«La vera croce del corpo vivente è il suo intreccio con il corpo fisico, un gravoso stare di traverso risparmiato agli animali, giacché essi non potendo soggettivarsi non possono neanche oggettivarsi. La capacità di oggettivare e de-oggettivare, ben evidenziata dal linguaggio, è loro negata; non hanno né io né me, non riconoscono se stessi allo specchio, e infatti abitano il corpo in modo diverso da noi» (Helmuth Plessner, Antropologia dei sensi, tr. it. di M. Russo, Cortina, Milano 2008, p. 70).
Dopo secoli logocentrici, stiamo assistendo a una svolta somatocentrica della cultura occidentale e non vogliamo esserne passivi spettatori. Il rilievo di Helmuth Plessner, che concepisce un'antropologia dei sensi nei termini espliciti di un'estesiologia dello spirito, costituisce allora il pretesto per tornare a riflettere su uno snodo teorico, i cui esiti alimentano il presente con significativi dibattiti nelle più varie aree di ricerca, un tempo lontane tra loro, ostili e non comunicanti: il corpo è oggetto, soggetto, o entrambi? Va indagato sotto il profilo della natura o della cultura? Della quantità o della qualità? Qual è il suo senso?
Avendo collocato il nostro esser-corpo sotto il segno di un conflitto insanabile — quello tra interno ed esterno, prossimità e distanza, centro ed eccentricità — Plessner pensa che la compenetrazione di trame naturali e spirituali generi una scissione che provoca una ferita lacerante. Sempre aperta. Egli nega all'umano la possibilità di essere tutt'uno con il suo corpo, unità della quale gli animali invece godrebbero, pur senza avvedersene. A partire dal bios, e in dialogo con le scienze naturali, prende in tal modo forma il significato spirituale dell'incorporarsi nel proprio corpo. Nascere uomo, nascere donna significherebbe allora imparare faticosamente ad abitar-si, perché il mondo, la realtà, prende corpo nei sensi. In certo modo, e provocatoriamente, si potrebbe allora dire che il mondo si fa carne? Che la comprensione del mondo come dimora soggettiva e intersoggettiva passa per il saper stare nella propria pelle, nella propria corporeità vivente senziente? Ma è questa una necessità o una libertà, un determinismo o una volontà?
L'attenzione converge quindi su un quesito antico eppure nuovo: qual è il senso dei sensi? Volendo comprenderlo, investigarlo, collocarlo nel quadro dell'epistemologia contemporanea, si è configurato un passaggio pressoché obbligato: allargare l'indagine dalla corporeità vivente al confronto con l'odierna concezione teorica della «materia», così come essa è emersa dallo sviluppo delle scienze moderne e, in particolare, della fisica contemporanea. Anche in questo ambito, il concetto di materia appare sfuggente, non univoco, non ancora definito in maniera puntuale. L'immagine intuitiva che ne abbiamo rimanda alle esperienze ordinarie del quotidiano, ma è un dato di fatto che essa sia divisibile in unità sempre più elementari, sino a una gradualità non più accessibile in modo sperimentale e non più descrivibile se non in modo quantistico. Dove sta, allora, il fondamento ontologico dell'impossibilità di separare ciò che è distinto? Perché, dove, come, collocare il lógos che sottenderebbe tale plurale ricchezza di essere, di enti, legandoli a sé in una catena vitale inarrestabile, piena di senso? Sono venute meno le proprietà basilari di localizzazione spaziale e di impenetrabilità, connesse a quelle di estensione e di moto locale, che Cartesio attribuiva alla res extensa, e la stessa stabilità e immutabilità delle cose si è profilata in aperta contraddizione con il ruolo decisivo dell'osservatore nella definizione dei processi fisici. Può la filosofia leggere i fenomeni della vita sotto la matrice categoriale del reale? Se è possibile individuare un lógos nella trama della vita e del vivente, e persino del creato e delle creature, dovremo cercarlo nel reale, nell'ideale, o dove? Se la capacità di dare senso e di cogliere significati è già una forma di pensiero, perché tale atto dovrebbe essere disgiunto da ciò che è concreto? Il binomio qualità/quantità può essere sciolto nella correlazione, o è destinato alla ferita, alla scissione, alla dicotomia?
