FILOSOFIA E TEOLOGIA
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Ciò che dà a pensare. Dovendo dare una figurazione alla propria filosofia, Paul Ricoeur, in un’intervista, è ricorso al famoso quadro di Rembrandt, Aristotile che contempla il busto di Omero (1653). Aristotele vi rappresenta contemporaneamente la storia del pensiero filosofico e sua una versione singolare. Nei suoi confronti, nel duplice significato accennato, siamo in una posizione di debito, ma non a motivo della cronologia che ci colloca storicamente dopo di lui bensì perché, come mostra l’antico filosofo rivestito di abiti moderni, il compito svolto da lui un tempo si rinnova oggi e l’impegno dell’interpretazione rincomincia sempre da capo. Pur evidenziando cromaticamente la figura del filosofo, la composizione, mostrando Aristotele nell’atto di posare la mano sul busto di Omero, suggerisce che la filosofia non vive in un mondo a sé e non inizia da zero ma da un senso dato e perciò il contatto con il lato poetico dell’esperienza umana, il lato della creazione di senso, le è necessario. La filosofia nasce in un’aura di senso da cui prende le mosse per svolgere il suo compito, incomincia da sé ma le sue fonti le sono esterne. Il contatto vitale con la «poesia», pur indispensabile, non determina tuttavia il pensiero. Infatti il filosofo guarda altrove, per quanto resti difficile stabilire la direzione dello sguardo e l’oggetto guardato: poesia e pensiero appartengono ad ambiti diversi, che non si confondono; Omero rappresenta quel mythos da cui il logos si diparte ma che è chiamato a riscoprire in una interpretazione creatrice di senso. “Il simbolo dà a pensare” – sempre da capo, inesauribilmente. Un particolare del quadro, infine, non deve essere trascurato: proprio sulla spalla di Aristotele è appuntato il ritratto di Alessandro Magno. La politica – la sua ragione e la sua forza – sono una responsabilità per il filosofo; il politico, nel senso categoriale e non solo effettuale, è parte costituente dell’umano e perciò richiede quell’intelligibilità che la filosofia non può non cercare di realizzare. Non solo il simbolo, dunque, ma anche la forza (e la violenza) danno a pensare. Per la filosofia il rapporto con il suo altro è essenziale. Il senso e la forza, a cui si deve aggiungere il vero delle scienze, il bello dell’arte e il sacro/santo della religione, costituiscono quelle esperienze da cui il pensiero attinge ma su cui ritorna nell’autonomia di un compito riflessivo e speculativo, critico e argomentativo.

Una filosofia del soggetto. Come realizza la filosofia il suo compito? Ricoeur si è riconosciuto e ha inscritto il proprio pensiero nella filosofia riflessiva, quella che da Socrate va ad Agostino, da Cartesio a Kant, da Fichte a Husserl e Nabert. Anche in questo caso tutto è già dato, ma tutto è da ripetere, se non altro perché la filosofia del soggetto continua ad essere contestata e occorre riqualificarne la possibilità e le pretese. Per realizzare questo progetto Ricoeur ha attraversato la fenomenologia e l’ermeneutica, che nella sua opera diventano variazioni sul tema del soggetto, più facile nel caso della fenomenologia, da inventare in quello dell’ermeneutica. Che cosa si può affermare del soggetto, o del sé come da un certo periodo in poi Ricoeur preferisce dire, dal momento che non si può più riproporre la versione assolutistica di Cartesio e ciò che ne consegue nella filosofia moderna, né se ne può accettare la dissolutiva frantumazione operata da Nietzsche e dai suoi epigoni? Anche in questo caso possiamo far tesoro di una breve meditazione proposta da Ricoeur su un altro quadro di Rembrandt, un Autoritratto del 1660, sei anni prima della morte del pittore, la cui carriera, forse non è un caso, corre quasi parallela a quella di Cartesio. Messo a confronto con gli autoritratti che precedono, se ne coglie la somiglianza e la differenza. Il tempo ha scavato le rughe sul volto e il pittore si rappresenta mostrando il lavoro degli anni mentre luce e ombra, come al solito, giocano in un accentuato contrasto. Nelle movenze del ritratto che il pittore fa di sé si nascondono alcune domande: perché e come è possibile un autoritratto? Che cosa ci permette di procedere all’identificazione? Che senso e che legame ha nei confronti di quelli che lo precedono (e lo seguiranno)?

