FILOSOFIA E TEOLOGIA
Sito ufficiale dell'Associazione Italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia (AISFET)
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Il tema della “laicità” si ripropone in modo dirompente nella nostra società, non solo interpellando, con la forza dei processi socio-culturali reali, la riflessione filosofica e teologica, ma anche incidendo direttamente nella prassi politica quotidiana e nell’azione pastorale delle chiese cristiane, suscitando dibattiti e contrapposizioni concrete, argomentazioni pacate e accuse appassionate, incomprensioni e tentativi di dialogo. L’attualità del tema è sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare, a titolo d'esempio, i dibattiti e le polemiche circa gli interventi della gerarchia cattolica in questioni di rilevanza politico-legislativa (leggi sul divorzio, l’aborto, la procreazione assistita, l’eutanasia, le convivenze di fatto, l’utilizzo d'embrioni per la ricerca scientifica ecc.), le discussioni circa il contributo delle fedi religiose nella formazione di un ethos civile condiviso (soprattutto in campo di bioetica, di concezione della famiglia, delle politiche di pace, legalità e di giustizia…), le questioni sollevate a proposito della presenza di simboli religiosi in luoghi pubblici (il crocifisso nelle scuole o nei tribunali in Italia, il velo delle donne islamiche in Francia…), le contrapposizioni a proposito dell’inserimento della menzione delle radici cristiane nella Costituzione europea. Senza dimenticare problemi più antichi, sempre vivi, come quello dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche (oggi richiesto anche per il Corano dai mussulmani…), del finanziamento statale alle scuole confessionali, della “laicità” o meno del concordato con la chiesa cattolica e delle intese con altre confessioni cristiane e con l’ebraismo, fino alla richiesta d’intese con l’Islam o altre nuove religioni.

Molte sono le questioni storiche e giuridiche implicate in tali dibattiti, e, sullo sfondo, si moltiplicano gli interrogativi filosofici e teologici che necessitano di chiarificazione e d’approfondimento. Il convegno “Tramonto o trasfigurazione del cristianesimo? 3. Laicità”, organizzato dalla nostra rivista in collaborazione con l’Associazione Italiana per gli Studi di filosofia e teologia e il Centro “Falconara Filosofia” a Falconara Marittima nei giorni 23-25 novembre 2006, di cui in questo fascicolo pubblichiamo gli atti, ha voluto dare un contributo alla individuazioni e al chiarimento di tali problemi, tramite un confronto tra posizioni e competenze diverse. Il tema – come risulta dal titolo stesso del convegno, ormai il terzo della serie - è stato affrontato nell’ambito di una tematica più ampia, riguardante il senso e il destino del cristianesimo nell’odierno contesto culturale. Un contesto, soprattutto per quanto riguarda l’occidente, sempre più segnato dalla secolarizzazione, dalla crisi della metafisica, dall’accentuarsi dello spirito critico e libertario, dall’imporsi di forme di nichilismo, ed anche, come fatto in parte nuovo, dall’affermarsi prorompente della globalizzazione e del multiculturalismo. Stiamo assistendo ad un tramonto del cristianesimo, solidale con un certo tramonto dell’occidente e delle ideologie del moderno, oppure il cristianesimo si mostra capace di reinterpretarsi, senza perdere se stesso, con un ritorno creativo ai suoi testi fondatori? E in che direzione sembra muoversi, o è auspicabile che si muova, tale “trasfigurazione”? Questi e simili interrogativi sono di grande rilevanza non solo per la teologia e la fede cristiana ma anche per la filosofia e l’intera cultura occidentale. Questa, infatti, ancor oggi per un verso è debitrice del cristianesimo, sia pur in forme secolarizzate, e per altro verso condiziona la sorte stessa del cristianesimo, tanto da metterne in crisi, se non la realtà “mistica”, certo la forma assunta nell’epoca moderna ed anche la presenza empiricamente rilevabile nella nostra società. Ed indubbiamente lo sviluppo in senso “laico” degli stati democratici e più in generale della cultura moderna, contribuisce in modo determinante a configurare la natura di tale crisi, nei suoi risvolti sia negativi che positivi.