Oggi, ci informano gli addetti ai lavori, forti evidenze empiriche suggeriscono che le proprietà emergenti dei sistemi complessi abbiano una loro propria «consistenza» ontologica, non riducibile al livello delle parti elementari costituenti: ma quale sarà, allora, la «materia» di tali entità? La domanda sull'ontologia della realtà materiale appare ineludibile e al contempo densa di questioni filosofiche che la trascinano verso il binomio realismo/idealismo. Si tratta di affrontare un tema epistemologico, quello della certezza (fino a che punto? in quale modo?) che questa o quella datità sia o non sia reale. Ma la pura e semplice fattualità è sufficiente e adeguata per costruire una scienza? È così che la domanda si radicalizza, quasi si estremizza: che cosa è la realtà stessa? E l'umano? «Io» sono una realtà? Quale? Siamo organismi viventi, ma le nostre percezioni sensibili vengono mediate culturalmente. La filosofia non è un mero prolungamento della biologia, né un'appendice della fisica: la ragione interroga se stessa, interroga l'umano nella sua paradossale appartenenza alla natura e alla cultura, nel suo vivere dentro e fuori il proprio corpo. Le parole di cui disponiamo per riferirci a noi stessi — io, coscienza, mente, sostanza, pensiero, ragione, interiorità, psiche, spirito — indicano anche la possibilità di de-centrarci, di prendere distanza da una supposta coincidenza tra l'io e il corpo proprio.
Inorganico, organico, animato, vivente. Ma che cosa significa essere un vivente? Quali sono le stratificazioni, le modalità del vivere? Come leggere il legame del corpo a un principio vitale e a un io? C'è un oltre della materia? Quale? Non solo il «corpo», ma il vivente nella complessità delle sue stratificazioni costitutive e la vita nei suoi diversi livelli di organizzazione mondana, materiale e formale, hanno di recente contribuito alla formulazione di nuove istanze teoretiche e nutrito interrogativi ulteriori. Quale disciplina ha più di altre le carte in regola per rispondervi adeguatamente? Quali sono i vari volti del materialismo, e come si configura oggi la questione sul piano epistemologico? Con la rivoluzione tecnica e scientifica che ha contraddistinto l'epoca attuale, la nozione di materia è profondamente mutata rispetto alla tradizione, e questo è un dato assodato e non contestato dalle scienze naturali, fisiche e biologiche. Si può dire altrettanto sul versante largamente antropologico ed etico? È la materia la fonte del male? Qual è il significato, se c'è, di un recupero di ciò che chiamiamo «materia» in riferimento all'umano e all'interumano che abitano il mondo, e al sacro, al divino, al rapporto umano-divino? E, in una prospettiva più prettamente teologica, qual è — nell'ottica della rivelazione ebraico-cristiana — la relazione tra la materia, nella pluralità delle sue significazioni, e Colui che le è assolutamente «oltre»? La categoria di creazione, con la quale viene configurata una tale relazione, quale tipo di rapporto presuppone tra la materia e il suo creatore? E che tipo di nesso c'è, al contrario, tra Dio e il creato? Fino a che punto è possibile esprimerlo e concettualizzarlo? Inoltre: quali istanze metodologiche devono essere soddisfatte, per procedere a un confronto multidisciplinare su questo tema? Quali orizzonti si schiudono, quali scenari si aprono procedendo dallo svelamento della materia nei suoi costituenti elementari?
