La comprensione del rapporto
istituito dalla congiunzione che si colloca "tra"
il sacrificio e la croce passa anche attraverso l’elaborazione
e la riappropriazione, da parte del pensiero contemporaneo,
della nozione di "segno". La quale costituisce
uno dei canali preferenziali, una delle strade maestre
sulla via del "filosofico-teologico", nella
consapevolezza dell’inesauribilità della
ricerca: il linguaggio stesso arranca e ammutolisce, di
fronte a un’eccedenza che impedisce l’ordinaria
articolazione del campo semantico, spingendo incessantemente
verso un altrove. Alla fine degli anni Sessanta, Roland
Barthes scriveva che «la disintegrazione del segno
sembra davvero essere la grande questione della modernità».
La sua penna graffiante ed efficace consente oggi di dire,
con un gioco di parole, che egli coglieva proprio nel
segno, centrando uno dei punti nodali che hanno fatto
la storia del pensiero del secolo appena trascorso. Nel
quale le nozioni di "segno" e di "simbolo"
– attualmente di stretta competenza semiotica –
sono state oggetto di discussioni e dibattiti che hanno
potuto avvalersi dell’apporto di logici, linguisti,
letterati, epistemologi, matematici, psicologi e sociologi,
oltre che ovviamente di filosofi e teologi di professione,
con esiti che spesso hanno svuotato di senso e di contenuto
il linguaggio – ovvero l’uso intersoggettivo,
condiviso, pubblico, dei segni significanti.
Se, come è assai probabile, il latino signum
deriva dal verbo secare, le fratture e i contrasti d’ombra
che connotano tale svuotamento semantico risultano allora,
sia pure in modo implicito, già drammaticamente
inscritti e performativamente attivati nella/dalla "potenza"
del significare, nell’istituzione stessa della correlazione,
non priva appunto di adombramenti, tra il significato
e il significante. Ma in un senso più ristretto
e al contempo più profondo, il segno dice anche
e con forza la possibilità del riferimento di un
oggetto o evento presente a un oggetto o evento non presente:
sotto questo riguardo, esso racchiude ogni possibilità
di riferimento e/o denotazione e dunque, per estensione,
caratterizza in modo essenziale l’umano nella sua
capacità di utilizzare il passato per la progettazione
e/o programmazione del futuro. Eppure l’atto del
secare, del tagliare-separare-recidere in modo netto,
deciso, se non brutale e violento, risulta rafforzato
soprattutto a partire dalla necessità – non
solo etimologico-semantica – della ricomposizione
della frattura, che il symbolum espressamente
richiama. Necessità che dice l’oscillazione
dell’essere umano – animale simbolico –
tra l’equivoco e la chiarezza, tra il fraintendimento
e la perspicuità, tra la divisione e l’unità.
Ovvero tra la frammentazione disgregante e la ricomposizione
rassicurante; tra la separazione non priva di sofferenza
e l’auspicato, agognato ristabilimento dell’originaria
unione.
Il segno della croce, che in modo ostensivo dice il gesto
e l’atto di adesione con cui il credente traccia
su di sé la croce pronunciando una formula trinitaria
corrispondente, è il simbolo iconografico della
crocifissione del Cristo. Lo esprime Agostino in forma
di domanda: «Quid est signum Christi, nisi crux
Christi?». Urto, spada, violenza e sofferenza sono
inequivocabilmente presenti nel sacrificio e nella croce
– nel sacrificio della croce, che pure e tanto più
è il segno emblematico, supremo, persino sconvolgente,
dell’amore agapico del Padre, proprio così
rivelato dal Figlio. Ci si trova dunque di fronte a un
dilemma, a un equivoco, a un fraintendimento? Come e a
quale titolo la via "filosofico-teologica" può
almeno tentare di dirimere gli intricati nodi che la legano
come un laccio a una questione cruciale, la cui aporeticità
suggerisce, e forse anche provoca, lo scacco della ragione?
