FILOSOFIA E TEOLOGIA
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In ragione della imprescindibilità del nutrimento, nella sua dimensione materiale, al cibo si correla una ricca valenza metaforica, così come del resto accade per l’aria, l’acqua e la stessa terra: elementi essenziali per la vita.

Tale correlazione è presente a livello arcaico nel mito e, quindi, nella mitologia. La vediamo poi rispecchiarsi nell’intessitura del linguaggio, nelle espressioni estetiche nonché nelle configurazioni e tradizioni religiose. Essa è quindi anche da sempre oggetto e impulso per l’elaborazione filosofica e per la riflessione teologica.

Per questo, e non per una scelta meramente contingente, legata allo stimolo dell’Expo, è sembrato significativo dedicare un fascicolo della rivista a esplorare tale tematica nel nesso tra le sue diverse declinazioni e i diversi ambiti. Del resto, queste note escono quando l’Expo 2015 è da tempo archiviato, mentre il nodo che, in qualche modo – anche se sotto profili parziali, discutibili e insufficienti ?, è stato posto in tale occasione all’attenzione del mondo è, appunto, meritevole di ben più prolungata e complessa considerazione.

Il cibo apre un campo di tensioni. Tra chi non l’ha (secondo i dati offerti dalla FAO, ogni minuto muoiono di fame 13 persone, cioè 18720 al giorno) e chi lo spreca, o si ammala di obesità. Nei mezzi di comunicazione, in particolare nelle reti televisive, vi è una inflazione di trasmissioni sul cibo, cui fa da contrappunto il divieto di mangiarne e la moda delle mille diete. La fame ha una forza di sovversione e conseguenze incalcolabili, come i grandi fenomeni migratori segnalano. La distinzione tra rifugiati politici e profughi per ragioni economiche ha forse una sua giustificazione pratica e una formulazione giuridicamente corretta, ma è umanamente e moralmente difficilmente difendibile: la fame, lo spettro della morte per fame e sete non è forse una motivazione altrettanto cogente, quanto lo è il fuggire da persecuzioni e guerre? La fame è anche stata all’inizio di molti moti di ribellione che in alcuni casi sono stati germi di rivoluzioni. Ma l’affamamento è anche un modo di disumanizzare, di rendere ognuno nemico dell’altro, cercando di ottenere il pane sottraendoglielo, come narra Primo Levi riportando la tragica condizione dei deportati ad Auschwitz.

Qualcuno ha detto che siamo umani perché «cresciamo, balliamo, preghiamo e cuciniamo» (senza con questo negare che in primo luogo lo siamo perché pensiamo e parliamo). L’antropologo Richard Wrangham ha elaborato «l’ipotesi cottura» come fattore di umanizzazione, legato alla nascita del momento del pranzo: scansione di tempi, di luoghi (la tavola), cui si aggiunge l’aspetto della comunità; per un verso, forme di comunità sono presupposte, ma sono anche e soprattutto create, dalla condivisione di tali tempi e luoghi. Secondo Lévi-Strauss, cucinare è attività simbolica che implica trasformazione e offre più di quel che già si sa.

Anche se già il condividere con altri il frutto della attività di raccolta o di caccia attesta e crea socialità e solidarietà, più significativo è il passaggio dal cibo alla cucina: noi rendiamo commestibili alimenti altrimenti immangiabili. Trasformiamo (purtroppo anche in peggio) il pianeta per coltivare cibo. E, viceversa, attraverso il cibo assimiliamo il mondo, come sintetizza il celebre aforisma di Feuerbach: siamo quello che mangiamo. Il cucinare richiede il fuoco che, certo, può essere gestito individualmente, ma che, storicamente e antropologicamente, ha una forte virtualità socializzante, inducendo a raccogliersi intorno ad esso, essendo esso stesso bisognoso di una cura e conservazione che meglio possono essere assicurate da una comunità.