Superata la concezione newtoniana, che separava materia ed energia, le scienze empiriche hanno indagato gli elementi strutturali che ne stanno alla base, sino al rilievo di caratteri sottili, forse non del tutto determinabili in senso linguistico, ma evidenti sul piano di quei dati sperimentali favoriti dal progresso tecnologico. Ma di quale «evidenza» si tratta? Noi non possiamo «vedere» gli oggetti di cui si parla, ma possiamo interpretarli con modelli basati su uno sfondo epistemologico che esclude per tali oggetti tutte quelle caratteristiche che ragionevolmente si applicano alla materia dell'esperienza ordinaria. Senz'altro la materia è un campo di ricerca privilegiato per le discipline scientifiche, da quelle matematiche a quelle che la tradizione definisce naturali, biologiche e fisiche, sino a quelle informatiche e neurofisiologiche, più giovani; tuttavia, l'analisi filosofica di tale nozione rimane un impegno al quale il pensiero non può sottrarsi. Quale realtà attribuire alla materia? Quale statuto ontologico, e quale legalità epistemica? Si è così aperta una discussione tra filosofia, teologia e scienze della natura sulla questione della determinazione ultima della realtà, che ne individui i rinnovati nessi sul versante metafisico, ontologico e cosmologico e ne valuti le ricadute segnatamente antropologiche, etiche e sociali. La (ri)lettura dell'idea di materia nell'arco della storia della filosofia e della teologia non può essere disgiunta da una riflessione sui suoi correlati per così dire ovvi e scontati — l'energia, l'informazione, lo spazio, il tempo, la quantità, la misura, l'estensione — come anche su quelle nozioni che, nella storia del lógos occidentale, l'hanno affiancata in senso oppositivo — spirito, psiche, mente, forma, sostanza, anima, qualità, eternità, pensiero.
Ma è possibile non cadere nel tranello della dicotomia, nella prigione intellettuale del dualismo? Gettare uno sguardo sulla complessità, senza ridurla? Mettendo a punto un'analisi che tenga conto dei diversi approcci, senza sfociare nel mito dell'irenismo interdisciplinare? Focalizzando la questione dell'interdipendenza e rintracciando significative figure della materia nella storia del pensiero occidentale, sino all'ascolto di prospettive culturali altre, come quella vitalogica della tradizione africana? Qui risiede il senso della presente proposta che, in modo corale, abbiamo cercato di avanzare, ciascuno nel campo peculiare delle proprie competenze: l'impossibilità di separare i distinti, in vista dell'unità del sapere. La convergenza sta nell'approccio non riduzionista al tema proposto, e nella conseguente interdipendenza degli sguardi.
Il contributo di Angela Ales Bello offre un originale excursus, che inquadra la questione della materia in prospettiva storica oltre che teorica, focalizzando l'attenzione su alcune figure peculiari della storia del pensiero. Dall'atomismo e dal meccanicismo di Democrito ed Epicuro che, lavorando sull'immanenza dell'oltre della materia, danno seguito a un'interpretazione metafisica che conduce all'ateismo, si propone una ricognizione della distinzione tra qualità primarie e secondarie, maturata già nel mondo antico, che sarà poi alla base della nascita della scienza moderna con Galilei. Si propone quindi un'interpretazione del pensiero di Marx come oscillante tra la necessità democritea e la libertà interiore di Epicuro: gli esseri umani possono intervenire nella storia o essa è legata a un cieco determinismo? Se ne conclude che l'oltre della materia, non ammesso né risolto da Marx, ma in qualche modo sotterraneo al suo pensiero, ripristina il quesito sul senso della libertà dell'umano. Nella modernità, è con Leibniz che si rintraccia l'esigenza di una puntuale distinzione epistemologica tra filosofia della natura e scienza della natura, tra il rilievo del senso della materia e la lettura matematica di essa, e già si respira un'aria di famiglia con l'impostazione fenomenologica, che Ales Bello spinge sino all'analisi husserliana della nozione di schema sensoriale, di estensione spazio-temporale, di hyletica e noetica, dei plena, della natura inorganica e della natura animale vivente, e delle indagini della biologa Hedwig Conrad-Martius, la quale rivisita l'entelecheia aristotelica nel quadro di una fenomenologia realistica.