La breve e incisiva lettura data da Ricoeur è quasi un commento – attraverso la deviazione pittorica – sulla possibilità stessa della riflessione del soggetto su di sé. La filosofia riflessiva è una forma di autoritratto del sé, del suo desiderio e del suo sforzo di esistere, del suo essere al tempo stesso idem e ipse, aperto attraverso il linguaggio e l’azione al mondo e alla relazione con l’altro oltre che con se stesso. Di questo soggetto Ricoeur ha messo in evidenza alcuni tratti: a differenza di M. Heidegger e J.-P. Sartre, l’accento cade più sulla nascita che sulla morte e dunque sulla sua capacità di iniziativa; la sua identità, che si mostra e si nasconde in una narrazione, è connotata dalla responsabilità morale; in termini antropologici l’attestazione che il soggetto ha e dà di sé può essere tradotta in termini di capacità a riguardo della parola e dell’azione, della responsabilità e della memoria. E se la lunga attenzione rivolta all’azione ha dato una preminenza a questo aspetto «interventista», la meditazione più recente ha bilanciato la descrizione con una sempre maggior insistenza sulla passività in tutte le sue forme. Il soggetto è un homo capax, agens et patiens. Per tutti questi motivi il cogito della filosofia riflessiva nella versione di Ricoeur diventa un cogito brisé e tuttavia in grado di cogliersi capace e dunque responsabile.

Nel mondo e nella storia. L’iscrizione nell’alveo della filosofia riflessiva potrebbe far pensare a un soggetto acosmico e astorico tipico delle filosofie coscienziali. Non è il caso di Ricoeur, per il quale del soggetto si può parlare solo in relazione al mondo e alla storia e attraverso la deviazione in ogni sorta di segni in cui la coscienza si proietta e si esprime. Alla tensione centripeta dell’attestazione, corrisponde la tendenza centrifuga della testimonianza che lo «disperde» nella storia. Per illustrare questo aspetto, sulla scia dell’indizio rembrandtiano ci prendiamo la libertà di attingere ancora al pittore neederlandese, a partire da una delle sue tele più famose e discusse, La ronda di notte (1642), un quadro ampio, innovativo, pieno di personaggi, ben diverso dai ritratti di gruppo dell’epoca, statici e celebrativi. Le persone raffigurate sono in movimento, in un’azione complessa, sfaccettata e piena di tensioni, dominabile nell’insieme ma anche fratta nelle masse che la compongono. In quel groviglio quasi inestricabile c’è anche lo spazio per la scomposizione sequenziale di alcuni movimenti (preparazione dell’archibugio). I personaggi sono storici, appartengono a una corporazione importante e potente, ma sono trasferiti in una dimensione che va oltre la cronaca; messi in movimento, squarciano lo spazio e il tempo con la loro vorticosa iniziativa. E che non sia solo una magistrale «fotografia di gruppo», lo rivelano alcune figure con tratti marcatamente simbolici (i due ragazzini in vesti femminili), che per la loro luminosità investono anche i personaggi «reali». Da un capo all’altro della ricerca di Ricoeur il tema unificante è stato l’azione e il soggetto è colto innanzitutto nella sua potenza di agire, sul piano individuale e su quello sociale. La stessa temporalità, grande capitolo del Novecento filosofico, è indagata a partire dall’azione e da ciò che ce ne permette la decifrazione, il racconto. Azione e linguaggio in tutte le loro stratificazioni e varianti, dunque, collocano il soggetto nel mondo e nella storia.

