Il tema cui è dedicato questo fascicolo, e prima ancora la consueta riunione plenaria dell’Associazione Italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia[1], ritrascrive con una specifica angolatura una delle questioni fondamentali che ha sempre attraversato il nostro dialogo di filosofi e teologi. Tra filosofia e teologia non vi è infatti corrispondenza né equazione, ma rischioso e arrischiato sforzo di bilanciamento: una non solo non dice ciò che l’altra vorrebbe, ma vi resiste; l’altra non solo costruisce su fondamenti che l’una vorrebbe quanto meno vagliare, ma pretende di derivarne una comprensione dell’uomo e del mondo che si estende fino alla filosofia. Tra filosofia e teologia sussiste dunque una singolare relazione, un rapporto, per così dire, sghembo e claudicante. Proprio così, però, in questo indiscreto mettere in luce da parte di ciascuna le debolezze dell’altra, accade che si sia costretti a riconoscere quanto la relazione possa giovare a entrambe e consenta loro di affacciarsi oltre i propri limiti[2].
Anche i protagonisti di questa singolare avventura culturale che prese le mosse oltre 30 anni fa sono affetti dalle medesime provvidenziali debolezze: sono credenti e non credenti (dove la congiunzione non sempre ha valore disgiuntivo); sono filosofi e teologi (dove la congiunzione non sempre ha valore disgiuntivo). Zoppicando, procedono. E non a caso hanno pensato per il tradizionale incontro seminariale a un tema anch’esso dotato di un equilibrio affatto precario.
Di una prossimità e di una distanza di Dio si può infatti dire in molti modi.
Il primo, che ciascuno può riferire alla propria personale esperienza, mette a fuoco la vicinanza o la lontananza di Dio. Vi sono pagine mirabili, scritte da credenti, che descrivono il silenzio di Dio, così come vi sono pagine commoventi, che anche non credenti hanno dedicato al desiderio di una presenza di Dio. Il Dio nascosto – da Pascal alla teologia – è un leitmotiv della letteratura religiosa, ma non mancano testimonianze – penso ad esempio alle pagine di Sartre scritte su richiesta dei compagni di prigionia – dove in Gesù Dio appare vicino, «qualcuno – come Sartre appunto scrive – che si può toccare e ride».[3]
Ma quest’esperienza della vicinanza e della lontananza di Dio è apparsa tanto alla filosofia quanto alla teologia troppo soggettiva per permettere di eccedere riflessivamente la narrazione di una privata percezione. Filosofia e teologia si sono mosse dunque in una direzione, per così dire, oggettiva, dove della prossimità e della distanza non si dicesse a partire dall’esperienza che i soggetti ne fanno, dove il discorso non si limitasse a esplorare un’esperienza della soggettività, quel punto delicatissimo – forse però immaginario – in cui l’io incontra in sé qualcosa che lo eccede. Hanno perciò considerato il genitivo (di Dio) come soggettivo e hanno tentato non una descrizione del nostro esperire Dio, ma una comprensione della natura di Dio, di quell’essere perfettissimo e incommensurabile, del quale però si afferma il coinvolgimento nel mondo (come creatore, come salvatore). Infinitamente lontano, ma non per questo indifferente, perché al mondo ha dato origine o lo attrae a sé.
E tuttavia questa strada, squisitamente metafisica, ci appare oggi difficile da intraprendere, perché presuppone un armamentario concettuale a cui riesca, per propria forza, di istituire una relazione tra il finito della nostra esistenza e la perfezione di quell’essere sommo, che o resta inaccessibile o si riduce a concetto. O resta così distante da non significare nulla o diviene così prossimo da essere non più che un utilizzabile.
Ma così la tensione di prossimità e distanza rischia di apparire un semplice materiale per la psicologia o un pleonastico gioco intellettuale. Non si annuncia nondimeno in essa qualcosa di fondamentale per tutti noi, ossia che l’esperienza di ciò che avvertiamo come decisivo (nell’esperienza religiosa, appunto Dio) è al tempo stesso qualcosa di rassicurantemente prossimo e che sorregge la nostra quotidianità, ma anche qualcosa di così irriducibilmente distante da sfumare in ideale e assumere financo i tratti dell’illusione?