Considerando la storia della scienza occidentale nella sua totalità, il saggio di Alessandro Cordelli ne rileva un aspetto peculiare: la domanda con cui si apre questa straordinaria avventura — ovvero quale sia la natura del principio di cui sono fatte tutte le cose —, dopo le prime indagini dei presocratici è stata accantonata fino ai tempi recenti, quando la necessità di andare oltre il modello standard delle particelle elementari, come pure di trovare una convincente interpretazione per la meccanica quantistica, ha riportato alla ribalta la questione. Per l'esperienza quotidiana, come per la meccanica di Newton, la materia è un dato di fatto, un a priori di cui, coi successivi progressi della fisica, si è indagata la struttura, ma non la natura. Attualmente, di fronte all'oggettivo stallo nel quale si trova la fisica teorica, la domanda sull'ontologia della realtà materiale appare ineludibile, prefigurando una nuova fase dell'indagine scientifica, nella quale gli aspetti descrittivi e predittivi verranno completati da una più profonda comprensione del mondo in cui viviamo. Cordelli segnala che il rifiuto delle forme di realismo forte, associate al materialismo, non deve necessariamente condurre a posizioni estreme di idealismo, che spostino interamente sul soggetto l'onere della costruzione della realtà. Anche un concetto basilare come quello di materia nasce dall'interazione del soggetto con il mondo: il reale, così come esso è, si trova un passo indietro rispetto a coscienza e realtà empirica, che co-emergono da esso.
Il contributo di Patrizia Manganaro avvia la riflessione registrando lo spostamento di prospettiva che dal quesito «Che cosa significa pensare?» ha condotto all'altro «Qual è la materia del pensiero?», chiedendo ragione della legittimità di una tale traduzione: si tratta davvero di due domande equivalenti? La questione è stringente e l'obiettivo è quello di focalizzare l'attenzione sui motivi che hanno indotto buona parte del mondo neuroscientifico ad abbandonare l'alleanza con le scienze cognitive e la philosophy of mind di matrice analitica, per guardare con occhi nuovi le idee fenomenologiche di esperienza in prima persona della realtà, di intenzionalità, di corporeità vivente, di empatia. Manganaro mette in rilievo la problematicità di una tale richiesta, contestualizzandola nella grande area che oggi va sotto il nome di neurocultura, e qualificandola come una ripresa, in chiave nuova, della questione della naturalizzazione della coscienza e dell'esperienza soggettivo-qualitativa. Ovvero di una forma peculiare di materialismo, tipica della post-modernità. La fenomenologia appare l'oltre al quale le neuroscienze cognitive si rivolgono nell'indagine dell'umano, ammettendo in modo implicito l'insufficienza del metodo sperimentale e dei suoi risultati. Un oltre connesso all'impegno fenomenologico di condurre l'indagine epistemologica sul «come» qualitativo, strutturale, formale, e non soltanto sul suo aspetto quantitativo, funzionale ed esatto.
Il saggio di Emmanuele Vimercati individua nel pensiero di Numenio di Apamea sul principio materiale e sul male alcune questioni filosofiche aperte: in quale rapporto stanno l'anima buona, quella malvagia, l'anima del mondo, la materia e il demiurgo? Si mettono in evidenza gli aspetti di dipendenza da Plutarco, puntualizzati in alcuni snodi cruciali: la critica, densa e articolata, alla concezione iletica degli Stoici, accusati di introdurre il male nel cosmo senza una derivazione causale e un processo generativo; la ricognizione dell'origine dell'accostamento tra la materia e il male, che emerge con chiarezza in Plutarco, il quale con tutta probabilità riprende questioni presenti in Senocrate e nell'insegnamento orale di Platone; la critica di Numenio alla falsa derivazione della diade dalla monade, sostenuta da alcuni Pitagorici, e il problema della generazione della materia, che l'Apamense intende in senso ordinativo, per concludere con la concezione dell'anima della materia come malvagia. La materia sarebbe eterna come Dio nel suo essere indeterminata, ma generata in quanto ricettiva dell'intervento demiurgico del divino, come già attestato nel Timeo platonico e nella successiva tradizione platonica. In ciò, la potenza divina riuscirebbe a compiere ciò che risulta impossibile alla natura.
