Il presente fascicolo
raccoglie gli Atti del Convegno su «Tramonto o trasfigurazione
del Cristianesimo? II: Crisi del Cristianesimo –
Crisi dell’Occidente?», promosso dall’AISFET,
col patrocinio scientifico del Dipartimento di Filosofia
dell’Università degli Studi di Milano e del
Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dell’Università
degli studi di Macerata, svoltosi a Milano dall’8
al 10 ottobre 2004. Questa riflessione era già
stata avviata nel convegno di Castelnuovo Fogliani, svoltosi
nel 2002 e dedicato al tema «Tramonto o trasfigurazione
del Cristianesimo?», titolo che è stato mantenuto,
come indicazione di una questione di fondo che ci pare
emergere dalla realtà e doveroso articolare. Naturalmente,
non intendevamo né intendiamo fare dei pronostici
sul futuro del cristianesimo, sotto il profilo della sua
dimensione e incidenza sociale e culturale in quell’Occidente,
la cui storia e cultura sono certamente fortemente segnate
dalla tradizione ebraico-cristiana (oltre che da quella
ebraica in quanto tale e da altre), non come unica ma
come prevalente; e, questo, nel bene e nel male. Non solo:
tale riferimento e segno si manifesta anche in quelle
forme ed espressioni culturali dell’Occidente che
si profilano come opposizione e rifiuto nei confronti
del Cristianesimo, oppure come traduzione del cristianesimo
in un altro linguaggio e registro, come secolarizzazione
di esso, come progetto di attuazione di esso in prospettiva
solo intramondana.
L’acutezza e attualità della questione che
l’abbraccio tra Cristianesimo e Occidente pone è
sotto gli occhi di tutti, anche nelle cronache sanguinose
del nostro tempo. Di tale abbraccio va verificata la reale
consistenza, storica e attuale, la coerenza, il senso.
Può anche, infatti, essere compreso come (e quindi
diventare) un abbraccio mortale per entrambi, in cui la
crisi dell’uno trascina e rafforza quella dell’altro,
per cui, come due nuotatori in difficoltà, annegano
insieme. Le questioni di fondo rimangono quelle che si
poneva il convegno di due anni or sono, segnalate dall’editoriale
di Giovanni Ferretti: «Secolarizzazione come rifiuto
dell’invasività del “sacro” o
come erosione totale della tradizione cristiana? Post-moderno
come crisi o come inveramento del moderno? Nichilismo
come radicalizzazione dell’ateismo e rifiuto di
ogni trascendenza o come riscoperta della costitutiva
finitezza e libertà umana? Complessità pluralistica
non solo socio-culturale ma anche religiosa nel tessuto
ormai unitario delle interrelazioni mondiali o crescente
omologazione culturale per la dilagante globalizzazione
dell’economia di mercato e dei suoi [reali o pretesi]
presupposti tecnico scientifici? In secondo luogo, anche
per la pressione sulla forma attuale del cristianesimo
operata dal nuovo contesto culturale non solo secolarizzato
ma religiosamente pluralista, la questione dell’
“identità cristiana” che si ritiene
di poter individuare “al di là” o “all’interno”
delle varie figure che il cristianesimo ha assunto in
passato o che potrebbe assumere in futuro; ( …)
problema, questo, che si intreccia intimamente con ciò
che si ha in mente quando si parla di cristianesimo in
Occidente: una “religione civile” funzionale
alla sua coesione sociale? Una comunità religiosa
istituzionalizzata che si è sviluppata nel contesto
dell’Occidente greco-romano? Una tradizione di valori
ed esperienze legate a Gesù di Nazareth, da cui
ampiamente noi occidentali proveniamo? Un’esperienza
mistica vissuta nella “fede” dei credenti
come un evento universale di salvezza?» .
Se il convegno precedente si è soffermato soprattutto
sulla comprensione critica del cristianesimo, quello attuale,
all’interno di tale quadro, intende soffermarsi sui
nessi tra la crisi del Cristianesimo e quella dell’Occidente
e sulla crisi come nesso tra Cristianesimo e Occidente.