Forse però vi è anche altro modo per rendere almeno ragione di questa duplice e chiasmatica affermazione. Esiste nei fatti una religione che pretende di dire di Dio con parole che si presentano come rivelate. Esiste cioè un dire di Dio che, pur nella forma di una mediazione umana, afferma di sé di essere rivelazione, ossia manifestazione di un vero che le parole non producono, ma solo attestano. E questa rivelazione si configura non come il disvelamento di un altro mondo, ma come un’attualità coinnestata nella storia. Questa rivelazione – di cui è legittimo sottoporre a esame la fondatezza non solo storica ma la plausibilità teoretica – ha essa stessa la forma di una distanza e di una prossimità. Prossima come tutte le parole, si dice provenire da una sorgente che non è in nostra disponibilità.
Di fronte a ciò una via produttiva per esplorare tutte le articolazioni di questa prossimità/distanza è, in luogo di una semplice descrizione esperienziale e/o di una definizione concettuale, quella di scavarne in tutte le direzioni significato e senso. Come ben si può comprendere, è questa la via ermeneutica, e più precisamente di un’ermeneutica dell’esperienza religiosa, così come essa ha preso forma nella nostra tradizione.
Alla fine di quest’esplorazione non è automaticamente deciso se quella pretesa del rivelarsi qui e ora di un contenuto che eccede il qui e l’ora sia tale da poter essere accettato dalla nostra ragione. Questo passaggio eccede la filosofia, ma anche la teologia, segue o precede l’una o l’altra. E tuttavia ha il merito di concentrare l’interesse sul senso di quel dire. Forse, del resto, non è in potere né della filosofia né della teologia di decidere sulla verità di un asserto, quanto piuttosto di esibirne appieno il contenuto, il senso di verità che contiene.
Con questo parole introducevo il convegno, di cui i contributi che seguono sono testimonianza. Le ripropongo qui come editoriale di questo fascicolo, perché esse, ben prima di essere una sintesi delle numerose relazioni che seguono, sono traccia delle aspettative che ci avevano guidato nella preparazione dell’incontro. In fondo il compito di un editoriale è anzitutto di illustrare la domanda che soggiace alla presentazione di un fascicolo di rivista. Chi si avventuri a procurarselo e a leggerlo è guidato dalla risonanza che il titolo del numero suscita e dalla fiducia che gli autori che vi si esprimono sappiano essere all’altezza della questione. Anticipare in questa sede, a cose fatte, all’indomani di un convegno e della raccolta dei saggi che l’hanno animato, le risposte significherebbe però banalizzarle, quasi che si dovesse, come in una conta, raccogliere chi si pronuncia piuttosto per la vicinanza e chi si attiene invece alla sua distanza.
Del resto, e ne darà conferma chi si accinga a leggere non solo le relazioni principali, ma i numerosi e variegati contributi dei partecipanti, non questo è accaduto, ma piuttosto alla domanda di origine e anche ai suoi brevi suggerimenti è stata fatta subire una torsione che, come ben si conviene in filosofia e in teologia, ha fatto apparire nuovi orizzonti.
Di questi converrà ora brevemente dire, perché essi rimescolano le carte. Sembrava infatti che nella formulazione apparentemente neutra del titolo del convegno («Distanza e prossimità del divino») fosse impregiudicato chi è Dio e che Dio, come già Anselmo lasciava intendere, fosse lo stesso sia per chi lo affermi sia per chi lo neghi. È divenuto chiaro che invece già proprio lì, in quel termine che fa da soggetto alla questione, si annida il punto di divaricazione. È Dio un theion, come suggerisce Natoli, ovvero «una relazione originaria in cui siamo posti nel mondo», una vicinanza intima che ci costituisce, un divino che ci avvolge e apre alla domanda o, come sostiene Grillo, «Dio è un qui e ora», «spazio e tempo, casa e pasto, parola e gioco, preghiera e emozione di vicinanza e lontananza, di gioia e di tremore»? E ancora, come avverte Paltrinieri, il dio divino del paganesimo classico, al tempo stesso distante e vicinissimo alla vita quotidiana, non rischia nelle religioni positive di essere o troppo lontano, quasi assente, nelle sue astratte formulazioni dogmatiche o troppo vicino, idolatricamente a disposizione? Dio diviene dunque matrice possibile di idoli da cui prendere le distanze, tanto che, come sembra suggerire Müller, tra questi idoli potrebbero essere incluse anche venerabili tradizioni teologiche, che nella tarda modernità vanno invece riviste – questa la sua esplicita proposta –svolgendo il monoteismo della tradizione in direzione «di un panentheistic turn», verso un panenteismo che «sappia salvaguardare l'auto-identità di Dio che trascende il mondo, senza escludere con ciò un divenire di Dio nell'universo».
