ascensione.
Ascensione del corpo e dunque ritrovata leggerezza della
pesantezza del corpo e non toglimento del corpo e quindi
riproposizione di un fuorviante dualismo.
Al principio della «carità come condivisione
della finitezza» si riferisce anche Natoli, ma per
approdare a un’idea di finitezza affrancata dall’eternità.
Nella prospettiva appena descritta, aperta dalla tesi
di Naro, invece, risulta impossibile scorporare dal finito
la richiesta dell’eternità e questa impossibilità
proviene proprio dall’entrare in gioco, crucialmente,
dell’eschaton come volto, che non essendo
mai disponibile in una visione definitiva, restando in
eccesso su ogni fenomenologia, impone l’accesso
all’infinito da parte di chi lo guarda. Il volto
che viene per noi, quello che attendiamo, ci trascina
nell’infinito perché è all’infinito
che desideriamo rivederlo per vederlo finalmente. Questa,
concedendomi qualche libertà nella sintesi, mi
pare la coerenza fra finito e infinito che proviene dall’escatologia
cristiana riprospettata dai contributi di Naro e Bellia.
La salvezza dell’amore – a questo riconduce
necessariamente l’istanza di un eschaton
personale – può assumere il senso della speranza
in un ultimo, benevolo sorriso, che protegge e mantiene
il senso della vita sempre altra di ognuno («L’amour
fait de chacun le revenant de l’autre», B.
Noël, op. cit., p. 104), ritraducendo così
quella «conversione» della salvezza «verso
il finito» di cui parla Samonà, in cui non
vige più la contrapposizione del finito all’infinito
(che salverebbe dalla finitezza), perché la salvezza
diventa «il principio in grado di risanare i contrasti
in convivenze e congiunzioni». Ma questa integrazione
nella salvezza, va ribadito, non sarebbe possibile se
l’istanza salvifica fosse assegnata a una potenza
anonima, sia pure divina: essa resta infatti interamente
appesa al fatto che, come dice Bellia, nella visione escatologica
configurata biblicamente, «l’eschaton
si comprende come parousìa […] nel
mistero di comunione con Cristo, contrappunto di ogni
attesa». O, con altre parole, a partire dal fatto
che è il logos stesso che «si presenta,
si raffigura», come scrive A. Lo Sardo a partire
da J.-L. Nancy; ovvero, seguendo P. Palumbo, a partire
dal fatto che è «l’impossibile positivo»
della figura di Gesù a far sì che la salvezza
sia molto di più di un «risarcimento».
Ciò che emerge da questi ultimi contributi citati
sembra rapportabile al modo in cui Bonhoeffer intende
la verità, descrivendola come necessariamente in
rapporto con lo stato di «divisione e di contraddizione
con se stessa» della realtà che «ha
bisogno di riconciliazione e di guarigione» (D.
Bonhoeffer, Che cosa significa dire la verità?,
in Etica, Bompiani, Milano 1969, p. 314). Il
reale, il tempo reale, si presenta scisso, lacerato, luogo
impossibile da abitare, meno che mai con orgoglio e rassegnazione.
Ma proprio a questo impossibile la verità deve
prestare la sua infedele fedeltà, diventando l’altro
dello stesso, il luogo «in cui si custodisce e si
promuove il reale nel suo complesso e fragile viluppo»
(U. Perone, La verità del sentimento,
Guida, Napoli 2008 , p. 166), senza «ferirlo»,
«violentarlo» o «distruggerlo».
Il compito che Bonhoeffer lega alla verità, come
U. Perone ricorda, è la «protezione»
– la verità deve proteggere (schützen)
la realtà, offrendo umanità alla contraddizione
che la attraversa; verità e responsabilità
sono dunque indissociabili, come viene ribadito, sempre
a partire da Bonhoeffer, anche nel numero di "Filosofia
e Teologia" 1/2006 Sul penultimo
con cui questo numero è per molti versi in dialogo.
Quello che G. Palumbo chiama nel suo saggio «volto
liberante del mistero della salvezza», lascia intravedere
un legame fra la salvezza e la verità che va nella
direzione di Bonhoeffer, specie quando prospetta polemicamente,
nell’ambito dell’etica del finito, il timore
che la povertà strutturale della condizione finita
dia luogo a «forme di auto-assicurazione esercitate
a partire dalla contingenza» che non si mantengono,
parafrasando Bonhoeffer, all’altezza della contraddizione
del reale e neutralizzano di conseguenza ogni attesa e
ogni arrivo. Il rassegnarsi «al limite» da
parte dell’etica del finito prospetterebbe così
un’idea di «liminalità» opposta
a quella che Bellia intravede nell’esperienza protocristiana,
in cui ci sarebbe l’«attesa di una soluzione
ultima da parte di chi non si aspetta nulla di imminente».
