Sembra ovvio
collocare il termine umanesimo in una
costellazione semantica in cui i punti di
riferimento sono razionalismo, immanenza,
finitezza e, fors'anche, ateismo. Ma tale
ovvietà, guardata da vicino, si mostra presto
sbrecciata, fragile, instabile: ci si accorge
che non solo i termini non si lasciano
sovrapporre, ma anche che non è sufficiente
lasciarli nella loro statica contrapposizione,
semplicemente negando la corrispondenza.
Questa operazione di movimentazione va esposta
oltre la negazione: proponendo 'umanesimo'
come il prisma su cui rifrangere le altre
parole per renderne visibile lo spessore di
complessità, perché non è poi neppure così
ovvio cosa significhino ateismo, razionalismo,
immanenza e finitezza.
Questo numero di «Filosofia e Teologia»
propone una riflessione sulla questione
dell'umanesimo intendendolo appunto come
questo prisma. Che chiede di essere preso in
carico in tutto il proprio spessore: perché
lasciando che quei termini riverberino contro
di esso, mostri tutta la propria complessità,
una molteplicità di facce e di punti di
incontro e respingimento, una densità che non
si risolve in trasparenza. Ne deriva
l'impossibilità di pensare all''umanesimo' in
modo troppo univoco, da qui la decisione di
mettere in evidenza la pluralità di movenze
secondo cui si declina: parlando, quindi,
piuttosto di 'umanesimi'.
Certo, quando si dice 'umanesimo' la memoria
va a quel movimento culturale che nel
Quattrocento, rivendicando le proprie radici
nella sapienza antica, si diffuse dall'Italia
in tutta Europa mettendo al centro la dignità
dell'essere umano. La memoria va, in
particolare, a Pico della Mirandola che,
convocando a Roma un grande congresso mondiale
con l'obiettivo di preparare la strada alla
pace, scriveva nell'opera inaugurale stesa per
l'occasione, appunto intitolata Oratio
de hominis dignitate, che il Creatore
così aveva parlato al primo essere umano: «Non
ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato,
né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa
tua, perché quei posti, quell’aspetto, quelle
prerogative che tu desidererai, tutto secondo
il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e
conservi. La natura limitata degli altri è
contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te
la determinerai da nessuna barriera costretto,
secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti
consegnai». A questo orizzonte pratico, che
mette l'accento sulla dignità della libertà,
si accompagnerà di lì a breve la consegna
teoretica cartesiana, alla quale si deve la
feconda acquisizione dell'intrascendibilità
dell'orizzonte coscienziale. L'aria di
famiglia, quindi, per ciò che viene chiamato
umanesimo è la considerazione della
dignità e centralità dell'essere umano. Ma non
si può certo dire che esso nasca ateo o si
pensi come necessariamente tale. Neppure mette
in gioco, fin dall'inizio, una rigida
alternativa tra infinitezza e finitudine.
Ancora nel Settecento si celebra la fiducia
nella potenza dell'intelligenza e
nell'operosità umane, si pensi ad esempio al
kantiano sapere aude! in Risposta
alla domanda: 'Che cos'è l'Illuminismo?',
e di lì a breve si aprirà la stagione
dell'Idealismo, mentre la rivoluzione
industriale trasformava i progressi della
scienza in successi della tecnica.
Ma la centralità dell'umano per l'umano è
venuta presto a mostrarsi sempre più
decentrata nell'orizzonte del tutto. È
accaduto in virtù di una quadruplice
acquisizione di consapevolezza: grazie alla
teoria della relatività di Einstein; con la
riflessione sulle strutture economiche di
Marx; con l'avvertimento di Nietzsche nei
confronti dell'affermazione di verità; con la
scoperta dell'inconscio da parte di Freud, che
oggi trova nuovo sviluppo nel ricco e discusso
articolarsi delle neuroscienze. Le riflessioni
di questi autori hanno messo in luce la
necessità di fare i conti con l'alterità
radicale, non oggettivabile, resistente.
