«Il bello non è che inizio del terribile, che appena sopportiamo, e noi siamo così ammirati e stupefatti, perché quieto disdegna di annientarci». I versi di Rilke – siamo nella Prima delle Elegie duinesi – evocano la potenza di quanto ci prende e ci meraviglia proprio perché indifferente nei nostri confronti, al punto di non degnarsi nemmeno di farci del male. In effetti i fenomeni umani non conoscono l’univocità. L’indifferenza che ci rende assenti e assuefatti nei confronti di situazioni che invece richiederebbero attenzione e cura, il nostro aiuto, può rivelarsi, in tutt’altri casi, il tratto che caratterizza quanto ha la forza di soggiogarci, amanti ammirati, proprio perché nemmeno si accorge di noi, pur avendo il potere di renderci felici, così come sommamente infelici. D’altra parte, in un altro senso ancora, l’indifferenza può essere quel distacco prezioso dalle cose di minore rilevanza, da cui prende inizio un’esperienza più selettiva, un rapporto più attento con ciò che davvero è importante.
La senatrice a vita del parlamento italiano, Liliana Segre, sostiene che la parola ‘indifferenza’ vada posta assieme a parole come ‘violenza’ e ‘intolleranza’. Ciò che accade al mio vicino di casa, o appena lontano dai miei occhi, non mi riguarda, non mi tocca. Si badi, lo so quello che accade, posso persino esserne informato, ma non me ne lascio coinvolgere e le mie spalle restano voltate. Come sottolineava Antonio Gramsci (La città futura, 1917), aggiungendo di «sentire» «di non dover sprecare la sua pietà» per gli indifferenti, «l'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera». L’indifferenza di molti – quale perfetta concrezione dell’irresponsabilità – si scopre come la più flaccida forma di colpevolezza senza responsabilità. È quanto emerge anche nel resoconto esemplare di Hannah Arendt, testimone nel 1961 del processo ad Adolf Eichmann. Anziché trovarsi dinnanzi un mostro, dalla malvagità intelligente e acuminata, uno Iago o un Macbeth, alla barra compariva un «piccolo uomo», anodino e apatico. Certo era anche un’ovvia strategia difensiva quella di insistere sul fatto di aver solo fatto «il proprio dovere», servendo dunque il proprio paese e le sue leggi, ma comunque – come Arendt rimarca anche nel Poscritto al suo La banalità del male – colpiva che uno dei più grandi criminali dell’umanità, pur tutt’altro che stupido, risultasse così incapace di immaginare e di pensare le conseguenze della sua condotta. Appariva anestetizzato, come scollato dalla realtà, tanto che nemmeno il trovarsi infine sulla forca, al cospetto della propria morte, riuscì a fare la differenza e Eichmann non seppe fare altro – racconta Arendt – che ripetere le parole ‘alte’, formali, che mille volte aveva udito in mille funerali precedenti.
È questa apatia, questa incapacità di sentire, immaginare, pensare, la forma in cui più frequentemente compare la condizione nichilistica. La vita diventa uno schema mentale, in cui variano i nomi e la facciata delle cose, ma queste si ripetono uguali, senza fare la differenza. Perché mai piombare giù dal letto ogni mattino? Forse per contratto? Perché si è addestrati a farlo? Perché altrimenti, come criceti che smettono di correre nella loro gabbietta, non otterremo indietro del cibo? «Tutto è vano!», biascica, oppure grida, se gli resta una qualche briciola di energia, lo spossato nichilista che Zarathustra considera malato e da superare, sebbene sia uno dei suoi doppi. «Nulla vale la pena», «Tutto è indifferente!», tutto ha il medesimo peso, ossia, a conti fatti, nessun peso, se non quello della nausea che provoca. È soffocante fronteggiare il perpetuo ripetersi uguale delle cose. Tutte già viste, tutte già udite, secondo una riconoscibilità che ha la fissità della rappresentazione schematica, anziché dell’esperienza del rinnovarsi della loro intensità e significatività. Nietzsche insegna che questo è il destino di chi non ha «orecchie fini» (Così parlò Zarathustra, Della virtù che dona), di chi non è «uno spirito che rimane paziente» (Così parlò Zarathustra, Degli apostati,1); ‘paziente’ nel senso di ‘geduldsam’, capace di sopportare i pesi senza la fretta di liberarsene al più presto, ‘paziente’ nel senso di capace di soffrire, e quindi che ha anche la finezza di sensibilità per sentire a fondo e intensamente. Agli spiriti ‘pazienti’ gli attimi della vita non risultano indifferenziati e quindi indifferenti, piattamente uguali a se stessi, anche se sono, e davvero lo sono, una ripetizione. Il sovrauomo, annunciato da Zarathustra, è colui/colei che ad ogni attimo vince la propria indifferenza e quindi sa suggere la pienezza – mai vecchia, mai nuova – di quanto accade come un ritorno che celebra la vita.