Alla luce di questo dibattito vicinanza e distanza di Dio sembrano descrivere non un’alternativa secca, ma uno spazio che, esplorato fenomenologicamente ed ermeneuticamente, ci aiuta a ricalibrare opposizioni abusate, come quella tra credente e ateo. L’alternativa diviene piuttosto se all’esperienza del divino cui ogni uomo è esposto si possa assegnare un nome determinato e, per chi lo faccia, se quest’assegnazione sia in grado di proteggere al tempo stesso vicinanza e distanza del Dio, ovvero la sua vera prossimità. Tutto è pieno di dei, potremmo dire riprendendo suggestioni che ricorrono di frequente nei saggi di Natoli e di Paltrinieri, impregnati entrambi, sia pure con modulazioni non precisamente coincidenti, di un acuto senso religioso per il mondo come evento. Nondimeno, dopo la traumatica riduzione del sacro che ebraismo e cristianesimo hanno prodotto con il loro restringimento del divino a un unico Dio e dopo la successiva secolarizzazione, che tale processo ha in certo modo avviato, possiamo ancora attingere a quel divino, ignari di ciò che è accaduto? Il Dio «evaporato» come dice Natoli non intacca anche il divino? E, viceversa, la contingenza e storicità del Dio ebraico cristiano come può ancora essere annunciata, senza che essa non consumi il rapporto con il mondo, destituendolo di ogni carattere di evento e negandone il suo carattere di aperto. Forse, come appunto suggerisce Müller, occorre procedere a un ripensamento del prevalente rifiuto del panteismo, per volgersi a una teologia che sappia inscrivere la differenza, e anche la stessa personalità di Dio e dell’uomo, in un orizzonte di una più originaria unità. O viceversa è opportuno, come sostiene Grillo, seguire la strada di fare della maggiore dissomiglianza tra creatore e creature, di cui ci parla tradizionalmente la teologia, la condizione di salvaguardia per non risolvere astrattamente e astoricamente la nostra effettiva esperienza del divino.
Come si vede siamo oltre la semplice contrapposizione, perché il reciproco ascolto sollecita ciascuno a un approfondimento delle proprie posizioni. E questo è ciò che anche il nostro fascicolo si augura possa accadere tra i suoi lettori.
[1] Il VI Convegno dell’Associazione Italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia sul tema «Distanza e prossimità del divino», del quale in questo fascicolo si pubblicano gli atti, si è tenuto a Roma nei giorni 9 e 10 maggio 2019 ed è stato organizzato in collaborazione con il Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo (SARAS) dell’Università «La Sapienza».
[2]Per rendere ancora più netta la posizione cui qui si fa riferimento, basti considerare il monumentale recentissimo lavoro di Jürgen Habermas, Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp, Berlin 2019, il quale ricostruisce il millenario sforzo della filosofia per leggervi, se ho ben inteso in modo diverso da quanto qui si suggerisce, il progressivo tentativo di uscire dalla dualità di fede e sapere per riproporre, sia pure aggiornato, lo schema di un sapere votato al compito di ritradurre i contenuti della fede (ma è un ‘intrattenimento’ infinito?).
[3]J.P, SARTRE, Bariona o il figlio del tuono: racconto di Natale per cristiani e non cristiani