Questo però non ha necessariamente comportato
un decentrarsi, e l'indebolimento della
potenza di appropriazione non ha significato
di per sé far spazio all'estraneità. La
domanda sul significato dell''essere umano'
dell'umano ha trovato anche posto
nell'orizzonte dell'interrogazione sul senso,
ma senza trovar quiete: basti ricordare da un
lato la prospettiva sartriana di L’esistenzialismo
è un umanismo, dall'altro il
capovolgimento che l'anno successivo, era il
1947, ne propose Heidegger in Lettera
sull’umanismo, dove il compito del
pensiero è interpretato come impegno non per
l’uomo, ma per l’essere, e all’esistenzialismo
si rimprovera di assegnare invece il primato
in modo rovesciato, dimenticandosi
dell’essere. «L'uomo non è il signore
dell'essente. L'uomo è il pastore dell'Essere.
In questo 'meno' l'uomo non ci rimette nulla,
anzi ci guadagna, in quanto perviene nella
verità dell'Essere. Guadagna l'essenziale
povertà del pastore, la cui dignità consiste
nell'essere chiamato dallo stesso Essere a
guardia della sua verità. [...] Ma - mi
vorrete obiettare già da tempo - tale pensiero
non pensa appunto l'humanitas
dell'homo
humanus? Non pensa questa humanitas
in un significato così decisivo, come nessuna
metafisica ha pensato e mai poteva pensare?
Non è esso umanismo nel senso più radicale?
Certo. Esso è l'umanismo che pensa l'umanità
dell'uomo a partire dalla prossimità
dell'Essere. Ma è nello stesso tempo
l''umanismo' in cui è in gioco non l'uomo, ma
l'essenza storica dell'uomo nella sua
provenienza dalla verità dell'Essere».
Una radicale e ben diversa messa in questione
dell'umanesimo si affaccia, nella seconda
parte del XX secolo, in Le
parole e le cose di Michel Foucault,
come nelle opere di Louis Althusser e di
quella corrente che va sotto il nome di
strutturalismo: qui si possono rintracciare le
linee di quello che potrebbe opportunamente
esser detto antiumanesimo teorico.
L'ambivalenza della problematica
dell'umanesimo ha incontrato anche
l'attenzione della teologia. Essa da un lato
si è rivolta alla sua possibile declinazione
ateistica: ricordiamo come Henry de Lubac, in
Il dramma
dell'umanesimo ateo affermasse che
«l'uomo, perdendo la verità perde se stesso.
In realtà non c'è più uomo, perché non c'è più
nulla che trascende l'uomo». Dall'altro le
discussioni hanno riguardato il rapporto tra
cristologia e antropologia: ad esempio un
teologo come Karl Barth, pur sempre
preoccupato di ribadire con forza
l'irriducibilità del cristianesimo a qualsiasi
umanizzazione, scriverà saggi come Umanesimo
(1950) e L'umanità
di Dio (1956).
In un disegno a grandi tratti, si può anche
tentare di leggere le grandi linee di questi
eventi epocali del pensiero attraverso il
registro dell'ordine. Si può parlare, allora,
dello svanire dell’ordine nella sua forma
classica - che si caratterizzava per il suo
essere già dato, onnicomprensivo e, nelle sue
linee fondamentali, ripetitivo - e del suo
passare a una nuova forma di ordine, che si
può dire invece moderna. Questa si fece strada
quando sorse il dubbio che l’ordine
apparentemente inviolabile e onnicomprensivo
fosse solo uno tra possibili altri. Ciò
significò da un lato una messa in libertà di
forze, dall’altro lato la messa in movimento
dell’ordine dato e la pluralizzazione.
Venivano allora a porsi, però, almeno due
questioni: da un lato la consapevolezza che un
ordine che potrebbe essere anche un altro è,
in fondo, sempre minato dal disordine,
dall'altro che si dovesse trovare un nuovo
fondamento all'ordine da costruire.