Il fenomeno dell’indifferenza è spesso intrecciato a quello dell’intercambiabilità, in primo luogo quando qualcosa si riduce a mera illustrazione esemplificativa particolare di uno schema generale, cognitivo oppure utilitaristico. Certo le scienze della natura sanno far fruttare in termini di conoscenza il loro essere indifferenti nei confronti dell’individualità dei fenomeni investigati, altrimenti non riuscirebbero a determinare leggi generali capaci di spiegare la molteplicità dei fatti. Ma quando questo modo di procedere per schemi e rappresentazioni generali viene esportato nell’ambito delle relazioni umane oppure dei rapporti con le cose che costituiscono il nostro mondo, la perfetta sostituibilità e intercambiabilità delle persone riduce queste a strumenti e cose, proprio come la perfetta sostituibilità e intercambiabilità delle cose riduce queste a oggetti di consumo. Allora i rapporti appaiono estrinseci, accidentali, resi vivi solo da quel variare che basta a soddisfare i nostri bisogni, o a riempire il vuoto delle nostre giornate, senza fare la differenza. Peraltro, tali rapporti di indifferenza, dove persino quello che chiamiamo ‘amico’ potrebbe ridursi a uno strumento intercambiabile per alleviare la nostra solitudine, diventano un modo per anticipare il futuro al traino del già visto e accaduto. Ecco perché una fenomenologia dell’esistenza non può non interessarsi al fenomeno dell’indifferenza. Così, nel paragrafo 26 di Essere e Tempo, Heidegger ha mostrato come anche se siamo soli, e altri non siano presenti intorno a noi, anche se non facciamo attenzione e anzi voltiamo indifferenti le spalle ai tizi che ci passano accanto, in senso ontologico-esistenziale il nostro essere è essenzialmente e originariamente un con-essere (Mitsein). Ciò significa che l’indifferenza non è semplicemente assenza di legame o opposto della presenza, bensì «un modo difettivo» del nostro costitutivo esistere ‘con’, della nostra originaria relazionalità esistenziale. Prova ne sia che notiamo, non ci è indifferente, può farci soffrire, oppure offrirci la protezione dell’anonimato – o ancora, addirittura, renderci preda d’amore, ma questo, in Essere e tempo, Heidegger fa fatica a dirlo –, l’indifferenza degli altri nei nostri confronti, così come la nostra verso di loro. In altri termini, il mondo non è semplicemente un recipiente spazio-temporale in cui noi umani siamo collocati come presenze oggettuali, il cui unico legame è il sussistere le une accanto alle altre, reciprocamente indifferenti. La relazione con gli altri ci è costitutiva e quindi il passarci accanto o il vivere paralleli nella mutua indifferenza non è il dato primario, bensì ciò di cui facciamo esperienza a partire da un più decisivo e più essenziale ‘con-esserci’. Ora, riesce davvero Heidegger, da fenomenologo dell’umano essere-nel-mondo, a fare emergere quanto accade tutti i giorni non in un piccolo centro abitato, ma in una metropoli moderna, dove milioni di individui, senza nessun legame tra loro, corrono ciascuno per la sua strada, indifferenti perché indifferenziati, indifferenziati perché indifferenti? Ciascuno qui, perlopiù, ha sentore dell’altro solo per evitarne l’urto accidentale. Anzi, gli urti, evitati o realizzati, sembrano gli unici rapporti residui, tanto è vero che, nella