Il contributo di Riccardo Ferri pone la questione del rapporto della materia e, in generale, di tutto il creato col suo Oltre, cioè con Dio, suo creatore, nella prospettiva di Tommaso d'Aquino. Tommaso, in particolare, utilizza due espressioni per indicare tale relazione: quella secundum rem, che connota il rapporto creato-Dio, e quella secundum rationem, che invece caratterizza il rapporto Dio-creato. Pur salvaguardando l'asimmetria di tali distinte relazioni, queste espressioni — specie se interpretate secondo la concezione moderna di res e di ratio — rischiano di ridurre il rapporto Dio-mondo ad un livello esclusivamente concettuale, con la conseguente rappresentazione di un Dio indifferente rispetto al creato. In realtà, un esame dei due tipi di relazione non solo nell'ambito della teologia della creazione, ma anche in quello trinitario e cristologico (dato che li troviamo impiegati sia nel rapporto tra essenza e persone divine, sia in quello tra natura umana e natura divina in Cristo) aiuta a compiere un'ermeneutica più attenta di tali categorie tomasiane. Affermare, infatti, che tra il creato e Dio ci sia una relazione secundum rem, significa riconoscere che le creature sono quello che sono solamente nel loro rapporto col creatore; cosa che non risulta nella relazione inversa, quella secundum rationem tra Dio e il creato, data l'assoluta trascendenza di Dio rispetto al mondo.
Il saggio di Martin Nkafu Nkemnkia offre un contributo peculiare, facendo ruotare il pensiero africano sulla materia intorno al nesso stringente tra mondo, essere umano ed Essere supremo e/o Creatore, in una sorta di ineliminabile pervasività dinamica. Si tratta di realtà a un tempo ontologiche e vitalogiche, interdipendenti, in una gerarchia di valori che capovolge l'assunto prevalente in Occidente, invertendone l'ordine e gli eventuali dualismi oppositivi: dal Creatore, agli esseri viventi, alle cose inanimate. Il mondo è un ente eterno, che nella tradizione vitalogica africana si presenta come il migliore possibile, l'unico, perché in se stesso incorruttibile e costantemente generativo. La forza vitale, espressione della modalità con la quale il mondo si porta a manifestazione, nella generazione di nuova vita che mette tutto e tutti in relazione, è l'Essere supremo stesso, il divino.
Il contributo di Roberto Poli propone una ricognizione delle idee scientifiche di Nicolas Rashevsky, afferenti all'elaborazione di una disciplina nuova, che si affaccia sulla scena culturale negli anni Cinquanta del Novecento: la biologia matematica, i cui sviluppi consentiranno la messa a punto di una strategia metodologica originale e per molti versi rivoluzionaria, la biologia relazionale, con esiti importanti anche nel campo della psicologia e della sociologia. Contrariamente ai criteri della biologia molecolare, con Rashevsky assistiamo all'ingresso della domanda che verte sulla «qualità» e sul «perché»: una prospettiva che si colloca oltre quel riduzionismo che fa dei fenomeni biologici una questione meramente quantitativa. Poli introduce una riflessione filosofico-ontologica sull'impossibilità di separare i distinti, la quale implica la ricerca del fondamento qualitativo del mondo organico, considerato come un'unità integralmente unificata.