L’anniversario di
un evento che ha dato origine ad una storia che ci ha
coinvolto e ancora ci coinvolge personalmente, socialmente
e culturalmente, è sempre l’occasione per
riflettere sul senso del cammino percorso, sulla vitalità
delle motivazioni ideali da cui è scaturito, sui
necessari ripensamenti che si rendono necessari perché
l’impegno in tale cammino sia responsabilmente attento
alle nuove situazioni in cui ci troviamo e alle nuove
esigenze che c’interpellano. Il ventesimo anniversario
(1987-2007) della rivista «Filosofia e Teologia»
è certamente una di tali occasioni. Sia per chi
è stato coinvolto con convinzione nell’impresa
della rivista fin dalla sua fondazione, sia per chi man
mano si è lasciato coinvolgere nel lavoro, partecipando
attivamente al Comitato di direzione (attualmente di tredici
persone), ad una delle cinque redazioni (implicanti ormai
più di cento studiosi di varie università
italiane) oppure offrendo in vari modi la sua collaborazione.
La prima considerazione che si può fare, sulla base
di una constatazione che s’impone quasi come ovvia,
è che la rivista, ovvero il convergere di tante
persone e tante energie nella realizzazione dell’istanza
ideale da cui essa è nata, è stata un’esperienza
positiva e vitale. Non solo perché ha prodotto
con regolare scadenza ormai 20 volumi, comprendenti in
totale 60 fascicoli monografici di oltre 230 pagine l’uno,
ma perché ha dato origine in modo fruttuoso ad
una forma del tutto inedita in Italia d’interesse
per il dialogo tra filosofia e teologia, che ha visto
coinvolti sia filosofi che teologi di vario indirizzo
di pensiero e di varie confessioni religiose, uniti nell’impresa
non dall’appartenenza ad una ‘scuola’
o dall’autorità di un maestro ma solo dalla
passione per la verità o le verità in gioco
in tale dialogo. Dopo venti anni ci si può compiacere,
fra l’altro, del riconoscimento unanime che la rivista
ha ottenuto per il suo elevato ‘standard’
scientifico, che le ha permesso di contribuire efficacemente
alla delineazione in Italia di un vero e proprio ambito
disciplinare di studi al confine tra teologia e filosofia,
dotato di indiscutibile importanza culturale e di una
propria serietà metodologica. Con il che la rivista
ha operato efficacemente – come era nei suoi intenti
iniziali primari - per il superamento degli «storici
steccati» tra pensiero critico e fede, tra filosofia
e teologia, che si erano concretati nella stessa espulsione
(oltre che autoesclusione) della riflessione teologica
dalle università italiane, solidale con l’emarginazione
della riflessione teologica dal dibattito culturale pubblico.
Ispirandosi a tali intenti primari, fin dai primi anni
della sua storia la rivista si è scoperta e voluta
‘laicamente’ impegnata nella difesa e promozione
del tema della ‘verità’ e/o dell’individuazione
del senso profondo delle cose e dell’uomo, oltre
le derive scientistiche e/o nichilistiche dilaganti nella
cultura contemporanea. Le prime escludenti ogni verità
che non sia oggettivamente elaborabile con il metodo delle
scienze positive o puramente logico-formali; le seconde
neganti come illusorio o ideologico ogni rimando ad un’istanza
veritativa. Nei confronti di tali derive, filosofia e
teologia si trovano, infatti, solidali nella primaria
attenzione alla verità che ci interpella e di cui
devono rispondere di fronte a tutti, pena la perdita della
loro stessa valenza culturale essenziale o tradizionale.
Una verità che la filosofia incontra anche nell’esperienza
religiosa tramandata dalla tradizione teologica e che
la teologia è chiamata ad indagare anche sotto
il pungolo critico radicale proprio del pensare filosofico.