La stessa percezione della povertà e della contingenza,
quindi, nel primo caso sembra precludere il sopraggiungere
di qualunque evento salvifico per un’estrema fedeltà
al limite che la finitezza impone a se stessa, nel secondo
produce un altro modello di fedeltà al limite,
in cui il limite è riconosciuto nell’esatta
misura in cui viene lasciato a se stesso. Ciò accade
grazie all’anticipazione di sé che l’Eschatos
in persona ha offerto ai cristiani e alla storia; è
in questa anticipazione che il finito ritrova la sua postura
di attesa volta al futuro, perché come sottolinea
ancora Naro, la possibilità «che l’Ultimo
venga ‘prima’ significa che del tempo è
disvelata una qualità altra». E cioè,
con altre parole, il tempo finito può aprirsi all’attesa
dell’in-finito perché conserva la memoria
(immemoriale) dell’infinito che ha già travolto
il finito in un’altra storia (di salvezza).
È dalla personalizzazione dell’eschaton,
dal suo divenire Eschatos che sembra provenire
quell’accento posto da molti dei contributi qui
riuniti su un aspetto, una «qualità»
dell’eschaton che funge da ulteriore contrappunto
a una critica ricorrente rivolta alla salvezza da parte
dell’etica del finito che vede nella salvezza un
trionfo della «pienezza del senso», un «torbido
anelito» verso un «senso con la maiuscola»,
l’espressione di un «desiderio metafisico
assoluto», e che ad essa preferisce contrapporre
«un’economia dell’assenza» (rimando
alla ricostruzione di G. Palumbo da cui prendo queste
espressioni). Ora, vedere nell’Eschatos
«l’incarnazione della realtà escatologica
stessa» vuol dire accettare - ecco la qualità
dell’eschaton prima annunciata –
l’assenza, la non-presenza. Quel «dialogo
con l’assenza» di ispirazione heideggeriana
che G. Palumbo ricorda, è paradossalmente impiantato
nel cuore di ciò che nel cristianesimo appare come
il segno di una pienezza riconfermata: la resurrezione
dopo la morte. Proprio la resurrezione, come scrive J.-L.
Nancy, costituisce il «levarsi (levée)
del corpo» (J.-L. Nancy, Noli me tangere,
Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 33), attestandosi
come il contrario dell’incarnazione (Cf. J.-L. Marion,
Prolégomènes à la charité,
Éditions de la Différence, Paris 1986, p.
151). In questo levarsi o ascendere del corpo del Risorto,
va rintracciata tuttavia, una «radicale modificazione
della presenza» (Cfr. J.-L. Marion, op. cit., p.
153), il corpo non viene separato dallo spirito, ma riaffermato
insieme allo spirito, come lo spirito, nell’assenza.
La «presenza» resuscita, ma la resurrezione
le fa subire un’alterazione che fa sì che
essa si dia nell’assenza; la tomba resta vuota tanto
perché il corpo che dovrebbe contenere è
un corpo vivente, non destinato a quella sede, quanto
perché il corpo strutturalmente manca: manca fra
gli oggetti disponibili, manca fra le cose. La resurrezione
rivela dunque un’indisponibilità del corpo
che si afferma come ritrazione, levata. Questa affermazione
non è rapportabile a un trionfo, a una «fissazione
fuori misura del positivo», come scrive G. Palumbo
riassumendo alcune posizioni dell’etica del finito,
perché con la resurrezione la presenza si riafferma
nell’assenza come non-presenza. È nell’insicurezza
data dal ritrarsi del corpo - e con esso di ogni appiglio
e di ogni toccare – quindi, che, per rimanere nell’ambito
in questione, il cristiano resta «saldo»,
ma al tempo stesso al riparo da ogni idolatria.
Questa saldezza nell’insicurezza, che recupera
tutta la fragilità e al tempo stesso l’inesorabilità
del volto, e che dunque resta non assicurata, non disponibile
alla presa, può entrare in una particolare forma
di dialogo con l’esigenza di non intendere la salvezza
come il monopolio stabile di una religione che si pone
al di sopra delle altre, super partes. Nel suo essere
definito da un non avere, questo tipo di saldezza può
aprirsi infatti alla pluralità delle istanze salvifiche
che rimandano con forza a un tratto di mistero ineffabile,
sottratto alle certezze dottrinali. Il divenire volto,
Eschatos, da parte dell’eschaton,
inoltre, sembra fronteggiare a suo modo l’instaurarsi
di un certo tratto escludente e respingente della salvezza,
perché sfugge alla stessa partizione fra città
celeste e città terrena in cui si genera il tratto
oppositivo della salvezza, quel conflitto irrisolto che
conduce la civitas terrena a diventare, paradossalmente,
«la parte che vuole farsi tutto rimanendo parte»
(G. Russino), incorporando in sé il diritto all’esclusione.
L’eccedenza fragile dell’Eschatos,
indisponibile a qualunque comunità prestabilita,
a qualunque «retta credenza» così come
ad ogni singolo atto di fede, sembra voler proporre l’impossibilità
di questa metonimia, sospendendo, con il suo darsi, tanto
la distanza fra civitas celeste e quella terrena, quanto
i tentativi di rilevarla.