L’umanesimo si è caratterizzato, appunto, per
aver cercato questo fondamento nella
centralità assegnata all’uomo e al suo
costante sforzo di manifestare la propria
autonomia. Però le due questioni non si sono
facilmente saldate: e non si è smesso di
correre il rischio di una pretesa di
assolutizzazione di ciò che pur era dichiarato
come non assoluto. D'altra parte la domanda
circa quale tipo di fondamento si possa
ravvedere nella centralità dell'essere umano
apre diverse possibilità di risposta, e
provoca ad interrogarsi sul nesso - tutt'altro
che scontato - tra umanesimo e
antropocentrismo. Essa rinvia alla questione
radicale circa la possibilità, per l'umano, di
non poter veramente prescindere dall'umano
stesso, per quanto possa o debba attribuire ad
altro - sia questo la natura, o il linguaggio,
o l'Essere - la ragione del proprio essere o
una estraneità inappropriabile.
Come osserva Charles Taylor in Sources
of the Self, il riassetto d'ordine ha
comunque significato un cambiamento
nell'orizzonte dei valori, che si è venuto
articolando sull'ideale dell'autenticità. Ha
comportato la richiesta che ciascun essere
umano scopra il proprio, originale modo di
essere che, per definizione, non può quindi
intendersi come socialmente derivato ma,
piuttosto, generato dall’interno. Dopo la
Rivoluzione Francese questo ideale ha
cominciato a saldarsi con la crisi della
società gerarchica e con l'affermarsi, anche a
livello socio-culturale, del primato della
eguale dignità, cui è andato connesso quello
della libertà. Per questa strada è venuta
emergendo in modo nuovo l'importanza della
relazione con altri, ricondotta in positivo
alla questione, che si impone oggi sulla
scena, del riconoscimento. In epoca premoderna
non si parlava di 'identità' o di
'riconoscimento': non perché l'identità non
fosse pertinente all'essere umano o perché
essa non dipendesse dal riconoscimento, ma
perché era qualcosa di troppo ovvio e pacifico
per venire tematizzata in quanto tale.
Attraverso l’etica del riconoscimento si può
recuperare l’idea dell’autonomia del soggetto
mentre la si ripropone al di fuori del suo
originario impianto soggettivistico:
l’autonomia è autonomia nella relazione e
grazie alla relazione, è ciò cui riescono a
condurre appunto relazioni di riconoscimento
riuscite. Ne deriva una rinnovata rilevanza
per il tema delle relazioni e dei legami,
della responsabilità personale e collettiva,
della politica e delle istituzioni.
Se chiamiamo, perciò, 'umanesimi' le
prospettive che intendono prendere le mosse
dalla centralità dell'essere umano, non
possiamo che rilevare come ciò significhi dire
una movenza che non ricomprende già il modo
del proprio svolgimento. È in questa apertura
di possibilità che leggiamo il proporsi della
discussione che a Firenze, tra il 9 e il 13
novembre 2015 si terrà come tema del quinto
Convegno Ecclesiale Nazionale, che i Vescovi
hanno titolato appunto: In Gesù Cristo il
nuovo umanesimo. Questi Convegni ecclesiali
con anniversari decennali hanno cadenzato i 50
anni che ci separano dal Concilio Vaticano II,
chiamando insistentemente in causa appunto
l'umano: nella prospettiva della promozione
umana; nell’orizzonte comunitario e in quello
sociale, del convivere nel rispetto di regole
stabilite democraticamente, sotto le cifre
esistenziali degli affetti, del lavoro e della
festa, della fragilità e dell’educarsi
vicendevolmente.
Nella diversità di articolazione delle
relazioni tra trascendenza e immanenza, tra
ateismo e fede, tra finitudine e infinitezza,
tra soggetto e alterità vengono a prender
forma quindi i differenti 'umanesimi'. Senza
pretese di (impossibile) ricostruzione
storica, i saggi della parte monografica di
questo numero di «Filosofia e Teologia»
intendono dare riscontro di tale pluralità di
voci e, con sapiente problematicità, offrire
uno squarcio su alcune delle diverse figure
che si sono venute disegnando, per pensare
ancora più a fondo che cosa significhi essere
umani.