Nei primi dieci anni dei suoi lavori, la rivista –
come ebbe modo di far notare Giuseppe Zarone nell’editoriale
del fascicolo speciale dedicato ai dieci anni della rivista,
dal titolo «Ripensare la parola» – si
è spontaneamente unificata a livello metodologico
attraverso il convergere attorno al metodo ermeneutico sia
dei suoi attori filosofi che di quelli teologi. «La
via ermeneutica – scriveva Zarone nel 1997 –
è diventata l’unità metodica, filosofica
e teologica, di un cammino mai ‘perfetto’ verso
la memoria della verità». E motivava quest’affermazione
per la consapevolezza, che accomunava i filosofi e i teologi
della rivista, che la verità, nella sua misteriosa
‘alterità’, è prima dei linguaggi
umani anche se si dà soltanto in essi, tramite il
serio e sempre rinnovato lavoro della loro interpretazione.
«Tradurre e interpretare gli eventi della parola,
delle parole che stanno prima dei saperi, e perfino delle
distinzioni istituzionalizzate di filosofia e teologia,
ma pure in essi, questa forse l’idea essenziale che
la rivista ha sostenuto, convinta che la verità può
farsi novità solo nel mondo dei linguaggi ‘storici’
e attraverso essi».
Accanto a questa motivazione ne traspariva anche un’altra,
ad essa solidale: la via ermeneutica – come ben sosteneva
Pareyson - sembra essere l’unica via che impedisce
alla teologia ma anche alla filosofia di lasciarsi irretire
sia nel ‘dogmatismo’ di chi pretende che la
propria formulazione della verità sia l’unica
possibile, tanto da ritenerla coincidente con la verità
stessa, sia nel ‘relativismo’ di chi sostiene
che la verità, proprio perché si esaurisce
nelle sue formulazioni, ne segua in tutto il divenire storico.
Aprendo un’alternativa all’unilateralità
di tali posizioni, la via ermeneutica sembra infatti in
grado di rispettare le istanze di verità presenti
nelle sue varie formulazioni storiche – nel caso le
formulazioni proprie della tradizione filosofica e di quella
teologica – e di farle dialogare fruttuosamente nel
comune riferimento a quella fonte inesauribile e misteriosa
della verità che le interpella entrambe tramite le
varie esperienze e i vari linguaggi umani. Un metodo che
si è cercato di mettere praticamente in atto affrontando
in modo dialogico – almeno negli intenti – la
serie dei temi, tutti di rilevante interesse filosofico
e teologico, che hanno formato man mano l’argomento
dei vari numeri monografici della rivista. Penso, ad esempio,
ai temi della religione, della politica, dell’etica,
della verità, del soggetto, della finitezza e della
mortalità, del sacro e della secolarizzazione, della
creazione e della cristologia, del linguaggio e della rivelazione,
della vita e dell’eros, del male, della natura come
giustificazione etica; per citarne solo alcuni. O ai numeri
monografici su autori di grande valenza filosofica e teologica,
come Bultmann, Bulgakov, Simone Weil, Rosenzweig, Gadamer,
Bonhoeffer, Ricoeur. Non sempre, certo, si è riusciti
ad affrontare con tempestività temi d’immediata
attualità, con capacità di intervenire in
modo incisivo nel dibattito pubblico anche a livello divulgativo.
Ma i principali temi di fondo della nostra temperie culturale
non sono stati ignorati, come testimoniano, ad ulteriore
esempio, i numeri monografici riguardanti il tema del pluralismo
religioso, della diagnosi del post-moderno, del governo
tecnico della vita, della laicità. Senza dimenticare
i vari interventi nella rubrica «Osservatorio di etica»
da parte di persone direttamente impegnate in professioni
che oggi – come si suole dire – sono ‘eticamente
sensibili’.