La “laicità” si presenta, infatti, anzitutto come un evento storico concreto di cui prendere coscienza nella sua complessità ed ambiguità nonché nei nuovi interrogativi che suscita per i risvolti inediti che va assumendo. Ad esempio: di fronte al superamento degli stati totalitari, alla crisi dello stato nazione, alla crescita delle minoranze religiose, qual è oggi il senso più appropriato della “laicità” dello stato democratico e pluralistico, nei confronti della religione, non solo professata in privato da singoli individui ma organizzata in comunità e chiese che reclamano riconoscimenti e diritti giuridici? Di fronte ad un ritorno del religioso sulla scena pubblica, inatteso dai teorici della “città secolare” e spesso invocato dagli stessi laici - almeno nella forma di “religione civile” – per supplire alla crisi delle ideologie ed allo sfaldamento di un ethos condiviso ritenuto indispensabile per la stessa vita democratica, è ancora oggi proponibile la classica tesi liberale del confinamento della religione nel privato individuale o non dovranno essere tentate forme di pubblico riconoscimento e di collaborazione? Di fronte al diffondersi del pluralismo religioso, anche con forme di religiosità molto differenti, fino ai limiti di ciò che può essere ancora inteso come religione, lo stato democratico dovrà unicamente assumere un atteggiamento d’indifferente neutralità o dovrà positivamente attivarsi per una pacifica convivenza tra le diverse religioni e per una loro concreta possibilità di dispiegarsi liberamente in pubblico e di contribuire attivamente alla vita democratica? E inversamente, fino a che punto e in che forme lo “stato laico” può permettere e/o regolamentare forme d'intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, che non siano residui anacronistici della concezione degli stati confessionali retti dal principio del cuius regio eius et religio? Ma anche: fino a che punto il principio democratico laico della tolleranza e/o del rispetto delle diversità culturali e religiose può e/o deve lasciar spazio a concezioni diverse dalle sue (e tra loro) del rapporto tra convinzioni religiose e politica, tra privato e pubblico? Problema, com’è noto, particolarmente urgente per il diffondersi dell’Islam in Europa, anche in forme di tipo integralista e fondamentalista, spesso del tutto aliene dal concetto e dalla pratica della laicità. Senza pensare al problema, non meno complicato e purtuttavia ineludibile nell’epoca della globalizzazione, della “esportabilità” o, meglio, della “universabilità” del modello occidentale di democrazia con il suo concetto e la sua pratica della “laicità” dello stato. “Laicità” non solo contestata dagli “stati islamici”, ma diversamente intesa nei vari stati, come ad esempio, in India, ove per il rispetto delle minoranze religiose e per la pace sociale è riconosciuta valida civilmente la tradizionale legislazione islamica per le comunità mussulmane.

E non è difficile scorgere come sullo sfondo di tali questioni traspaiano inevitabilmente, in modo esplicito o implicito, importanti domande filosofiche: che cosa sia la “religione”, se essa costituisca o meno lo sviluppo di una fondamentale capacità umana di ricerca e di individuazione di un senso ultimo, se tale capacità sia o no fonte di diritti inalienabili dell’uomo che lo stato democratico è chiamato a riconoscere e favorire come sente il dovere di fare per altre fondamentali capacità umane, di sviluppo intellettivo, estetico, ludico, relazionale ecc. E ci si chiede anche: in quanto si basa su convinzioni “di fede”, la religione ha o no titolo a partecipare al dialogo democratico, ove per un verso sembrerebbero consentite solo argomentazione di tipo “razionale” valevoli per tutti (ma chi decide ciò che è razionale e valevole per tutti?) e, per altro verso, ciascuno ha diritto di esprimere e far valere le sue convinzioni? Oppure: c’è qualcosa, nello stato democratico, che possa e debba essere sottratto o sottrarsi alla decisione della maggioranza? Oltre ai principi “irreformabili” che stanno esplicitamente alla base delle costituzioni democratiche moderne, vi sono vincoli di “leggi naturali” che possono essere invocati contro le decisioni legislative della maggioranza? Vi sono convinzioni etico-religiose personali o di gruppi minoritari che giustifichino l’obiezione di coscienza di fronte a decisioni legislative prese bensì con voto maggioritario ma ritenute eticamente sbagliate?