La ricerca sulla parola - la traduzione in atto del sistema linguistico – è un aspetto divenuto fondamentale e strategico. Solo se la parola può dire il soggetto, l’altro e il mondo, possiamo varcare quella soglia della prigione dorata che lo strutturalismo e talvolta la filosofia analitica gli hanno disegnato intorno, concentrando e risolvendo la realtà nel sistema dei segni. I confini del linguaggio e dei linguaggi, non solo quello ordinario o scientifico, sono invece i confini del mondo e del tempo. Nella parola, in particolare nella metafora, urge una veemenza ontologica che la apre al mondo, con tutti i suoi valori sensibili e patici. Il mondo però non prende senso solo dalla parola proferita dall’uomo ma anche dalla sua azione, anche se la parola è ancora necessaria per dire nel racconto l’azione che si distende nel tempo e da cui dipende l’identità del soggetto. Più si passa dal livello personale a quello intersoggettivo, più diventa difficile discriminare la struttura dell’agire umano, la trama delle casualità, delle responsabilità e degli effetti vicini e lontani. Andando al di là del racconto e della memoria, la storiografia pretende di metter capo in qualche modo a queste questioni, sia che si occupi di microstoria o di storia di lunga durata e il suo sguardo a distanza sembra alternativo a ogni pretesa di riflessività e di speculazione, ma con la cancellazione di quel tratto interpretativo che attraversa ogni sua operazione. Per una filosofia del soggetto la storia è sempre un capitolo impegnativo, quasi impossibile, ma non è questo il motivo per il quale Ricoeur propone di rinunciare a Hegel. Uscire dalla filosofia della storia non significa rinunciare a misurarsi con la storia; solo la filosofia impara a farlo più umilmente, per il tramite di una filosofia critica che si elabora a partire dalla stessa operazione storiografica, con l’impegno di connetterla tanto con la memoria quanto con l’oblio. Una certa felicità della memoria e dell’oblio non sopperiscono, però, all’estraneità alla storia che caratterizza la storicità stessa dell’uomo.

Dall’insieme delle riflessioni dedicate alla storia e al tempo, Ricoeur ricava un’ontologia della condizione e della coscienza storiche declinata in termini di debito, di iniziativa e di promessa. In ognuno di questi tratti si fa sentire un’eccedenza, sia nell’accogliere il passato ricco di possibilità non attuate, sia nel protendersi al futuro nell’impegno di una durata che nulla garantisce, sia nell’assumere il presente nel modo dell’iniziativa responsabile. Per espletare tutti questi compiti, dalla delineazione della condizione storica a una vera e propria ontologia o almeno a un suo abbozzo, è sufficiente l’impianto riflessivo? Solo al termine del suo lungo percorso Ricoeur ha osato esplorare ciò che peraltro era intravisto fin dall’inizio: l’indagine ontologica che chiude – e apre – Soi-même comme un autre ricorre a un complemento speculativo che al tempo stesso integra e svolge la stessa riflessione. Le metacategorie di atto e potenza, di medesimo e altro sono quelle che sorreggono l’intera indagine fenomenologica del sé e quella ermeneutica della condizione storica.

Un filosofo legge la Bibbia. Tirando le fila della ricerca sulla natura mimetica del racconto, Ricoeur giunge alla seguente conclusione al confine tra ermeneutica e ontologia: “a mio parere, il mondo è l’insieme delle referenze spalancate da tutti i diversi testi descrittivi o poetici che ho letto, interpretato e amato. Comprendere questi testi, vuol dir interpolare tra i predicati della nostra situazione tutti i significati che, di un semplice ambiente (Umwelt), fanno un mondo (Welt). È proprio alle opere di finzione che noi dobbiamo in gran parte la dilatazione del nostro orizzonte di esistenza” (Temps et récit 1 p. 121, it. p. 130). L’ermeneutica non è solo un capitolo della filosofia riflessiva ma un suo modo di articolarsi e realizzarsi, perché grazie al linguaggio – testo e lettura – approdiamo al mondo e alla vita. Nata intorno al simbolismo, l’ermeneutica di Ricoeur si è spostata, allargandosi, dapprima al testo e poi alla lettura, lasciando il simbolo sullo sfondo. Testo e lettura sono l’occasione per la fusione di orizzonti nel modo inteso da Ricoeur, il quale, rispetto a H. G. Gadamer che privilegia l’esperienza estetica, ha maggiormente evidenziato la configurazione testuale e il corrispondente atto di lettura. Testo e lettura diventano canone per qualunque interpretazione, la quale però può vantare una singolarità irriducibile al paradigma generale, in quanto le ermeneutiche regionali eseguono con libertà ciò che viene trovato e indicato dall’ermeneutica generale. È importante ricordare che nell’atto interpretativo il soggetto giunge a sé collocandosi davanti al testo e passando attraverso il testo. Per fare questo ogni approccio è utile e in qualche caso indispensabile, secondo l’adagio in cui si concentra tutta l’impresa: “spiegare di più vuol dire comprendere meglio”. Sulla base di questo assunto, grazie al quale Ricoeur cerca di oltrepassare lo iato tra spiegare e comprendere stilato da W. Dilthey e confermato da Gadamer nella contrapposizione tra verità e metodo, l’attraversamento del testo può far tesoro di tutto ciò che ne permette la più ampia misurazione ai livelli strutturale, semantico e storico.