Il sacrificio della croce: quale logica, quale linguaggio,
quale lógos agisce ed è presente in questo
evento? Quelle che a prima vista appaiono aporie bloccate,
chiuse all’ulteriorità e all’eccedenza,
sono in effetti paradossi del pensiero in atto. Nell’esperienza
di un senso verso cui ci si orienta razionalmente, la
figura logica del paradosso scioglie l’aporia e
il dilemma; esprime la possibilità di salvaguardare
un legame che non si trasforma in sterile coincidenza,
anzi preserva, persino esalta, il suo carattere antinomico:
consente cioè di pensare l’antitesi mantenendo
e distanza e collegamento, nel dinamismo del percorso
esperienziale. In tal modo, il paradosso è sempre
extra ordinem: la sua stra-ordinarietà
e/o non-ordinarietà manifesta un deciso contrasto
con i pregiudizi e con le opinioni correnti, comuni, consolidate,
suscitando meraviglia e stupore; non elidendo, ma mantenendo
gli opposti nella loro struttura antinomica, esso esprime
un carattere dirompente. Provocatorio tanto per il filosofo,
quanto per il teologo.
Che il fenomeno sacrale-religioso sia nel suo complesso
legato – sotto molteplici versanti e con diverse
sfumature e modalità espressive – all’irruzione
della violenza che atterra e sopprime, è un "dato"
acquisito e studiato da discipline costitutivamente autonome
nel loro statuto epistemologico e nel metodo: di fatto,
negli ultimi decenni esse hanno offerto, e tuttora generosamente
offrono al nostro sguardo, indagini di spessore e comparazioni
talvolta efficaci e salienti, talaltra suggestive e sorprendenti,
sulla ‘cosa stessa’ che il ‘sacro’
è. Ma questo ‘dato’ unanimemente accettato
costituisce al tempo stesso un inciampo. Inutile negarlo:
il gesto, l’immagine, l’atto, l’idea
stessa della pratica sacrificale suscitano disagio e allarme,
una repulsione quasi incontrollabile, che l’uomo
e la donna occidentali contemporanei faticano a sostenere
e a placare. Si tratta di un rifiuto ostinato, originato
da un sentire i cui punti cardinali si profilano come
l’inaccettabile, l’incomprensibile, l’ingiustificabile,
l’inesplicabile. Tale sentire ha avuto se non altro
il merito di scuotere il pensiero credente dall’inedia
di una riflessione statica, impigrita e tutto sommato
negligente. Che sia poi non solo legittimo e plausibile,
ma epistemicamente auspicabile e persino necessario, pensare
il sacrificio nella forma della concettualizzazione, risulta
del tutto pertinente, oltre che tentato da più
parti con risultati altrettanto interessanti e fecondi.
Certo, il pensiero si vede costretto a svolgersi ermeneuticamente,
a danzare nel ritmo vorticoso e inesauribile dell’interpretazione.
In una bella pagina di Emmanuel Lévinas si legge
che «le questioni relative a Dio non si risolvono
con delle risposte in cui l’interrogazione cessa
di risuonare, in cui si placa pienamente. La ricerca non
potrebbe qui progredire in maniera rettilinea. Alle difficoltà
dello spazio che si esplora, probabilmente si aggiungono
sempre le goffaggini e le lentezze dell’esploratore.
Sono in questo modo attestate le tappe di un itinerario
che spesso portano al punto di partenza». Criticamente
consapevole del suo limite come del suo affanno, la ratio
li attraversa rasentando il fallimento, e in questa assunzione
di responsabilità nei confronti di un rischio così
elevato essa ridisegna il suo profilo. E ciò in
special modo nell’attuale orizzonte culturale, che
sembra rispondere con enigmatica puntualità al
"destino" (all’identità?) che l’Occidente
– Abendland, terra del tramonto –
pare portare in grembo sin dalla sua vicenda etimologica
e semantica: un destino inequivocabilmente crepuscolare.
Di caduta, di declino, di spegnimento dall’interno.
Nel quale però si riflette come in uno specchio
il brillare, ancora timido e fievole, dell’urgenza
di un rinnovamento, di un ribaltamento, forse anche di
una trasfigurazione. In questo contesto, non è
difficile intuire il contributo che una riflessione sul
sacer facere può apportare all’attuale temperie
culturale, toccando punti nevralgici (e dolenti) tanto
per l’uomo e la donna di pensiero, quanto per l’uomo
e la donna comuni. Il ruolo strategico di una tale riflessione
dovrebbe consistere in prima istanza nel chiarimento dell’intreccio
– riscontrabile in modo trasversale in culture e
tradizioni di ogni tempo e luogo, ma in ogni caso tragico,
drammatico, patico – che lega il sacro e il sacrificium
alla violenza, la soppressione cruenta alla pacificazione
collettiva, il sangue sacrificale di un singolo alla liberazione
e/o salvezza di tutti. Con conseguenze che sollecitano
il più vivo interesse dell’antropologo come
dell’etnologo e dello storico, del filosofo come
del fenomenologo e del teologo, dello psicologo come del
sociologo e del politologo. E l’elenco potrebbe
allungarsi ancora.