Per questo, al cibarsi come con-vivio sono collegate così tante metafore: indizi importanti di nessi profondi. Non sempre lo si coglie, ma «sapere/sapienza» e «sapore» vengono dalla stesso verbo latino «sapio» che vuol dire in primo luogo «gusto/assaporo», ma anche, in senso figurato, «essere savio, capire, intendere». Del resto, non diciamo «avere sale in zucca» per dire avere intelletto? Anche questo viene dal duplice significato latino di «sal»: sale e intelligenza. Insomma, la capacità di apprezzare le cose, trovarle piacevoli, buone o, al contrario, cattive e repellenti, tramite il senso del gusto, è affine alla nostra capacità di giudicare, comprendere, intendere le esperienze e le parole con cui descriviamo a noi e agli altri il mondo. Anzi, è un’altra faccia della stessa medaglia

Il nesso tra cibo e sapere è messo in primo piano dal mito biblico delle origini e dal racconto del cosiddetto «peccato originale». Come evidenzia André LaCoque, mangiare del frutto proibito esprime lo staccarsi dalla vita ricevuta per ripartire da zero verso una vita conquistata con fatica. In accezione negativa ? sottolinea l’Autore ?, «mangiare» è fuggire la sapienza ricevuta, che dava la vita, per una sapienza acquisita, tramite prova ed errore, dalla quale si origina la coscienza della morte. Tale mangiare è dell’ordine dello strappare a morsi, saccheggiare; si lascia dietro l’innocenza obbediente al divieto per far posto alla astuzia, alla accortezza (Cf. A. LaCoque, Crepe nei muri, in A. LaCocque - P. Ricœur, Come pensa la Bibbia, ed. it. a cura di F. Bassani, Paideia, Brescia 2002, pp. 38-39). Citando l’intreccio dei temi in Genesi 3,6 «La donna vide che l’albero era buono da mangiare, seducente a vedersi e desiderabile per acquistare il sapere», Paul Ricœur sottolinea come la tentazione si annidi nel terzo momento, in cui il limite relativo al cibo viene visto come insidia alla possibilità di sapere senza limiti (Cf. P. Ricœur, Pensare la creazione, in ivi, p. 60).

Richiamando l’esperienza della peregrinazione nel deserto, il libro biblico del Deuteronomio ? ovvero Parole, secondo il titolo ebraico ? ammonisce Israele che il Signore «[…] ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (ivi 8,3). Un’espressione, questa, che nei Vangeli viene messa in bocca a Gesù (si veda Matteo 4,4; Luca 4,4; e, in un’altra formulazione, Giovanni 4,31-34).

Al di là del riferimento trascendente, con ciò si esprime qualcosa di cui la filosofia, la sapienza è sempre stata consapevole e oggi ancor più lo sono anche la psicologia del profondo e le scienze umane: ossia il fatto che gli umani sono esseri di parola, che della parola ricevuta e scambiata si nutrono non meno che del cibo, e che di essa hanno un bisogno altrettanto vitale e fondamentale. Delle parole abbiamo bisogno quanto del pane, ma non separatamente. All’inizio dell’esistenza di ognuno il nesso è forte: il cibo materno è accompagnato da parole, mediatore di affetti nutritivi e costitutivi dell’intero psicofisico del nuovo essere umano.

Il bisogno di cibo è segnale della nostra finitezza e dipendenza. Di qui, anche, la pratica del digiuno diffusa nelle religioni e in discipline non religiose, al fine di sperimentare (più che superare) tale dipendenza. Facendo sperimentare la fame, tale pratica consente, da un lato, di percepire che siamo degli ‘affamati’ non solo di cibo; d’altro lato, di condividere temporaneamente e volontariamente la sorte di affamamento cui è condannata gran parte dell’umanità, potendone avvertire più vivamente il vissuto drammatico e sviluppando più consapevole solidarietà.

Siamo però degli indigenti, degli affamati che debbono saper distinguere e scegliere di che cosa cibarsi: di qui l’importanza del senso del gusto in senso reale e metaforico. Le parole hanno gusto, sapore, ci nutrono. E la parola che ci nutre è non meno la parola scambiata nel vivo colloquio che la parola che ci viene offerta depositata in scritti. Frutti saporiti e profumati non stanno solo tra le foglie degli alberi, ma si colgono dai ‘folia’, dai fogli scritti.
Se il cibo, in generale, ci guida a comprendere il nostro rapporto col mondo come una assimilazione, nella forma del convivio l’elemento del cibo e gli elementi della parola, della relazione e della donazione si fondono e potenziano: tanto da farne anche luogo della manifestazione e comunicazione del sacro.

Tra sapere e sapori, tra nutrirsi di pane e nutrirsi di parole, tra lo sviluppo del gusto per i cibi e del gusto intellettuale, tra la pratica della cucina in cui si rendono commestibili, appetibili e assimilabili elementi del mondo esterno e il lavorio del logos che trasforma in concetti e parole tutta la dimensione dell’esperienza, non si riscontrano solo fitte analogie, ma un reciproco rimando metaforico. I due versanti sono l’uno metafora dell’altro, e in tale circolarità si illuminano sempre nuovi significati. Portare quindi l’attenzione sul nesso tra i due poli consente di cogliere più pienamente la dimensione simbolica del cibo, la quale getta luce sull’intero fenomeno umano. Ciò consente anche di comprendere la rilevanza simbolica e rituale del cibo nelle religioni, e richiede quindi di interrogarsi su di essa.