A ben vedere, l’intento divulgativo e quello dell’intervento
nel dibattito pubblico d’attualità non era
negli intenti primari della rivista, che si proponeva piuttosto
un lavoro di individuazione e di serio scavo dei problemi
di fondo che fermentano nella nostra cultura, anche se ancora
inattuali nel grande mercato mediatico. Il che non toglie
che l’attenzione all’attualità culturale
e il perseguimento di un’efficace presenza chiarificatrice
dei termini dei problemi in primo piano nel dibattito pubblico
non debbano essere tra gli scopi della rivista. Negli ultimi
anni, a partire soprattutto dal 2000, la rivista ha trovato
una convergenza d’intenti non solo metodologica ma
anche contenutistica attorno al tema «Tramonto o trasfigurazione
del cristianesimo?». Ad esso sono stati dedicati tre
convegni organizzati dalla Direzione della rivista nel 2002,
nel 2004 e nel 2006; e il tema è stato ritenuto lo
sfondo problematico in riferimento al quale affrontare tutti
i singoli argomenti dei vari fascicoli. In effetti, esso
non interessa solo i credenti, ed in particolare i teologi
credenti, sensibili al problema della trasmissione di un
cristianesimo vitale alle nuove generazioni, ma ogni uomo
di cultura, ed in particolare i filosofi, impegnati a leggere
le dinamiche profonde che fermentano la nostra cultura e
a cercare in qualche modo d’indirizzarle verso un
futuro più corrispondente all’humanum che pulsa
in tutti gli uomini e le donne del pianeta. Il cristianesimo,
infatti, ha profondamente impregnato di sé l’occidente
ed ora la cultura occidentale lo sta mettendo in crisi e
al tempo stesso entra in crisi. Una diagnosi della nostra
cultura non può fare a meno di porsi l’interrogativo:
quale cristianesimo sta morendo e quale occidente sta tramontando?
Che rapporto c’è tra la crisi dell’uno
e la crisi dell’altro? In quale direzione dobbiamo
impegnarci? Staccarci dal cristianesimocome tale, perché
giudicato senza più nulla da offrire alla nostra
società e al suo futuro, anzi come fattore di remora
al processo di liberazione dell’uomo? Oppure reinterpretare
la forma storica delcristianesimo dopo il tramonto della
forma dogmatico-istituzionale antica e della forma moderna
secolarizzata, attingendo in modo nuovo al suo nucleo vitale
originario, con la convinzione che esso scaturisca dall’avvento
dell’eterno nella nostra storia e implichi la scoperta
di una dimensione umana universale, ormai irrinunciabile?
Tutta una serie di problemi filosofico-teologici sono implicati
in questi interrogativi. Ad esempio il problema del tipo
di trascendenza ‘metafisica’ implicito nella
visione cristiana di Dio, in collegamento con la fede nella
incarnazione storica di Dio nella persona di Gesà
di Nazareth; quello della natura dell’assolutezza
della verità pretesa dal cristianesimo, in relazione
con le sue inevitabili interpretazioni storiche; quello
del rapporto tra rivelazione cristiana e ragione etica universale;
quello dell’incidenza dell’escatologia cristiana
nella costruzione storica di una umanità liberata
da ogni forma di violenza, di oppressione, di discriminazione
ecc. Recenti esplosioni mediatiche di alcune problematiche
concernenti il cristianesimo, come ad esempio quella circa
la storicità della figura di Gesù di Nazareth
tramandata dai Vangeli (innescata dal Codice da Vinci),
quella sui miracoli in relazione a santi taumaturghi come
Padre Pio o a santuari mariani come Lourdes, quella a proposito
della dottrina cristiana tradizionale sull’anima e
il suo destino (innescata ultimamente dal libro di Vito
Mancuso), confermano la sentita urgenza di un ripensamento
critico del cristianesimo che non si esaurisca nelle ristrette
cerchie dei filosofi e dei teologi di professione, o sotto
la tutela delle varie autorità confessionali, ma
si svolga in un libero dibattito pubblico, in cui tutti
sono chiamati a confrontarsi, credenti e non credenti, credenti
e diversamente credenti, ciascuno con i propri argomenti,
riflessioni, convinzioni. Non ci nascondiamo i pericoli
e i rischi di un tale dibattito pubblico, inevitabilmente
superficiale, spesso unicamente retorico o addirittura ideologico;
quando non unicamente alla ricerca dello scontro spettacolare,
per nulla interessato ad una ricerca della verità
tramite un effettivo dialogo libero e tra pari; ma non vediamo
come tale dibattito possa essere evitato o compresso o ignorato,
senza rischi ancor più grandi, quali il diffondersi
di una fede – o non fede – del tutto acritica
e irresponsabile, facilmente arruolabile al servizio di
interessi di natura non religiosa. Compito di una rivista
come la nostra è interloquire per quanto possibile
in tale dibattito pubblico, dando un contributo di riflessione
critica con argomentazioni serie, meditate, chiarificanti
almeno i termini dei problemi in gioco.