Articolato in due sezioni, nella prima sono
compresi tre saggi che, in diversa
prospettiva, danno conto delle questioni di
fondo. Il testo di Francesco Totaro, dal
titolo programmatico Per
un nuovo umanesimo aperto alla trascendenza,
si impegna con piglio teoretico in una
problematizzazione del nesso tra immanenza e
trascendenza. Mentre distingue, in modo
raffinato, tra posizioni teoriche
apparentemente vicine, e critica
sovrapposizioni e scorciatoie indebite, Totaro
sa di non poter ricalcare i tracciati già
percorsi e prende con coraggio le mosse da un
'nuovo inizio', dall'assunzione dell'idea
della dignità-di-essere per proporre «un
umanesimo inclusivo della trascendenza».
Teologico invece il timbro del testo di Armido
Rizzi, che riprende, contestualizza e
attualizza il grande spessore di umanità della
teologia della liberazione che, come recita il
titolo, trova la propria peculiarità nella
insistenza sul rapporto essenziale tra Regno di Dio e
promozione umana. Si è trattato,
osserva Rizzi, non tanto di una nuova teologia
quanto di un nuovo modo di fare teologia: per
«il quale dimensione spirituale e dimensione
temporale devono sì essere distinte ma non
separate; dove la storia degli uomini è anche
la storia di Dio in mezzo agli uomini». Il
testo di Franco Toscani, La
questione dell'umanesimo, l'esistenza
e il senso dell'oltre, intende invece
sinteticamente ricordare alcuni luoghi teorici
rilevanti per la tematica dell'umanesimo e,
con particolare e consonante attenzione alla
riflessione di Martin Heidegger, raccoglierne
la provocazione ancora oggi attuale.
I contributi della seconda parte, raccolti
nella sezione Figure, chiamano a discutere di
'umanesimi' Löwith, Panikkar, Zubiri e la
corrente del post-human. Paolo Boschini, nel
suo Dal
nichilismo consapevole all'antropologia
naturale. L'umanesimo cosmocentrico
di Karl Löwith, ripercorre in questa
prospettiva il pensiero del filosofo tedesco,
che vede ruotare attorno al pensiero
fondamentale che il nichilismo sia «la
condizione strutturale dell'essere umano; non
è una situazione di emergenza culturale da cui
si può sperare, prima o poi, di uscire; né una
deriva del pensiero cristiano-metafisico da
combattere a tutti i costi». Messo in evidenza
il fallimento dell'umanesimo
cristiano-borghese, criticato l'umanesimo post
cristiano del progresso, è la volta di
accettare una forma di nichilismo consapevole
che rinvia alla sapienza della grecità. Non si
tratta, per Löwith, di autoaffermarsi contro
la natura: per propria essenza e proprio in
quanto essere totalmente naturale l'uomo è
capacità di autotrascendenza e di relazione
con l'altro da sé. Il testo di Calabrese, L'uomo come
relazione. La
proposta di Raimon Panikkar e Xavier Zubiri,
insiste invece sulla dimensione di radicale
relazionalità dell'umano, in una prospettiva
mistico-metafisica critica del pensiero
oggettivante, che mette in valore le nozioni
di relatività e rispettività elaborate appunto
dai due filosofi. Il testo di Labate, infine,
Umanismi senza antropocentrismo. A
margine della discussione sul post-human,
offre una prospettiva di lettura
teoreticamente originale, torcendo le
provocazioni della riflessione post-human in
vista della possibilità di un umanesimo non
antropocentrico. Lavorando, in particolare,
sul tema dell’alterità e quindi sulle coppie
artificiale-naturale e animalità-umanità,
Labate scorge da un lato il pericolo che
questa riflessione approdi «al solito lavoro
umano di appropriazione», dall'altro invita a
ripensare le alterità come inappropriabili,
come differenze che concernono l'umanità di
noi stessi.
L'auspicio è che la lettura di questi lavori,
che interrogano gli umanesimi e su di essi
riflettono criticamente, metta quindi in
movimento la costellazione semantica con cui
cercare di comprendere cosa sia 'umano':
invitando a ridefinire, riconcettualizzare,
risemantizzare, pluralizzare. Ad assumere, in
ogni caso, l'umana responsabilità di pensare
l'umano.