migliore delle ipotesi, ci si limita a un automatico scambio di ‘sorry’ o ‘thank you’, senza aver bisogno di guardare in faccia – surrogato indifferente del volto levinassiano – chi sia l’individuo che ci sfiora o ‘ci viene addosso’. Ma per quanto ‘slacciati’ e indifferenti siano i rapporti, per quanto il ritrovarsi frettolosamente ‘accanto’ sembri l’unico nesso che unisca gli individui, la fenomenologia heideggeriana continua a centrare il bersaglio, mettendo in luce il fatto che già il notare tutto questo e il non essere indifferente all’indifferenza è un manifestarsi della verità, quale ciascuno di noi può esperire, anche solo camminando per strada, solo a partire da una differente apertura esistenziale del mondo.
Sullo sfondo di queste considerazioni Heidegger giunge anche a mostrare – nel celebre paragrafo 40 di Essere e tempo – come, quando un essere umano viene assalito dall’angoscia, e tutti gli abituali rapporti con le cose e con gli altri, che sino a un momento prima apparivano sensati e rilevanti, gli diventano indifferenti, questa sopraggiunta indifferenza, che pur accresce il malessere e lo spaesamento provati con l’angoscia, può rivelarsi cesura preziosa. La rottura dolorosa, la sospensione (epoché) drammatica, l’interruzione estraniante, della rete che abitualmente ci vedeva immedesimati nell’ambiente circostante, possono aprirci mondo, possono lasciarci ritornare a ciò che davvero è decisivo, possono rivelarci quella indeterminatezza che ci domina come verità dello schiudersi del mondo in cui siamo. Così proprio la ‘maledetta’ indifferenza, subentrata rispetto a quanto prima, invece, pareva dare senso alle nostre giornate, può consegnarci a una rinnovata relazionalità con noi stessi, con gli altri e con il mondo – all’insegna di una significatività e verità che fanno la differenza persino in forza della loro indeterminatezza – infatti, come si sottolinea nel paragrafo 58 di Essere e tempo, a emergere in senso propriamente esistenziale è che indeterminato (unbestimmt) non significa indifferente (gleichgültig), ma semmai proprio ciò che fa la differenza sino a disporre di noi. Insomma, qui l’indifferenza provata nei confronti delle cose «sensate e perfettamente a loro posto», nel nostro consueto mondo circostante (Umwelt), funge da discrimine selettivo, aprendoci e consegnandoci alla precedenza di quelle relazioni che fanno la differenza in quanto da esse la nostra esistenza dipende in maniera decisiva.
I fenomeni umani, si diceva sopra, non conoscono l’univocità. L’indifferenza chiude, l’indifferenza può aprire, l’indifferenza uccide, l’indifferenza può rigenerare, l’indifferenza opprime, l’indifferenza è potenza maestosa che ci tiene avvinti come amanti ammirati.
I contributi qui raccolti si soffermano su alcuni tratti importanti – differenti e quindi non semplicemente diversi – dell’indifferenza. Proprio la testimonianza di padre Felice Scalia richiama il formidabile esemplare della ‘sancta Indifferentia’ che Sant’Ignazio di Loyola considerava migliore condizione per servire Dio e fare la sua volontà. È l’indifferenza benedetta che impedisce a chi crede di non restare ostaggio delle affezioni a persone e cose create, e che rende disponibili a riconoscere come primario ciò che davvero conta ed è costitutivo, il rapporto con Dio.