Il che significa, per un verso, interrogarsi filosoficamente
sulle ragioni, la qualità, le componenti, il passato,
il presente, i criteri interpretativi le prospettive di
esito di tale crisi, non trascurando, per altro verso, il
rinvio alle fonti cristiane, e segnatamente bibliche, come
possibili riferimenti in cui rintracciare delle categorie
interpretative della crisi stessa. E l’uno e l’altro
esercizio vengono compiuti in presenza e nella tematizzazione
della concreta situazione storico-culturale attuale, geopoliticamente
determinata. Il tema viene quindi trattato secondo diverse
prospettive: teologica, filosofica, giuridica, storica,
nell’intento di tracciare un globale profilo culturale
e sociale della questione, così centrale per il momento
che l’intera Europa vive. Il nostro approccio in questo
convegno (così come è per la nostra rivista,
così per la nostra associazione culturale) non è
confessionale e il nostro intento non è - ciò
è ovvio per chi ci conosca, ma è bene sia
ribadito - né apologetico né controapologetico.
Neppure è quello, più che legittimo in altra
sede, di esprimere una preoccupazione per la «crisi
del cristianesimo» e cercare indicazioni per uscire
da tale crisi, non nel segno di dubbie restaurazioni bensì
nel segno di una riscoperta e di un rilancio del nucleo
propulsivo centrale. Ci siamo proposti, come sempre, di
capire, di trasformare un interrogativo immane e ricco di
ambiguità in una articolazione motivata, ragionata,
argomentata di questioni; di chiarire e arricchire le domande,
facendo colloquiare diverse prospettive di considerazione
e diverse posizioni. Le prime domande investono, come è
giusto che sia, i termini stessi e la modalità della
formulazione del tema. C’è davvero una crisi
del cristianesimo e in che senso? Che il mondo (occidentale)
si percepisca diffusamente come post-cristiano è
un fatto, ma tradurre questo in termini di «crisi»
è una precisa interpretazione, sul cui senso (più
che sulla cui legittimità) occorre riflettere: «La
stessa crisi del cristianesimo occidentale attaccato dalla
secolarizzazione, da un agnosticismo sempre più generalizzato
e dalla “morte” di quel Dio che dava senso e
unità all’esistenza, non è che un altro
segno della insufficienza dei linguaggi e della sintesi
a noi pervenute, (segno) appena velato dalla una rinascita
del religioso che appare tuttavia estremamente debole ed
effimera, perché ricerca di sicurezze. (…)
Ma non si può abdicare. Le pretese non sono più
totalizzanti, ma il frammento su cui si lavora non è
senza rapporto con ciò che è più grande
di noi» .
E vi sono due altre domande da tematizzare esplicitamente:
Che cosa intendiamo per «Cristianesimo»? Che
cosa intendiamo con «Occidente»? Quest’ultimo
riferimento è più tranquillo e ovvio. Esso
infatti è più trasparentemente un modo di
comodo per nominare riassuntivamente una serie di fenomeni,
anche disparati e discordanti, colti dall’esterno,
e che costituiscono un mondo: attraversato da tensioni e
contraddizioni, pieno di differenze, passate e attuali e
che pure ha un qualche significativo denominatore comune,
geografico ma soprattutto storico, di civiltà e di
nessi tra civiltà. Più complesso è
parlare di Cristianesimo. Ci sono infatti molti cristianesimi
e non solo, anzi non primariamente, in quanto esistono tre
grandi famiglie di chiese cristiane (la cattolica, l’evangelica,
l’ortodossa). Il convegno e l’associazione che
lo promuove non muovono da una tesi forte su che cosa sia
e che cosa non sia cristianesimo. Al contrario, anche in
questo caso il titolo si prende la libertà di riferirsi
in modo globale (non: globalizzato!) a una grandezza complessa,
composita di molti piani ed eventi, differenti e anche contrapposti,
ma in diversi modi riconducibili al un denominatore comune
di una radice o tradizione (magari tradita) condivisa. Ma,
soprattutto, si intende qui proporre un percorso alla fine
del quale si possa comprendere meglio quel che si intende
quando si dice cristianesimo. Come ci ha insegnato Adorno,
un concetto non si comprende in modo astratto, mediante
la sua definizione; per comprenderlo, occorre percorrerne
la storia; esso è, infatti, come la cifra della sua
propria storia, la porta con sé. In via previa, per
indirizzare i pensieri possiamo osservare che la comprensione
di «cristianesimo» ci indirizza in più
vie, tutte segnate da una interna dialettica.
