«Suona strano, approvo
la maggior parte di ciò che leggo». A esprimersi in questi termini,
riportati da Dilthey, non è il più superficiale dei relativisti, ma
Leibniz, strenuo fautore moderno della verità e della sua intima
razionalità. Quando si hanno intelligenza e pazienza sufficienti per
penetrare nelle fibre connettive delle diverse posizioni si troverà
verità anche nelle prospettive più distanti, persino in quelle
dell’avversario. È la verità stessa a differenziarsi, a variare
infinitamente, sino a farsi cogliere da rappresentazioni che
confliggono tra loro. Si legge nel paragrafo 57 della Monadologia
[1714]: «Come una medesima città, guardata da punti di vista
differenti, sembra tutta diversa ed è come moltiplicata secondo la
prospettiva, così, a cagione della moltitudine infinita delle sostanze
semplici, vi sono come altrettanti universi, i quali invece non sono
che le prospettive di un solo universo guardato secondo il differente
punto di vista di ogni monade». Sebbene toccato da intenti apologetici
– l’Europa come specchio dell’unica verità, insieme razionale e
cristiana –, Leibniz rende giustizia alla complessità e
all’indisponibilità della verità del mondo. È come in una metropoli dei
giorni nostri, dove si incrociano genti delle più svariate etnie,
lingue, religioni, maniere di vivere e di pensare. Farebbe di sé un
idolo quella parte in gioco che, forte solo della propria parziale
prospettiva, pretendesse di abbracciare in un sol sguardo quella
immensa città, resa inesauribile dal suo moltiplicarsi in un numero
infinito di rappresentazioni prospettiche. Eppure i differenti punti di
vista non sono erronei o illusori. In ognuno di essi riverbera la
verità di questa unica metropoli che è il mondo.
Il ‘relativismo’ leibniziano è interno al
dispiegarsi infinitamente vario dell’unica verità ed è sinonimo della
complessità insaturabile di questa. La stessa verità, infinita, si
articola e sfaccetta in un’infinità di prospettive, sì vere ma comunque
parziali, e dunque sovrastate dall’ampiezza del vero. Tuttavia quello
leibniziano, costituito anche dalle infinite rappresentazioni che lo
mettono in scena, è un universo armonioso, senza crepe e senza dissidi
incomponibili. Viceversa, se il relativismo continua ad attirare
l’attenzione di filosofi e teologi, è soprattutto perché è uno dei
principali atteggiamenti teorici nei confronti del fatto importante,
spesso drammaticamente doloroso, che gli esseri umani pensano,
immaginano e si comportano in maniera diversa. Non si tratta di mere
differenze di grado che increspino le acque di un denominatore naturale
condiviso, ma proprio di una concreta eterogeneità, resa ancor più
drammatica dal contrapporre esseri appartenenti allo stesso genere
umano e destinati a convivere nella medesima metropoli planetaria. Vuoi
per l’indisponibilità di mediazioni conciliative, vuoi – soprattutto –
perché non è l’assenza di verità a farci confliggere bensì proprio il
dissidio che è intrinsecamente costitutivo del dispiegarsi del vero, il
relativismo resta una delle chiavi per decifrare questo fatto che ci
affanna e insieme, però, ci interessa e meraviglia.
Perché, allora, le posizioni relativistiche
tendono a scontentare tutti, al punto che persino molti relativisti
sono riluttanti a dirsi tali? Perché esse sembrano ridurre a un che di
arbitrario e di casuale quanto è più rilevante per gli esseri umani: il
vero, il giusto, il bello. Più che paura il relativismo suscita
disprezzo critico. Ciò accade tutte le volte che, in chiave
semplicistica e pseudostorica, propone un variare superficiale e
interscambiabile delle idee e dei modi d’essere che sostengono la
nostra vita. Anche le cause, che esso considera determinanti, suonano
come circostanze del tutto accidentali, come se le questioni decisive
dell’esistenza umana fossero determinate da un gioco a ‘mosca cieca’
dello spazio-tempo. Fossimo nati in Cina saremmo confuciani o buddisti,
ma visto che siamo nati in Italia … Essendo nato in Europa dopo il 1945
da genitori pacifisti, questo figlio considererà guerra e violenza un
disvalore, fosse nato in un contesto storicamente o geograficamente
diverso le sue priorità valoriali sarebbero state opposte. La verità e
il senso morale parrebbero variare senza alcuna ragione fondativa, a
mo’ delle preferenze, individuali e insindacabili, che esprimiamo
‘scegliendo’ i gusti di un cono gelato. Peraltro, il disprezzo di noi
euro-americani per la superficialità di questo relativismo è alimentato
anche da una nostra sotterranea inquietudine. Infatti, pur senza averne
intenzione, esso rimanda a un’altra possibile verità che rischia di
riguardarci molto da vicino: come già intravedeva Voltaire, aprendo la
voce «Tolleranza» nel suo Dizionario filosofico, è in Borsa che oggi si
stabiliscono le regole condivise del gioco e quando usciamo da essa,
per tornare a casa, il variare di opinioni e abiti morali e religiosi è
tollerato perché innocuo. La diversità tra un ebreo, un cristiano, un
musulmano e un non-credente è solo un variare che ‘non fa la
differenza’. Ne siamo gelosi, ma come lo siamo dei vestiti nei nostri
armadi privati – ci caratterizzano e guai a chi ce li toccasse –, ma
contano nulla, se non a nutrire la nostra illusione di libertà e
originalità.