Questo numero di «Filosofia e Teologia» riserva certo attenzione agli aspetti difettivi dell’indifferenza. Così il saggio di Andrea Aguti si sofferma sul fenomeno dell’indifferenza religiosa come condizione letargica e apatica in cui non si è nemmeno toccati dalla presenza della religione. La questione è intrecciata a quella della secolarizzazione, eppure Aguti offre argomenti per sostenere che l’indifferenza religiosa si distingue dall’ateismo e dall’agnosticismo, così come dal relativismo.
Sul versante strettamente filosofico-teoretico Davide Spanio prende le mosse da quello che potrebbe essere chiamato il «parricidio aristotelico» (sic, l’espressione è del sottoscritto) nei confronti dell’Uno indifferenziato di Parmenide, per poi puntare decisamente i riflettori sulle mosse di Emanuele Severino. Quanto quest’ultimo addita come fulcro del nichilismo occidentale, ossia la persuasione ultima che l’essere sia separabile dagli enti, i quali quindi possano oscillare contraddittoriamente tra l’essere e il nulla, consente di leggere la metafisica come ostentazione della «sovrana indifferenza dell’essere rispetto a sé e all’altro da sé», indifferenza che si annuncia anche quando, all’alba della filosofia occidentale, Parmenide, «abbagliato dall’essere», inghiotte nella luce di quest’ultimo le differenze.
Il saggio di Milena Mariani prende in fruttuosa considerazione lo scritto di Jürgen Moltmann Il Dio vivente e la pienezza della vita, pubblicato nel 2014. Al centro dell’attenzione vi è la fondamentale cesura tra l’indifferenza, l’a-patia, degli Dèi della metafisica greca, la cui impassibilità e lontananza sono andate a contagiare anche il Dio dei filosofi e di molti teologi cristiani, e invece il Dio biblico reso vivente dalla propria «appassionata relazione con il suo popolo» e dalla capacità di soffrire perché è capace di amare l’altro da sé. Come sottolinea Dietrich Bonhöffer, ripreso da Moltmann e quindi da Mariani, «Solo il Dio sofferente può aiutare».
Il contributo di Enrico Cerasi si sofferma su due momenti istitutivi della modernità, là dove Pico della Mirandola e, sia pure in modo diverso, Erasmo da Rotterdam, propongono un’antropologia secondo la quale la natura umana è indifferenziata, nasce cioè indeterminata e determinabile – diversamente dalla natura delle bestie che è già data. Le questioni che emergono sono decisive per la modernità, in quanto la natura originariamente indifferenziata dell’essere umano, e quindi la sua enigmatica determinabilità, rinvia alla questione di quali siano le forme, le leggi e i paradigmi – religiosi, morali e politici – attraverso cui ciascun umano possa e debba liberamente pervenire a determinatezza.
Il saggio di Sebastiano Galanti Grollo è imperniato su Lévinas, il quale, forte del radicamento nella fenomenologia husserliana e heideggeriana, insiste, soprattutto a partire da Altrimenti che essere del 1974, sulla costitutiva relazionalità umana, manifestantesi in forza del volto dell’altro, che scompagina la compattezza autoriferita e totalizzante, satura di sé, della medesimezza egoica. Essere indifferenti è cosa diversa dal non prestare attenzione: ci si sente comunque chiamati in causa e si risponde ignorando l’altro, si risponde con la nostra indifferenza. Per Levinas è l’indifferenza a essere uno scandalo e l’etica irrompe imponendosi come ‘rottura dell’indifferenza’, come «non-indifferenza».
Una sezione della seconda parte di questo fascicolo è dedicata alla figura e all’opera del p. Xavier Tilliette, omaggio alla memoria dell’illustre studioso scomparso il 10 dicembre dello scorso anno, che di «Filosofia e Teologia» fu amico e membro prestigioso del Comitato scientifico internazionale.