Che cosa avviene quando si legge la Scrittura? Un altro quadro di Rembrandt, l’Autoritratto in veste di san Paolo apostolo (1661), permette di sorprendere un gioco di sovrapposizioni che si trova nello stesso Ricoeur e potenzialmente in ogni lettore. L’autoritratto che rappresenta un uomo quasi stranito con un fascio di carte in mano nell’atto di volgersi - a sé stesso nello specchio o ad altri? - assomiglia ai tanti altri, una quarantina, di tutte le età, nella catena che va dalla giovinezza all’estrema vecchiaia - sì, il soggetto invecchia, anche se il declino non impedisce alla vita di rappresentarsi. Questa versione però è particolarmente sorprendente, perché le linee dell’autoritratto giungono a coincidere con il ritratto di san Paolo in perfetta sovrapposizione. Perché offrire le proprie fattezze a san Paolo? È Paolo o Rembrandt a leggere (o scrivere)? E se il lettore è Rembrandt perché ha i tratti di Paolo? Si deve accettare che quell’uomo con le carte in mano sia al tempo stesso l’apostolo e lo stesso pittore, in una forma inusuale di identificazione e di autocomprensione. Ma non avviene qualcosa di simile in ogni lettura? Ricoeur è stato un attento lettore della Bibbia ed esploratore di quel mondo testuale, con una preferenza per il Primo Testamento. Si tratta di una lettura ben caratterizzata, en philosophe, non da esegeta né da teologo, ma ben informata di quanto soprattutto l’esegesi ha rivelato delle Scritture. La parola che diventa Parola spetta ad altri, al predicatore o al credente – e talvolta Ricoeur si è esercitato anche in questa funzione. En philosophe vuol dire un lettore che si lascia condurre da quella scrittura, che è la Scrittura in tutta l’ampiezza e ricchezza delle sue possibilità, alla ricerca del pensiero che lì è contenuto. La teoria dei generi letterari che a partire dagli inizi del Novecento ha liberato l’esegesi biblica da tanti lacci e impacci, diventa in Ricoeur la legenda stessa del testo. Il lettore per cogliere le virtualità di ciò che sta leggendo deve certamente ricorrere a chi quel testo decifra sul lato filologico e storico; ma quella parola deborda il proprio tempo e ha un senso che cresce in ogni tempo con il suo lettore.

