FILOSOFIA E TEOLOGIA
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A vederli allineati nello scaffale della biblioteca, i dieci volumi di questa rivista, ciascuno di circa seicento pagine ed a volte più, privi di assenze o “salti” nella osservata scadenza quadrimestrale, quasi non si crede. Non ci si crede perché all’inizio, come capita in casi simili, l’idea di realizzarla costituì quasi un pari del gruppo sparuto di fondatori, un piccolo numero di studiosi di filosofia e di teologia privi di risorse e di esperienza ma forti di buone intenzioni e di ottima volontà, con l’appoggio determinante di un editore coraggioso. Da allora qualcuno ci ha dolorosamente lasciati per sempre, qualche altro ha preferito, dopo un po’, proseguire per la sua via, mentre i più rimasti con fiducia al loro posto si sono ritrovati negli anni piccola parte di un nutrito drappello di redattori, collaboratori, simpatizzanti, sparsi in tutta Italia, che ora si assumono insieme la responsabilità dell’idea e del suo sempre possibile novum.

Filosofia e teologia, dunque, per la prima volta in Italia in vesti "laiche" e con prospettive "ecumeniche". Nata da spirito scevro di pregiudizi, come a distanza di tempo val la pena di ricordare, e da una apertura che, almeno fino ad oggi, non è venuta mai meno rappresentando certo una delle ragioni della sua riuscita. Apertura non priva però di un indirizzo ideale che, rispetto alla prima più generale delineazione, si è venuto precisando poco a poco grazie ad un continuo lavoro di discussione e di ripensamento, intenso ma sempre molto sereno sia nel consenso, sia in qualche inevitabile dissenso. Grazie a quell’indirizzo è stato possibile evitare, almeno entro certi limiti, l’assenza di criteri fermi…» che provoca nelle riviste, avvertiva Benedetto Croce quasi un secolo fa (1902), presentando la sua laicissima ma anche personalissima Critica, «un’ineguaglianza è un’ anarchia di giudizi che le fa somigliare talvolta a botteghe di caffè, dove ciascuno si rechi a dire, o a gridare la propria opinione o impressione». Non v’ha dubbio che per chi si sia sforzato di definire il progetto, comporre la relazione tra uno e molti ed evitare la pratica troppo sbrigativa della «bottega di caffè», abbia costituito in molti casi il compito più arduo della periodica configurazione dei fascicoli.

La storia della cultura italiana, nel secolo che va spegnendosi, è stata caratterizzata meno dalla presenza di grandi ed isolate personalità in grado di meritare un proprio seguito, che da gruppi intellettuali riuniti intorno ad una rivista e identificati da essa. Fenomeno, questo, non solo italiano ma che da noi ha acquistato coloriture e toni specifici, per via di una storia – in fondo breve, se si parte da quella della «nuova Italia» – di divisioni religiose, di arroccamenti ideologici, di contrapposizioni accademiche, di facili e frequenti incomprensioni, il tutto sovente accompagnato da un senso di orgoglioso sdegno e, ad un tempo, di superficiale accomodamento verso l’idealmente estraneo, lo studioso di altra provenienza. La rivista crea un clima di solidarietà, dà vigore ad una tendenza, segnala un esigenza della vita morale e intellettuale e tutto sorregge con il metodo della periodicità, la costanza di una presenza e la capacità di rappresentarla in forme e modi corali. Riviste di letteratura, di politica ed umanità, di filosofia, di arte e di poesia, oltre che di militanza religiosa o etico religiosa – a differenza di quelle tecniche o di informazione scientifica o accademiche – sono divenute nel tempo punti di riferimento indispensabili alla vita della nostra cultura. Testimonianze che lentamente, talora con programmatico spirito di rottura, scavano come talpe gallerie sotterranee in quella che un tempo si chiamava la vita spirituale di un popolo, per indicare qualche volta uscite diverse, novità decisive nelle vie battute dai conformismi dell’intelligenza riconosciuta. Piccole o piccolissime talpe dunque anche quando si limitano a segnalare l’effimero passaggio di una idea, di una prospettiva che nasce e muore con loro.

«Una rivista la cui attualità non abbia pretese storiche non ha ragione di esistere» scriveva Walter Benjamin nella presentazione del suo desiderato ma fallito «Angelus Novus». Qualcosa di simile a questo monito preoccupò dall’inizio fondatori e redattori di «Filosofia e Teologia». L’attualità è però un riferimento ambiguo, come ambiguo fenomeno del nostro tempo è l’attenzione per il religioso, tanto diffusa quanto oscillante tra il serio interesse e la vaga curiosità. Una parte della filosofia, quella ad esempio che intrattiene ancora buoni rapporti con le teologie filosofiche del passato, ma anche parte del pensiero che si riconosce nei risultati delle scienze positive, non dispregia di tornare ad occuparsi di questioni che riguardano Dio, la fede, le fedi, in ogni modo ciò che si dice generalmente il religioso, favorendo occasioni di colloquio tra sapere laico e riflessione teologica. Dal canto loro, attingendo frequentemente ai concetti delle filosofie e delle epistemologie contemporanee, le teologie corrispondono all’esigenza, legittimandosi qua e là come voce accolta ed ascoltata nel dibattito tra i saperi. C’è chi si rallegra di tale situazione, e certamente il fenomeno giova alla presenza di riviste come questa ed alle attenzioni che discretamente richiama su di sé. Peccato che sulla soglia di troppe porte dischiuse verso "l’Altro" non sempre veglia il custode della verità. Dove infatti abitualmente si sorride sul mistero della verità, oppure non lo si riconosce come più essenziale delle stesse fedi che ne possono essere testimonianza, – il dialogo tra teologi e filosofi non sboccia, o s’avvia lungo percorsi che non conducono da nessuna parte. La porta socchiusa si chiude allora inesorabilmente. In un mondo di pensieri senza verità, nel quale ciascuno si è abituato a contare sull’autonomia del proprio intelletto, l’attualità dell’interesse per il religioso confina facilmente con l’inattualità, peraltro tradizionale in questo ambito di cose. Si ripete la storia di sempre, il conflitto tra scepsi e dogmatica, fede e sapere critico, profezia disarmata e conoscenza interessata. Se è così, la «pretesa storica» di una rivista che assume a proprio fine il colloquio tra filosofi e teologi – o della filosofia con la teologia – non ha alternative. Deve accettare le barriere vecchie e nuove che separano le dottrine dei filosofi dalle dogmatiche confessionali, o limitarsi alla sterile fatica di ridurle provando a conciliarle.