Non meno importanti le questioni teologiche in gioco. Non solo perché la “laicità” ha una storia all’interno del cristianesimo, ove il termine “laico” ha avuto la sua prima diffusione per contrassegnare positivamente chi non era chierico o religioso, ma anche perché la stessa “laicità” dello stato moderno sembra affondare le sue radici nell’originaria distinzione tra religione e politica implicata nella formula evangelica del “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Donde interrogativi attuali come questi: quali riserve di laicità sono rinvenibili nel nucleo originario del cristianesimo dopo la fine della “cristianità”? La separazione tra stato e chiesa, tra politica e religione, lungi dall’essere incompatibile con il cristianesimo non sarà addirittura esigita dal cristianesimo più radicalmente ancora che da altre religioni, e addirittura dallo stesso stato laico moderno? Non ha forse questo molte volte, ed in forme vistose ancora nel novecento, tentato di servirsi della religione ai suoi scopi, di strumentalizzarla o di perseguitarla? E la teologia cristiana non ha forse sempre più compreso e proclamato, al di là delle forme concrete che la politica ecclesiastica ha assunto ancora nel recente passato, che Gesù Cristo ha negato ai suoi discepoli e alla sua chiesa l’uso del potere e della forza politici per divulgare il suo Vangelo e le ha assegnato il mandato di essere-per-altri, per tutti gli altri?

Per altro verso, tenendo presenti le istanze delle più recenti teologie politiche e/o della liberazione, si può sostenere, in linea di principio, la tesi della neutralità o estraneità della religione cristiana nei confronti della vita politica? La carica profetica dell’annuncio evangelico del Regno di Dio tra gli uomini non possiede forse una straordinaria riserva di coscienza critica nei confronti della storia umana, delle prassi politiche che in essa emergono e delle ideologie varie con cui si cerca di giustificarle? D ’altra parte, a che punto è la riflessione teologica circa la cosiddetta “teologia del laicato”? A che punto quella sulla “legittima autonomia delle realtà terrene” (quali la politica, l’economia, le scienze ecc.) da norme religiose, riconosciuta dal Vaticano II e con ben più antica formulazione fatta valere nel pensiero protestante? Qual è l’esito odierno del cammino storico dei rapporti tra clero e laici rispetto al riconoscimento della responsabilità dei laici nella vita della chiesa come pure nei vari campi dell’attività temporale? E gli interrogativi potrebbero continuare a proposito di problemi al confine tra storia, filosofia e teologia. Ad esempio: qual è il senso odierno della laicità del “laico” occidentale (inteso qui nell’accezione del “non credente”) alla luce del celebre detto crociano “non possiamo non dirci cristiani”? La laicità del laico e la laicità del cristiano hanno o possono avere qualcosa di comune? Qual è stata l’origine e l’evoluzione storica del concetto moderno di “laicità”? Che dire del cosiddetto “laicismo”? È una forma d'assolutizzazione ideologica della laicità, una sua degenerazione dogmatica, o una comprensibile e doverosa reazione storica al “clericalismo”? Esiste uno spazio etico “laico” ove si possa instaurare il libero confronto democratico tra credenti e non credenti oppure la “laicità” è caratteristica solo dei non credenti? Ha senso ed è possibile un confronto tra credenti e non credenti sul piano della “ragione naturale”, sia pur reinterpretata come progressiva costruzione dialogica di un pensiero etico-politico condiviso? La progressiva formulazione e il progressivo riconoscimento, da parte degli stati e delle religioni, degli inviolabili diritti umani, sulla base del riconoscimento della dignità suprema di ogni essere umano, può considerarsi come una nuova forma di “diritto naturale” universale su cui fondare la pace e la convivenza civile nell’epoca della globalizzazione e del pluralismo culturale e religioso? Sia pur, ovviamente, con concretizzazioni o interpretazioni varie e molteplici, che la mentalità ermeneutica ci ha insegnato a considerare non solo come inevitabili ma anche come auspicabili?