Queste l’ipotesi e la trama di fondo che ispirano la parte monografica del presente fascicolo e che si rispecchiano nella sua struttura e nei saggi che lo compongono.
La sezione ‘Questioni’ imposta la tematica in tre dimensioni fondamentali: filosofica, sociologica e teologica. La apre il contributo di Salvatore Natoli che indaga l’intreccio complessivo e la stratificazione di significati e rimandi tra tutte le dimensioni del cibo, in cui entrano in gioco l’operazione dell’intelletto, l’azione sociale, l’esercizio morale e che si manifesta come irriducibile soglia dell’esperienza umana che rinvia al sacro e all’eros. Italo De Sandre evidenzia il nesso tra la simbolica dei cibi e la costruzione e strutturazione sociale della realtà e delle relazioni, sottolineando l’importanza di guardare il cibo non come una cosa, bensì come frutto di un percorso in cui operano molti soggetti e che si manifesta ricco di implicazioni su diversi piani. In riferimento alla pratica cristiana della celebrazione eucaristica, Roberto Tagliaferri mette a fuoco il simbolismo del mangiare un pane condiviso come tramite di unione con Dio, inquadrandolo in una ricostruzione del significato del cibo nelle culture e religioni antiche cui segue la delineazione della sua sacralità nella ritualità biblica, per giungere a focalizzare il passaggio dalla logica del sacrificio a quella della benedizione.
Nella sezione ‘Figure’ vengono poi offerti approfondimenti in cui singole tematiche connesse col cibo sono oggetto di trattazioni più specifiche di taglio sia filosofico sia religionistico, teologico ed estetico.

Il versante filosofico si arricchisce di due contributi: di Elio Franzini e di Andrea Tagliapietra. Il saggio di Franzini offre un affondo sulla genesi del gusto rintracciandone il profilo teoretico e lo svolgimento storico a partire specialmente dal Sei-Settecento. Il cibo – viene detto ? « è un atto simbolico, che non si esaurisce nell’oggetto e che ha un’ampia sfera di valorizzazione immaginativa». Come ‘forma’ dei nessi tra il piacere del palato e la mente, la filosofia ha elaborato il concetto di gusto e indagato la complessa trama esperienziale ad esso soggiacente. Si tratta di una grande metafora che rinvia all’idea di «un sentire […] non […] del tutto disgiunto da un’idea di ‘valore’», un sentire in cui si rispecchia un rapporto intuitivo e simbolico con il senso del mondo che ci circonda.

Tagliapietra, rifacendosi alla trattazione del tema nella Antropologia di Kant, mette in luce il passaggio dalla simbolica della assimilazione a quella della forma della convivialità che include come essenziale lo scambio linguistico. Tale forma delinea un complessivo contesto estetico, plurale e a molte dimensioni.

Sul versante religionistico e teologico vertono ulteriormente gli interventi di Giovanni Filoramo, Paolo Ricca, Roberto Della Rocca.
Il contributo di Filoramo indaga l’agape come specifica forma di pasto sacro in uso nelle comunità cristiane dei primi secoli, giungendo a differenziarla nettamente dalla cena eucaristica, e spiegando i motivi socio-politici della sua scomparsa a partire dall’epoca costantiniana.

Sullo specifico e controverso tema della Santa Cena cristiana si sofferma invece Ricca, mettendo in evidenza come, da segno di unità, essa sia diventata luogo e strumento di separazione tra le diverse chiese cristiane e all’interno di esse. Approfondendo la comprensione della Cena da parte dei Riformatori, l’articolo ravvisa gli elementi che consentono di sperare nella fine delle divisioni e richiama alcune contemporanee esperienze ecumeniche in cui queste ultime sono già in parte superate.

Rav Della Rocca illustra i motivi ispiratori profondi delle regole della kasherut alimentare ebraica. Essi sono da ricondurre al fondamentale principio della visione ebraica che, aliena da una prospettiva dualistica, concepisce l’essere umano come un essere profondamente unitario, in cui materialità e spiritualità sono inscindibilmente fuse. Gli atti corporei umani sono una benedizione divina, il nutrimento materiale non è scisso da quello spirituale; l’obbedienza alle regole ha come scopo il guidare a vivere ogni aspetto e momento della vita in questa luce.