Il cristianesimo ha (/i cristianesimi hanno) infatti un
riferimento normante nel fondamento (riduttivamente e impropriamente
compreso come ‘fondatore’) di esso (/i), che
è la persona di Gesù di Nazareth e la sua
predicazione, e nella tradizione del kerygma apostolico,
dell’annuncio su Gesù Cristo, depositata nelle
Scritture cristiane, il Nuovo Testamento, a sua volta rinviante
alle Scritture ebraiche, il Primo (già detto Antico)
Testamento. Ma il cristianesimo è anche la storia
delle sue attuazioni -più o meno fedeli, più
o meno traditrici e devianti- post-apostoliche. Il cristianesimo
è la storia interna della vita delle Chiese ma anche,
nel bene e nel male, la storia dei suoi effetti politici,
culturali, civili, sociali. È la storia della ricerca
della fedeltà al Vangelo e alla sua verità,
della ortodossia, ma è anche la storia di quelle
posizioni che le Chiese dominanti hanno poi qualificato
come eretiche. È la vita intima e segreta che viene
vissuta dai singoli credenti e dalle e nelle loro comunità,
ma è anche l’immagine di esso (e conseguenti
reazioni) che più o meno giustificatamene viene colta
da chi lo guardi dall’esterno. È la attesa
della venuta definitiva del Regno di Dio, oggetto dell’annuncio;
attesa operosa, riempita di opere suggerite dall’amore
di Dio in favore di tutta l’umanità.
Ma è anche (stato) la religione civile della parte
del mondo che ha reso propri satelliti le altre. Questa
è la storia della «civiltà della cristianità»,
ormai (felicemente) tramontata nel nostro oggi, in cui è
stata conquistata la distinzione degli ambiti e la laicità
della vita politica, sociale, civile. Ma è anche
l’attualità. L’attualità di una
richiesta che proprio la società secolarizzata, in
crisi di valori, sempre più rivolge alle Chiese:
di colmare un vuoto, di accettare di svolgere la funzione
di religione civile, anche indipendentemente dalla accettazione
e condivisione della intrinseca proposta di fede. Lusinga
cui è difficile resistere, ma l’accettazione
della quale potrebbe essere quell’abbraccio duplicemente
mortale di cui si parlava all’inizio. Un cristianesimo,
in tal caso, definito (e sfinito) dall’Occidente più
che un cristianesimo che lo costituisce (come accadde con
Costantino: fu l’Impero a conquistare il cristianesimo
e non il contrario). Un Occidente che in buona (?) o cattiva
(strumentale) fede ritiene di difendere se stesso difendendo
il cristianesimo, nel senso di rifiutare ciò/chi
cristiano non è, disconoscendo al tempo stesso la
complessità della sua propria identità; un
Occidente che non tanto sceglie il cristianesimo, ma che
si aggrappa alla scorza esterna di esso, non disponendo
di categorie culturali che gli consentano di vivere un pluralismo
che non sia smarrimento e spaesamento e che non trova (o
non vuol trovare) nella elaborazione teologica cristiana
un sufficiente aiuto ad uscire dalla logica della paura
e della difesa in termini di arroccamento identitario, per
accedere invece a quella relazionale, del colloquio delle
differenze.
Di tale colloquio e della sua fruttuosità, anche
e soprattutto in ordine alla comprensione del nesso problematico
in oggetto, attestano anche e proprio i lavori del Convegno.
Rinviando alla lettura meditata e approfondita dei singoli
contributi, la cui specificità e ricchezza non si
lasciano ridurre alla dimensione di sia pur preziosi e ben
calibrati frammenti atti a comporre il disegno unitario
di un mosaico, si possono però, senza forzature sistematicistiche,
rintracciare attenzioni e coglimenti problematici, come
delle linee di forza che attraversano i diversi interventi,
variamente li intrecciano e si intrecciano attraverso di
essi, aprendo così il passo a nuove interrogazioni
e a interrogazioni per più versi nuove. Il pensiero
della crisi non può che essere un pensiero nella
crisi, nella crisi del Cristianesimo, nella crisi dell’Occidente;
un pensiero, quindi, messo esso stesso in crisi (cf. Mario
Ruggenini, Didier Franck, Philippe Capelle, Piero Coda).