L’epoca odierna, contraddistinta da lacerazioni
e spinte disgreganti, fatica ad autocomprendersi e persino
a darsi un nome – l’abuso dell’aggettivo
sostantivato "postmoderno" testimonia il disorientamento,
l’inadeguatezza e la confusione che sempre contrassegnano
i momenti di passaggio e le mutazioni epocali. Nel travaglio
non solo culturale che agita questo tempo che è
il nostro, scenari planetari prima inimmaginabili sono
stati aperti – ma sarebbe meglio dire squarciati
– dall’ondata di un irrazionalismo, di un
integralismo e di un fanatismo che molto hanno a che fare
con la distorsione del ‘religioso’ e con l’ideologia
dello scontro di civiltà. Ma non si ritiene opportuno,
in questa sede, indugiare oltre su questi e sui tanti
altri -ismi che tale fenomeno distruttivo porta
con sé. Preme piuttosto farsi carico fino in fondo
del senso, del significato, dell’esperienza testimoniata
e vissuta – Lebensform, direbbe Ludwig Wittgenstein;
Erlebnis, secondo la dizione fenomenologica di Edmund
Husserl – di un pensare costretto a lottare con
il paradosso, con l’urto: in definitiva, con l’altro
da sé. Con il suo non. Ovvero di declinare il pensiero
sul sacrificio nella forma della concettualizzazione,
al contempo relazionandolo con ciò che non è
in alcun modo passibile di concettualizzazione e/o categorizzazione.
L’impegno di queste pagine è stato quello,
se non di esaurire un siffatto compito, almeno di non
disattendere un tale svolgimento ermeneutico, di non sottrarsi
cioè alla responsabilità della ricerca,
con colpi di sonda per così dire a raggiera.
Il tema in esame suona proprio così: «Il
Sacrificio e la Croce» – e non, come si sarebbe
potuto facilmente immaginare o supporre seguendo una dizione
assai divulgata, utilizzata e celebrata, quale «La
violenza e il sacro» (è a tutti nota la presenza
di un tale titolo nelle dense riflessioni di René
Girard, il quale intorno agli anni Ottanta ha fornito
una sistemazione organica della sua teoria sacrificale,
rendendo l’ipotesi mimetica esplicativa della genesi
di ogni ordine sociale e culturale). Ebbene: quale rapporto
si instaura tra la vittima sacrificale e l’Agnus
Dei cristiano? Tra il sacro e il mistico? Tra il patibolo
e il trono? Quale nesso tra il meccanismo del capro espiatorio,
ritualità risolutiva del circolo autodistruttivo
della violenza societaria, e l’Agnello immolato,
sangue pasquale che salva, redime e comunica lo Spirito
di Dio? Come pensare una morte sacrificale e regale, un
sangue versato la cui enigmatica verticalità è
in grado di ridonare la vita? Infatti: «Ed io vidi
in mezzo al trono e ai quattro esseri viventi e agli anziani
un Agnello, ritto in piedi come immolato» (Ap 5,6).
Nel passaggio da Dioniso a Cristo si rende manifesto il
capovolgimento dalla prospettiva mitica (persecutoria)
del capro espiatorio a quella evangelica (salvifica) della
vittima innocente e del giusto sofferente, sino al totale
rovesciamento del primato nietzscheano di Dioniso sul
Crocifisso: l’innocenza del divenire è ora
l’innocenza della vittima, gli ultimi e i deboli
essendo i "capri espiatori" della storia. Lo
scarto che ne risulta è a un tempo teoretico e
pratico, andando a connotare un’interrogazione,
un tentativo speculativo arduo e forse anche ardito, ma
certamente carico della forza della ragione, noetica e
dianoetica. Come quello vibrante nella domanda, radicale
nella sua durezza, pungente nella sua intelligenza, feconda
nel suo stupore, posta da Ferdinand Ebner in un cruciale
passo di Das Wort und die geistigen Realitäten.