Il cibo è stato tema di non pochi film. Per lo più ne sono stati evidenziati gli aspetti negativi. Si pensi a Ricotta, di Pasolini (1963) o a La grande abbuffata, di Ferreri (1973). Il primo mostra come del circolo infernale mancanza-abbondanza di cibo si possa morire (così il personaggio «Stracci»; una comparsa nella inscenazione della Passione); il secondo mostra egualmente l’aspetto potenzialmente mortale del cibo: se lo si comprende (ossia non comprende) come sola materiale sovrabbondanza, ma senza capacità di riconoscerlo come un bene di cui si dispone e che si può condividere, di cibo si muore fisicamente, ma, prima di tutto, nell’umanità annoiata e senza senso. E si pensi ancora a Viridiana (1961) e a Il fascino discreto della borghesia (1972): due film di Buñuel in entrambi i quali viene gettata una luce fortemente negativa sul cibo e sul cibarsi.
Al contrario, Il pranzo di Babette, di Gabriel Axel, ispirato da un racconto di Karen Blixen, propone una visione alternativa, molto positiva, salvifica, riconciliante, umanizzante del complesso «convivio festivo – cibo raffinato, cucinato come dono». La rilettura e interpretazione di tale opera cinematografica, a cura di Raffaele Chiarulli e Armando Fumagalli, ben conclude il percorso qui offerto, giacché in essa ritornano e si intrecciano i motivi indagati analiticamente dai vari contributi.

L’articolo di Chiarulli e Fumagalli si apre con l’osservazione: «Secondo Alain Finkielkraut il racconto di Karen Blixen Il pranzo di Babette fornisce una risposta narrativa alle domande, non certo di poco conto: che cos’è la civiltà? Che cos’è l’arte? Che cos’è l’ideale? E, soprattutto, che cos’è la grazia?» e, attraverso una fine analisi del ricco e stratificato messaggio simbolico offerto dal film, si giunge a concludere come «sia il ‘dono’ a cambiare le vite». Nel linguaggio cinematografico incontriamo dunque in sintesi le dimensioni che conferiscono senso al cibo, che nutrono la comprensione filosofica, sociale, estetica, teologica e religionistica di esso; d’altra parte, solo l’affinamento dello sguardo attraverso i filtri di tutte queste prospettive di comprensione consente di cogliere appieno le diverse dimensioni di senso insite nel cibo.

È quanto ha inteso proporre il presente fascicolo, ovviamente senza pretese di esaustività, ma cercando di far emergere le sfaccettature del tema e il loro reciproco intreccio e rimando.
La maggior parte dei saggi pubblicati nella sezione monografica è la rielaborazione di relazioni tenute dagli Autori al Colloquio internazionale dal titolo «Inter Folia Fructus». Il sapore del sapere ? Parole da mangiare, svoltosi presso l’Università degli Studi di Milano e promosso dal Centro Interuniversitario di Studi sul Simbolico, dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Milano, dall’Università di Macerata e dall’Università degli Studi «Amedeo Avogadro» del Piemonte Orientale, col patrocinio del Comitato Scientifico del Comune di Milano «Le università per Expo 2015».
La trattazione della tematica svolta nel convegno è stata qui integrata con i tre contributi di indole specificamente teologica richiesti a Roberto Della Rocca, Paolo Ricca e Roberto Tagliaferri. A tutti gli Autori vada il nostro sincero ringraziamento.

Questo numero della rivista è dedicato a Nynfa Bosco di cui nella sezione non monografica reca un profilo e una bibliografia degli scritti. Nynfa Bosco fu nell’originario nucleo dei fondatori di «Filosofia e Teologia» di cui per decenni animò la vita con numerosi contributi scritti profondendo con discrezione e generosità la sua alta competenza, il suo talento e la sua passione sia nella redazione nordoccidentale, di cui fu a lungo coordinatrice, sia nella direzione, fino a quando ragioni di salute le resero difficile partecipare attivamente alle riunioni; continuò però a seguirne con interesse le sorti passando a far parte del Comitato scientifico.
A lei va il pensiero grato, commosso e affettuoso di quanti l’hanno conosciuta e stimata e di quanti, anche senza averla incontrata, sono ora impegnati in questa comune impresa che è anche sua eredità e dalla quale tanti impulsi, sollecitazioni, occasioni di riflessione, scambio e amicizia tutti costantemente riceviamo. La sua memoria sia in benedizione e sia a noi di esempio e sostegno nel far vivere al meglio la nostra rivista.


Maria Cristina Bartolomei