La riflessione sulla crisi, d’altra parte, deve farsi
interrogazione critica sul suo senso. La Bibbia ci offre
qui un modello paradossale; Israele infatti si fonda come
comunità non a partire dai suoi successi ma dalle
sue crisi: denunciate dai profeti, in quanto portatori di
un verbum externum; e ciò offre un paradigma del
modo di essere della chiesa cristiana coram Deo (Daniele
Garrone). Dunque, la crisi non come eccezione, disturbo
da superare, bensì come componente e stimolo del
cammino: ciò significa superare palesi o criptici
modelli di tipo continuistico, che presuppongono una visione
di filosofia della storia che pure, consentendo con la filosofie
del Novecento, rifiutano sul piano esplicito e ciò
consente anche di non restare prigionieri senza alternativa
nella strettoia dello schema che vede il cristianesimo esser
messo in crisi dalla secolarizzazione. Questo comporta non
la negazione della crisi ma il superamento di una sua sovrainterpretazione
come indizio della fine del cristianesimo e un rilancio
della possibilità di osare oggi la scommessa sul
senso e di rintracciare il senso dell’oggi; il pensiero
nel tempo della crisi diviene, nella crisi, pensiero del
tempo e del dono della sua apertura (Daniele Garrone, Ugo
Perone, Philippe Capelle, Virgilio Melchiorre). Su questa
linea si era espresso al convegno anche Andrea Milano, il
cui contributo non appare purtroppo nel presente fascicolo.
Il nome segreto della crisi oscilla tra morte, assenza,
silenzio: morte del senso, morte di Dio; assenza del senso,
assenza di Dio, silenzio di Dio: nella duplice declinazione
del destino dell’Occidente e di quello del Cristianesimo.
Una produttiva insecuritas che accomuna questo due ultimi
e che innerva anche tutti i contributi. Ma morte, assenza,
silenzio sono categorie non interscambiabili e delineano
una possibile alternativa interpretativa di grande portata:
questa può essere meglio colta facendo interagire
diversi interventi che particolarmente la mettono a tema
(Didier Franck, Ugo Perone, Virgilio Melchiorre). Nel rapporto
tra Cristianesimo e Occidente, in crisi al loro interno
e nelle modalità del loro relazionarsi, sono in ogni
caso in gioco l’autocomprensione e le modalità
di esercizio del logos e il modo di intendere la verità
(Mario Ruggenini, Ugo Perone, Francesca Brezzi, Piero Coda,
Giorgio Palombo, Baldassare Pastore). Il Cristianesimo e
la sua storia possono essere indagati seguendo il rapporto
tra testimonianza alla verità della Croce e pretesa
di una Gloria intesa come potere della e sulla verità
(Mario Ruggenini). Il confronto tra occidente e cristianesimo,
entramb, pur tra mille contraddizione, custodi del senso
della indisponibilità della verità dell’uomo
e di Dio, può rinvenire una nuova figura di sinergia,
a condizione della adesione alla nostra finitezza: nella
rinuncia a far di Dio uno strumento di identificazione e
insieme nel rifiuto sia dell’idolo della religio vera
sia della trasformazione della insicurezza in un nuovo idolo
e nuovo assoluto (Giorgio Palumbo). Spogliati della autoidolizzazione
e liberati dalla forma simbiotica della cristianità
(Piero Coda) Occidente e Cristianesimo, ragione e religione
possono, invece che lottare tra loro come bestie ferite
(Paul Ricoeur, citato da Francesca Brezzi), ritrovare una
modalità laica e pluralista di far fronte comune
contro la perdita del senso; l’assenza diventa richiamo
che inquieta verso l’altro (Giorgio Palumbo) e, da
condanna, Babele può diventare una benedizione, se
ci spinge a cercare ancora, abbracciando l’esperienza
religiosa (e anche non religiosa) di altri (Francesca Brezzi).