Nessuno degli odierni critici del relativismo mira ad avversare il
pluralismo che quello sembra difendere. Semmai si contesta il modo
astratto e inconsistente in cui questa difesa viene proposta: il
pluralismo come sinonimo di un’equivalenza indifferenziata delle
possibili alternative, specie quelle etico-morali. È in questa
direzione che, per esempio, Diego Marconi (
Per la verità.
Relativismo e filosofia, 2007) e Roberta De Monticelli (
La
questione morale,
2010) attaccano il relativismo, il primo più preoccupato di
salvaguardare la verità in senso epistemologico, la seconda più attenta
a disinnescare lo scetticismo pratico-morale. Entrambi si fanno
promotori della disposizione filosofica a rendere ragione e a
giustificare pubblicamente le nostre pretese di verità. Queste, allora,
non saranno tutte valide ed equivalenti, e sarà possibile scegliere le
ben argomentate, lasciando cadere le altre. Ora, già Aristotele (
Metafisica,
IV, 5-6) aveva sottolineato la non serietà delle posizioni
relativistiche, insistendo però su un ancoraggio realistico-ontologico
quasi naturalistico: il relativismo ritiene che asserzioni
reciprocamente contraddittorie possano simultaneamente essere entrambe
vere ma è solo un parlare
«per il piacere di parlare», privo
del rigore scientifico-filosofico necessario a riconoscere ciò che è
vero. Tuttavia Aristotele poteva additare come unico fondamento
l’ontologia della sostanza perché muoveva dal presupposto della
naturale autocentralità del cosmo e del logos ellenici: mancava ogni
sensibilità storica per la propria e per le alternative altrui. I
barbari, dunque, non erano altro che i non-greci. Occorre rimarcare,
allora, che la questione del relativismo è propriamente moderna e in
particolare ricordare, con Tito Perlini (
Verità Relativismo
Relatività,
2008), come non vi sia solo un relativismo sbrigativo e volgare, ma
anche uno serio, la cui dignità getta le radici nel romanticismo
tedesco. Con quest’ultimo emerge una nuova sensibilità per le
differenze che animano il moto della storia umana. Decisivo nel mediare
questa eredità romantica tedesca ai successivi relativismi ‘non
relativistici’ è stato Wilhelm Dilthey (
Nuovi studi sulla
costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito),
il quale ha insistito sulla nozione di ‘storicità’ in modo che
‘relativismo’ fosse sinonimo di finitezza e situatezza spazio-temporale
e linguistica, e non di assenza di vero valore o di arbitrarietà. Sono
questi motivi a preparare il ‘relativismo serio’ del Novecento, che
riemerge sul versante fenomenologico-ermeneutico, dove si sottolinea la
precedenza del mondo-della-vita, e sul versante wittgensteiniano, dove
si mostra l’inaggirabile rilevanza pragmatica delle forme di vita.
Il ‘relativismo’ heideggeriano e quello
wittgensteiniano – peraltro ben diversi tra loro – sono degni di
attenzione solo nel caso in cui non risultino riducibili a quelle
chiavi di lettura post-modernistiche che vi scorgono la semplice
liquidazione della verità. Resta infatti aperta un’altra via
interpretativa secondo la quale Heidegger e Wittgenstein, ognuno da par
suo, ridanno voce all’eteronomia esistenziale e pragmatica che vede gli
esseri umani consegnati a possibilità determinate, nel mondo-della-vita
e nella forma-di vita, dalla situatezza ontologica, spazio-temporale e
linguistica. Si tratta dell’eteronomia che lo spirito moderno sa
intendere solo come cedimento alla casualità e all’insensatezza delle
circostanze fattuali, recepite come una baraonda accidentale di
fenomeni, legata da mere contiguità spazio-temporali, da riscattare
attraverso il lavoro autonomo della ragione conoscitiva e morale. Lungi
dal portare acqua a siffatto idealismo rappresentativo, sia pure in
versione post-moderna, l’ermeneutica heideggeriana da un lato e
l’osservazione wittgensteinana dell’uso dall’altro ne sono viceversa i
più strenui antidoti. Dunque «i valori sono figli del tempo e dello
spazio» (Marconi) proprio come inteso dal relativismo? Tutta la
tensione filosofica di Heidegger e del secondo Wittgenstein mira a
mettere in luce il carattere non accidentale o arbitrario del
condizionamento ontologico, spazio-temporale e linguistico che viene
dall’essere – noi umani – concretamente ed effettivamente situati nel
mondo. È tale condizionamento la più concreta manifestazione della
verità, la quale è verità anche in quanto non si lascia prendere alle
spalle da quelle rappresentazioni che sono le nostre spiegazioni e