Forse il contributo maggiore di Ricoeur è questa pratica di lettura, in cui il mondo del testo biblico e il mondo del lettore si intersecano in maniera polifonica. M. Bachtin ha coniato a proposito di F. Dostoevskij la formula di romanzo polifonico per segnalare che la voce dell’autore s’aggiunge e conversa con quella dei protagonisti. Analogicamente si può parlare di una lettura polifonica della Scrittura da parte di Ricoeur, sia perché lascia ai testi la loro voce propria nella diversità dei generi letterari e dei «protagonisti», sia perché accoglie generosamente e accuratamente nella lettura la storia della ricezione e la stessa voce del lettore chiamato a interloquire con il testo. Quest’ultima non è né può essere puramente passiva, anzi il massimo di ricettività coincide con il massimo di attività interpretante in termini di decifrazione di senso, di immaginazione e di iniziativa. Filosofia e teologia. L’ermeneutica biblica non esaurisce la questione dei rapporti tra filosofia e teologia e se a questo proposito ci chiediamo qual è stato il contributo di Ricoeur non è facile fare un bilancio. Infatti il lascito più cospicuo non è da cercare sul lato delle non molte affermazioni in merito ai rapporti tra filosofia e teologia, quanto nella teorizzazione di un’ermeneutica generale e di quella biblica in particolare. Di quest’ultima i saggi realizzati sono di una finezza del tutto singolare, in grado di collegare esegesi storico-critica, storia della ricezione ed estrazione di un pensiero che per la sua qualità e forza è una realtà di grande rilievo e interesse per la stessa ricerca filosofica.

Mossosi alla ricerca di un Dio filosofico, pensato in termini di Trascendenza al confine tra idea limite e esperienza limite a partire dalla libertà solo umana di un soggetto che vuole ma si trova anche preceduto, subito dopo egli opta per una formula che comprime la filosofia in un’assenza di assoluto e poi in una professione di agnosticismo, per disegnare e iniziare a delineare infine, negli ultimi anni, un rapporto simile a quello che più in generale stabilisce tra la convinzione e l’argomentazione. Ci troviamo dunque di fronte all’oscillazione di un pensiero che va da un dichiarato agnosticismo all’ammissione di una possibile convenienza, non tanto tra filosofia e teologia quanto tra la filosofia come Ricoeur ritiene si possa e si debba praticare e la fede biblica. L’agnosticismo, la filosofia senza assoluto, ha una qualche giustificazione nella molteplicità dell’alterità, tra cui potrebbe annoverarsi anche quella del Dio. Ma tale ricorsività non permette di privilegiare questa possibilità sulle altre. Si può osservare che si tratta più di un’affermazione che di una vera argomentazione, la quale però ha dalla sua i confini che l’ontologia del sé consente. Da un lato l’essere non può essere identificato con Dio e dall’altra la dispersione delle figure dell’alterità impediscono un percorso che sbocchi unicamente e inequivocabilmente su una qualche trascendenza divina. Su questo orientamento ha sicuramente influito il contesto culturale e istituzionale francese, con l’incombente accusa, talora diventata esplicita, di criptoteologia. C’era sicuramente una posizione personale, probabilmente di derivazione riformata, e una pratica dell’insegnamento che voleva demarcare nettamente la filosofia dalla teologia per evitare fraintendimenti e sconfinamenti.

L’ultima meta ha cercato di trovare delle assonanze o delle consonanze, ma forse quelle si davano già prima. Al proposito si può far tesoro di una considerazione che Ricoeur fa, soppesando complessivamente l’impresa di E. Husserl, nella cui opera distingue un metodo praticato, la descrizione fenomenologica, e un metodo teorizzato, l’idealismo fenomenologico. Un’osservazione analoga fa nei confronti di R. Bultmann, distinguendo l’opera dell’esegeta da quella del teologo. In entrambi i casi Ricoeur, dovendo esprimere una valutazione, sceglie a favore della pratica della descrizione fenomenologica e dell’esegesi. Lo schema potrebbe essere applicato allo stesso Ricoeur. L’approccio al testo biblico, sia nel versante analitico sia nel versante speculativo, è molto più ricco di quanto si trova poi cristallizzato in alcune formule. Il privilegio concesso al momento dell’esegesi, lettura in atto, rispetto alla teologia ha impedito una riflessione più articolata sulla stessa teologia. La definizione di quest’ultima solo in rapporto alla predicazione, di fatto non riconosce l’opera di pensiero che gli stessi sostenitori della tesi (K. Barth, E. Jüngel) riescono a comporre. La teologia è solo un’ermeneutica biblica ai fini della predicazione? Perché vietarle un qualche momento speculativo, analogo a quello su cui sbocca la stessa filosofia riflessiva? Nel metodo praticato rientrano le indagini dedicate ad alcuni temi biblici, che si segnalano per la novità dell’esame svolto, che non si limita ai dati consolidati dell’esegesi ma osa proporre un’interpretazione pensante del testo biblico, che ridonda sullo stesso pensiero filosofico. A parte merita un richiamo particolare il capitolo finale di La mémoire, l’histoire, l’oubli dedicato al perdono, capitolo strettamente filosofico nelle finalità e nella struttura argomentativa, nel quale però non manca l’eco di un orizzonte escatologico che ha una profonda radice biblica e anche teologica per la versione (origenista piuttosto che agostiniana) che si impone a Ricoeur.