Ciò implica e richiede un nuovo paradigma di rapporto
tra le pluralità e un nuovo modo di interlocuzione
della ispirazione religiosa nello spazio pubblico, una interlocuzione
centrata sulla condivisibilità e universalità
della argomentazione e non sulla monologia (Baldassare Pastore).
Il pluralismo culturale, la multietnicità, che caratterizzano
il nostro presente, all’interno dei nostri Paesi e
dell’Europa possono esser visti come in questo senso
come stimolante chance di crescita nella comprensione e
prassi dell’umano, invece che come lamentevole gravame
congiunturale. Il logos può e deve riscoprire la
carne, vale a dire l’umano, che significa storicità
e alterità, e così essere aperto al soffio
dello Spirito (Piero Coda). Ciò non significa la
dismissione della ricerca della verità, bensì
il riconoscimento della modalità in cui tale ricerca
è possibile per chi, nella limitatezza e prospetticità
in cui lo situano il tempo e lo spazio, non possa che declinare
per tracce e rinvii quella anticipazione totale del senso
accolta nel cuore, in forza della immanenza dell’oltre
nel dentro. Per questo, è importante ritrovare parole
ricche di memoria e di potenza simbolica, uscendo dalla
ripetizione letterale di simboli ormai non più significativi
(Virgilio Melchiorre). Questa attenzione, giustamente sottolineata,
è contigua anche al tema del come la riflessione
filosofica si rapporta alle espressioni bibliche. Un intervento
(di Pius-Ramon Tragan) nella discussione conclusiva del
convegno ha sottolineato l’esigenza che, in particolare
i filosofi, pongano una particolare cura nel modo di richiamarsi
ai testi biblici, per evitare di fare del testo un pretesto
e coprire il senso e i sensi della pagina scritturistica,
ricostruiti innanzitutto su base storico-critica, con prospettive
interpretative ad essa posteriori, estranee, ormai sclerotizzate,
senza più capacità di significazione e di
interpellanza.
L’attenzione a non reificare i contenuti del logos
giova a risolvere anche sul piano giuridico il dilemma del
simbolismo, ossia la tensione tra religione e linguaggio:
là dove menzioni esplicite del sacro lo immiseriscono
facendone, invece che motivo di coesione, oggetto di contesa;
ciò non vuol dire negare la presenza di ispirazioni
cristiane incarnate sul piano antropologico né confondere
la laicità con un laicismo della sfera pubblica che
neghi agli individui il diritto di essere accolti e riconosciuti
anche con le loro peculiarità religiose (Baldassare
Pastore). Sul tema della disputa giuridica intorno alle
radici cristiane nel Trattato costituzionale europeo era
intervenuto al convegno anche Francesco Margiotta-Broglio,
il cui contributo non compare in questi Atti.
Il tema è stato esaurito? Si è giunti a una
conclusione? Certamente no. Tuttavia, non solo si sono spiegate,
articolate, complessificate e così rese più
perspicue le questioni poste, bensì sono anche stati
offerti nuovi vertici di considerazione del problema; sono
state delineate piste su cui la ricerca può proseguire;
è stata messa in luce la ineludibilità di
tale nesso problematico per comprendere lo stato e il destino
non solo del Cristianesimo, ma della cultura e mondo occidentali.
E si è rinvenuta una traccia di metodo: nel senso
di individuazione di una via e di un modo di percorrerla
che fanno avanzare nel cammino. Il riconoscimento dell’altro
sotto il segno della compassione, nella condivisione della
finitezza e insieme della affermazione di irrinunciabili
diritti umani: questo il segno su cui si può costruire
sul piano giuridico un nuovo universalismo che non neghi
la pluralità (Baldassare Pastore).
Ma questa è in filigrana anche la stessa logica
che presiede alla possibilità di un nuovo rapporto
tra occidente e cristianesimo; tra tradizione religiosa
e ragione filosofica, tra diverse prospettive interpretative
che né rinunciano al criterio e alla ricerca della
verità né pretendono di disporne o di esaurirla.
Il colloquio tra i testi che il presente fascicolo racchiude,
e nel quale è inclusa anche la eco della ricchezza
delle discussioni avvenute durante il convegno, ci sembra,
pur nella limitatezza, un modello esemplare di tale possibile
procedere.