giustificazioni razionali. Ora, tutto questo comporta senz’altro una
minaccia per il progetto del moderno, basato com’è sulla promessa di
metodi che superino la naturale divergenza e conflittualità tra gli
umani, e tuttavia, a parte il fatto che tale progetto può vantare ben
pochi successi sulle situazioni di conflitto, l’autentico punto
cruciale sta qui: anche per il ‘relativismo serio’ non c’è mai errore,
tutti quanti sono nel vero. La verità è differenziata in se stessa,
segnata da eterogeneità che la pongono in dissidio con se stessa, e di
ciò non dispone alcuna soggettività libera, autonoma e razionale. Se
Heidegger e Wittgenstein restano ‘relativisti’, grandi e rigorosi, è
perché alludono a un altro tipo di responsabilità, disgiunta
dall’autocausazione, e soprattutto perché evitano ogni ipostasi
idolatrica della ‘fetta di spazio e di tempo’ dataci in sorte. La messa
in luce di una fondazione, che non dipenda dal principio di ragion
sufficiente o da quello di bivalenza vero-funzionale, è salvaguardata
da ogni blocco dogmatico e purista che occulterebbe innanzitutto la
storicità della situatezza ontologico-pragmatico-esistenziale umana.
Per quanto ineludibilmente conflittuali, i nostri modi di vivere non
sono monoliti impermeabili e semplicemente autoreferenziali. La
situatezza che ci condiziona è storica, e come tale costitutivamente
segnata da promiscuità e metamorfosi, prestiti e influenze patite.
Viceversa – come ebbe a sottolineare Jacob Burckhardt (Considerazioni
sulla storia universale,
1870) – «i barbari non spezzano mai il proprio guscio culturale, così
come l’hanno ricevuto. La loro barbarie è nella loro mancanza di
storia». Posseggono solo leggende autoreferenziali e «il loro agire
rimane legato alla razza».
La redazione Nord-orientale della Rivista ha
deciso di raccogliere questo fascicolo sotto un titolo al plurale, Relativismi,
in quanto molteplici sono gli ambiti – epistemologico, morale,
religioso, antropologico, culturale – e soprattutto le accezioni e le
valutazioni che se ne possono proporre. Peraltro gli stessi autori dei
contributi, qui presentati, hanno provenienze, sensibilità e competenze
assai diverse tra loro. Il quadro ne acquista, tale è l’auspicio, in
ricchezza e dinamicità.
Affidando al sommario e agli abstract il compito
di offrire una prima idea delle tematiche affrontate nei singoli saggi,
è possibile qui limitarsi a richiamare tre snodi, interconnessi, su cui
i contributori insistono attraverso considerazioni di taglio e giudizio
diverso. 1. Tutti distinguono tra relativismo e relativismo, e tuttavia
propendono per sottolineare come le domande e le risposte del
relativismo siano «fuori luogo» (Perissinotto), un «falso problema»
(Brena), in quanto scaturito da un «filosofare da fuori e dall’alto»
(Giannasi) o da «pigrizia intellettuale» (Costa), scissi dalla pratica
della vita. 2. Il relativismo pare ricondurre a fatti accidentali
(Giannasi) e a contingenze casuali (Brena) le scelte esistenziali,
morali e religiose, che risultano decisive per le nostre vite. Si
tratta allora, di contro, di portare in luce il carattere non
accidentale del modo in cui gli esseri umani significano e valutano le
proprie vite: le categorie di pensiero sono cucite nella stessa pelle
(Ligi), costitutive della prassi (Perissinotto), vi è una
ragionevolezza di tipo contestuale (Brena-Putnam), un ethos razionale
che permea le preferenze individuali (Giannasi-Husserl). 3.
‘Relativismo’ non si oppone ad assolutismo o a dogmatismo, ma a verità,
o meglio, a una relazione con il vero in cui questo ha una precedenza
comunque inaggirabile. Una verità performativa, storica e concretamente
antropologica, e perciò metamorfica e porosa (Ligi), dinamica e vivente
(Costa), effettiva come la chiamata di Dio cui risponde la coscienza
umana, cristiana, con l’atto della propria fede (Trabucco). Alla
questione della verità è connesso, sia pure in maniera eccentrica,
anche il contributo di Calimani. In esso si offre un esempio vivo di
relativismo interno alla verità, anziché opposto a essa. Nella libertà
e apertura dei possibili commenti alla Torah la tradizione ebraica
scorge il dispiegarsi effettivo della verità infinita del testo sacro,
verità che nel suo sottrarsi a ogni presa umana inequivoca e definitiva
si rivela proprio nell’esercizio infinitamente vario e ‘relativo’ della
libertà del commento.
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