Altrimenti sceglie la via dell’invito. Invito aperto ad una interrogazione non metafisica né dogmatica intorno alla verità, della quale sempre più numerosi sono quelli che come Pilato si domandano perplessi: «Ma che cos’è?». L’invito non riguarda il suo essere «cosa?, ma solo un metodo adeguato a decifrarne e interpretarne i segni sparsi un po’ dovunque e per lo più nascosti nei pensieri e nei linguaggi del tempo. Perché se può darsi una fede senza verità, soltanto un segno di verità può sperare di diventare un futuro seme di fede. E, nel frattempo, occasione di un genuino domandare dialogico da parte del filosofo come del teologo. Non è la verità manifesta e nascosta nel mondo e nella vita dell’uomo? E non è la parola il luogo più originario di questo manifestarsi? Non ha torto chi la ritiene un essenziale crocevia in cui la tradizione greca della aletheia filosofica incontra quella ebraica e cristiana della rivelazione del Dio che parla al Suo popolo. Fino al verbum caro: annuncio fondamentale della fede cristiana, verità che si rivela come mistero escatologico della vita del mondo. Null’altro che questo il significato dell’invito. Il religioso si lascia riscoprire sempre in epoche di decadenza, quasi naturale contrappeso alle angosce latenti circa il presente ed il futuro. Anche attraverso la memoria, per lo più nebbiosa, dell’Angelo può infatti come un lampo baluginare una speranza ed un’ attesa di autentico futuro per la fede, il pensiero e l’esistenza dell’uomo. Si sa: l’annuncio angelico della parola accade nell’obbediente «si» di Abramo, quanto attraverso la lotta di Giacobbe. L’obbedienza e la lotta possono considerarsi metafore di una storia perenne: quella della fede semplice, e della libertà umana del giudizio che le oppone resistenza. Metafore ed ancora segni dell’altra storia, quella della parola sottomessa ed obliata nei linguaggi. La parola non è il linguaggio tutto umano ma il suo prima, il suo donde misterioso ed originario. Raccoglierne l’appello come quello di una presenza senza voce resta perciò un lavoro difficile, paziente e lungo, molto lungo, che solo una rivista oggi può assumersi la responsabilità e la speranza di svolgere, sapendo di non poterlo portare a compimento veramente mai. Tradurre e interpretare gli eventi della parola, delle parole che stanno prima dei saperi, e perfino prima delle distinzioni istituzionalizzate di filosofia e teologia, ma pure in essi, questa forse l’idea essenziale che la rivista ha sostenuto, convinta che la verità può farsi novità solo nel mondo dei linguaggi ‘storici’ e attraverso essi.

Tutto ciò, occorre ribadire, non già perché la parola costituisca un logos dogmaticamente assoluto, ma perché inesauribile nella sua originarietà per un pensare finito. E non già perché la parola sia unicamente quella della fede, ma perché né la fede né l’esercizio di comprensione dell’intelletto possono miseramente prescindere dal suo mistero e dall’orizzonte di verità in cui accade nel mondo. Gli umanismi linguistici non errano concependo il linguaggio come proprium dell’uomo, dimenticano però che il mondo dell’uomo ed il senso originario dell’essere che coinvolge la parola sono sempre presupposti rispetto ad ogni sforzo di autogiustificazione discorsiva del linguaggio. Professare l’arcano come limite immanente della parola e questa come pura alterità del discorso che la dice, affermando o negando riflessivamente se stesso, questo l’ulteriore e ‘storico’ compito di una rivista come la nostra, che ripropone antiche ed obliate domande all’intelletto che già da tempo sa di appartenere all’epoca della «morte di Dio». L’arcano della parola non è l’esoterismo o il mistico, il silenzio – ed il bianco – che l’avvolge e ne separa le lettere, come pensarono alcuni cabalisti, o almeno non è unicamente questo. Ma l’aperto di una ‘lingua’ che tutti i linguaggi, anche scientifici, presuppongono e parlano nella pratica della comune razionalità comunicativa ed epistemica. Cercando l’enigma della parola nelle parole del linguaggio, il silenzio della verità nel rumore dei delitti e contraddetti, dei discorsi e delle grida, l’Altro nel medesimo intramondano, la via ermeneutica è diventata l’unità metodica, filosofica e teologica, di un cammino mai "perfetto" verso la memoria della verità.

Da questa rivista tale via è stata scelta dall’inizio ed ancora ne guida i piccoli passi dai quali nasce la speranza del novum che in ogni momento può toccare la fede ed il pensiero.

Giuseppe Zarone