Ultimamente questa molteplice problematica pare si vada
concentrando nell’interrogativo circa la legittimità
e le forme dell’incidenza della religione in generale,
e del cristianesimo in particolare, nell’ethos comune,
con le conseguenze che ciò può avere nella
stessa legislazione civile. Una problematica che non solo
dilaga nei media, con le assillanti notizie – spesso
del tutto ripetitive – circa le ingerenze (vere o
presunte, dirette o indirette) delle autorità cattoliche
sui temi politici (soprattutto eticamente sensibili) d’attualità,
ma investe interrogativi filosofico-teologici di fondo circa
il senso della presenza del ‘religioso’ nel
nostro mondo pluralista e globalizzato. Fino a poco tempo
fa si riteneva che esso fosse inesorabilmente avviato sulla
via di una crescente secolarizzazione e che il principio
della ‘laicità’ dello stato moderno fosse
una conquista irreversibile. Oggi si riscontra un singolare
ritorno del ‘religioso’, e del religioso positivamente
connotato (come il Cristianesimo, l’Islam, l’Ebraismo),
spesso in forme fondamentaliste o sacrali che si credevano
arcaiche o marginali se non del tutto votate all’estinzione.
E contemporaneamente per un verso cresce l’indifferenza
religiosa e per altro verso cresce l’insofferenza
per la religione, fino a forme di ateismo militante e di
anticlericalismo programmatico. Senza dimenticare il diffondersi
di una religiosità vissuta individualmente, talora
profondamente autentica, del tutto o in gran parte scissa
da appartenenze istituzionali e da vincoli a particolari
contenuti di fede o di morale. Quale atteggiamento tenere
di fronte a questa nuova situazione?
Il dibattito sulla presenza (sulle varie forme di presenza)
della religione nello spazio pubblico si è riaperto
e va affrontato in modo criticamente consapevole. Distinguendo
tra le varie forme dell’esperienza religiosa (istituzionalizzate,
identitarie, mistiche, private…) e ripensando la
natura e i vari livelli dello spazio pubblico ‘laico’
in cui si deve svolgere il confronto democratico tra le
varie posizioni, religiose o no, che intendono contribuire
alla convivenza civile non solo per giungere ad accordi
‘consensuali’ che contemperino gli interessi
di tutte le parti – che si debba tendere ad un consenso
democratico dovrebbe essere fuori discussione, se ci accetta
il principio di laicità dello stato – ma
soprattutto per cercare convergenze sull’humanum
che tutti ci accomuna e che solo può permetterci
di convivere sulla base di rapporti pacifici e fraterni.
Saprà la nostra rivista essere all’altezza
di questi compiti, in cui il dialogo tra filosofia e teologia
(o forse meglio: tra le varie filosofie e le varie teologie)
è necessariamente coinvolto e quanto mai urgente?
Ce lo auguriamo di cuore, convinti che una rivista come
la nostra non abbia perso in nulla della sua attualità
e che possa e debba attrezzarsi per rispondere nel modo
migliore alle nuove esigenze dei tempi.