Qual è l’apporto diretto che la teologia può accogliere da Ricoeur? Come si è detto, è l’approccio alla consistenza del testo sui cui il teologo lavora e alle imprescindibili qualità del lettore che vi si accosta. Certo il teologo non è soltanto un lettore qualunque bensì qualificato e tuttavia anch’egli porta in se stesso i tratti di quel sé che la lunga ricerca di Ricoeur ha cercato di illuminare. D’altra parte la rinuncia a Hegel suggerisce, se non di abbandonare definitivamente la categoria di Heilsgeschichte, almeno di adottarla con maggiori cautele, e questo non può non richiedere dei riaggiustamenti di diversi contesti. Il teologo o l’esegeta non sono soggetti «assoluti» davanti al testo e neppure nella storia della salvezza. Ci sono dei lutti che anche la teologia e i teologi debbono imparare a praticare, senza nulla togliere al loro compito di indagare ed esprimere quella verità che il kerigma – o meglio i kerigmata – sedimentati nelle Scritture ebraico-cristiane pretendono di esprimere e donare. Nello stesso tempo il teologo, proprio perché si occupa della verità del pensiero biblico, che pur non essendo di natura filosofica non è estraneo alla filosofia, può e deve partecipare all’agorà delle argomentazioni, al dialogo delle convinzioni e al conflitto – combat amoureux – delle interpretazioni. Per concludere su quest’ultimo tema, ricorriamo ancora una volta liberamente a Rembrandt e al suo Cristo risorto appare a Maria Maddalena (1638). L’interpretazione del noli me tangere è particolare, anzi sfuma nella meraviglia attonita di due sguardi che si sfiorano nell’evocazione di un nome che il muto quadro lascia comunque risuonare. Sulla tela si imprime la difficoltà del riconoscimento nell’attimo stesso in cui esso avviene. Il Risorto – che davvero è vestito ed equipaggiato come un ortolano, dunque un estraneo: chi avrebbe potuto riconoscerlo? – si presenta, si dà a vedere e al tempo stesso già si sottrae alla presa. Maria di Magdala nel voltarsi incontra lo sguardo del Maestro non direttamente ma davanti a sé. Alle sue spalle gli angeli, appollaiati sulla tomba vuota, hanno già fatto risuonare sul luogo dell’assenza il loro annuncio e sono ora testimoni di un incontro che si disegna nella luce diafana di un’alba nuova, che si spalanca su una sconnessione del suolo e nell’orizzonte di un vasto e popolato mondo. La frattura verticale del quadro e lo scontro di luce e ombra fissano il duello di morte e vita e il trionfo della vita di cui parla la sequenza pasquale.

In quel quadro, come nella filosofia di Ricoeur, è disegnato un incontro, un difficile ma possibile riconoscimento, nell’oscuro di un’assenza e nella luce di una parola di senso che nel loro farsi sia la filosofia sia la teologia possono lasciar risuonare. Quell’incontro è un compito che ancora appartiene a chi si lascia introdurre nella scena dipinta da Rembrandt ma anche a chi da lettore si sente amico di un pensiero come quello di Ricoeur che, proprio perché intensamente dialogico, chiede di essere continuato nel segno del riconoscimento, del debito inestinguibile e dell’interpretazione accurata e creativamente libera.

Oreste Aime