Alla luce di tale o simili questioni gli atti del convegno offrono alcuni preziosi contributi di riflessioni su due principali versanti: quello storico-giuridico e quello filosofico-teologico. Sul versante più propriamente storico la relazione di Francesco Traniello, Peregrinazioni storiche della laicità, mette in luce la ricchezza semantica ed anche l’ambiguità del concetto di “laicità” nonché gli elementi che ne hanno riportato all’ordine del giorno il tema, mentre quella di Barbara Henry, Laicità e conflitti identitari. Laicità via toleration, dà una lettura delle origini storiche del concetto di laicità, in riferimento a quello lockiano di tolleranza, mettendolo a confronto con il problema attuale dei conflitti tra le varie identità, individuali e di gruppo, in cui si è inseriti e/o che si fanno valere in forme autoritarie o liberamente costitutive del “sé”. Il punto di vista giuridico-costituzionalista viene in primo piano nelle relazioni di Valerio Onida e di Barbara Randazzo. La prima, Le premesse storiche della laicità all’italiana, ripercorre le vicende storiche dell’interpretazione del principio di laicità nella giurisdizione dello stato unitario italiano, con particolare riferimento ai Patti lateranensi del 1929, al loro inserimento nella Costituzione repubblicana, ai problemi di interpretazione e/o di compatibilità affrontati dalla Corte costituzionale, fino alla revisione del Concordato del 1984, che sancisce il superamento del principio della religione cattolica come religione di stato. La seconda, “Le laicità”. Alla ricerca del nucleo essenziale di un principio supremo, esamina con attenzione il senso e la portata costituzionale del “principio supremo della laicità dello stato”, quale la Corte costituzionale italiana ha finito per strutturare con i suoi interventi, sposando una concezione “positiva” di laicità ispirata ad un sostanziale favor religionis sulla base di un uguale trattamento tra le confessioni religiose a parità di situazioni. Una “laicità all’italiana” che si differenzia da altre forme di laicità, come quella liberale classica o quella francese, e che oggi si confronta con quella che emerge nel contesto europeo ed è provocata ad aprirsi nei confronti delle nuove e molteplici forme del religioso. Una laicità che sembra avere in sé gli elementi per affrontare anche “nuovi problemi” come quello della ostensione “identitaria” dei simboli religiosi da parte di singoli o affissi in luoghi pubblici.

Particolarmente interessante, per il contributo da un diverso punto di vista storico-giuridico ed al tempo stesso teologico-cristiano, il contributo del teologo riformato Sándor Fazakas, Chiesa e stato nel contesto di una società postsocialista in trasformazione, che ripercorre le vicende storiche del rapporto tra stato e chiesa in Ungeria sotto e dopo il regime comunista e propone un ripensamento del problema della laicità che non si limiti al tema dei rappporto tra stato e chiesa ma veda entrambi responsabili rispetto a ciò che la società civile ha bisogno e si attende dalle loro rispettive competenze. Il contributo “filosofico” di un “laico” come Biagio de Giovanni, Cosa significa oggi laicità, è una decisa rivendicazione dell’attualità del principio della laicità in funzione di lotta contro la rinascita prepotente di paradigmi identitari e fondamentalisti quale reazione alla tendenza omologante del globalismo contemporaneo. Una laicità che va riscoperta come valore nelle sue radici in filosofi moderni come Kant ed Hegel, ma anche, più a monte ancora, nella teologia di Lutero, e che ha il suo risvolto più vitale non tanto nell’agnosticismo di un pensiero debole quanto nella ricerca della verità che pulsa nel riconoscimento reciproco delle differenze all’interno della comune umanità che ci lega. La relazione del teologo cattolico Giuseppe Ruggeri, nonstante la modestia del titolo, Alcune condiderazioni teologiche in margine alla concezione contemporanea della laicità, affronta con decisione la sfida che alle chiese cristiane pone l’odierno pluralismo culturale radicale, con la conseguente “laicità” come principio supremo della convivenza civile. Discostandosi dai termini con cui è stato impostato il famoso dialogo Habermas-Ratzinger, di cui pur dà ampia analisi, Ruggeri ritiene che la radicalizzazione del principio di laicità possa offrire alle chiese la possibilità di riscoprire l’originale universalità del messaggio cristiano, che non consiste in un insieme di valori comuni bensì nello spirito di assoluta accoglienza di tutti gli altri. Una prospettiva nettamente alternativa alla tentazione delle chiese e rivolta alle chiese di offrirsi come nuova forma di “religione civile” o di ethos condiviso, sul presupposto che la società democratica ne avrebbe bisogno per il suo stesso sussistere non essendo in grado di elaborarlo in proprio.

Questi brevi cenni ai contenuti e/o alle tesi centrali dei vari contributi sono ovviamente semplificanti. Essi vogliono unicamente essere un invito e una guida alla loro lettura, nella convinzione che siano non solo pertinenti alla attualità del tema e alla urgenza che esso ha assunto, ma anche per più versi illuminanti i termini e la posta in gioco del dibattito in corso.

Giovanni Ferretti