Pneumatologische Fragmente: «Come può
osare una “cultura” porsi sotto il segno della
croce?».
Cultura e croce. Ed è proprio questo il punto:
che tipo di signum è la croce – o meglio,
il sacrificio della croce? Perché tale sacrificium
non è solo il cuore pulsante del cristianesimo,
ma costituisce l’ossatura ermeneutica, nonché
la grammatica, la semantica e la pragmatica, della "logica"
trinitaria, una logica altra, una teo-logica; inoltre,
esso si propone come modello e/o paradigma culturale,
civile e pubblico, nel quale viene esercitata, testimoniata
e portata a compimento una "pratica" non egologica
né egocentrica della soggettività. Un tema
sul quale si è ancora poco riflettuto, ma che apre
il campo alla costruzione di una civiltà e di un’umanità
nuove, fondate sulle categorie dell‘essere-per-l’altro
e, per usare una metafora cara alla mistica cristiana,
del "castello esteriore", il quale pneumaticamente
scaturisce da quello interiore dicendo comunità
agapica. Il numero monografico che qui si presenta, proponendosi
all’attenzione del lettore con riflessioni dense
di pathos argomentativo, nasce da un confronto
interdisciplinare e interuniversitario tra filosofi e
teologi, i quali hanno condiviso un percorso di studio
certamente complesso, articolato e stringente, ma lineare
nell’intento di fondo. Che è stato quello
di esaminare, di focalizzare il nodo propriamente ‘filosofico-teologico’
della questione, specifico in ordine all’evento
del sacrificio della croce e alla categoria della "sostituzione
vicaria", temi del comune indagare di queste pagine:
un quaerere comunitario che non ha potuto fare a meno
di interrogare ascoltando, di interpellarsi vicendevolmente,
di pensare nella responsabilità e nella reciprocità
del dialogo. Ma ciò, pur necessario, non ha potuto
da solo essere sufficiente: perché la riflessione
sulla "cosa stessa" che il signum della
croce è ha esigito ancor più il rigore del
pensiero. Il doppio vincolo della soppressione e dell’oblazione
(della violenza e del dono, appunto), che risulta intrinseco
alla dialettica del sacrificio, ha in tal modo istruito
un itinerario di ricerca battuto dal filosofo e dal teologo
nell’autonomia dei rispettivi criteri epistemologici
e metodologici.
Vediamo anzitutto la ratio teologica. Passando
in rapida rassegna i contributi del fascicolo presenti
nella sezione ‘figure’, Giovanni Odasso sottolinea
che il ‘significato’ e insieme il ‘senso’
del Servo sofferente in Isaia risiedono nella rivelazione,
comunicazione e proclamazione della propria identità
in relazione alla sua funzione salvifica e al suo ministero,
nell’orizzonte profetico della sofferenza e nello
spazio universale dell’accoglienza della Parola
– in questo contesto, e con tali premesse, si potrebbe
osservare che diventa allora paradigmatica l’esperienza
originaria, unica e irripetibile della Theotókos,
della creatura genitrice di Dio, come anche quella di
Maria Serva (ministro?) del Signore nell’Annunciazione:
ma si tratta di un argomento che va oltre il tema che
si sta qui sommariamente esponendo – per poi sottolineare
l’energia della Parola, che penetra in modo efficace
il "noi" comunitario. Riccardo Ferri svolge
una puntuale ricognizione della nozione di sacrificio
così come è argomentata nel libro X del
De Civitate Dei di Agostino, soffermandosi in particolare
sulla questione del valore definitorio o descrittivo da
attribuire all’espressione «verum sacrificium
est omne opus, quo agitur, ut sancta societate inhaereamus
Deo», sull’accezione di ‘vero sacrificio’
e sul rapporto tra il sacrificio "visibile"
e "invisibile". Roberto Nardin analizza la portata
teologica della soteriologia anselmiana riprendendo e
rilanciando la teoria della ‘sostituzione vicaria’,
di cui esamina il carattere amartiologico (soddisfazione
dal peccato), l’orizzonte dossologico e quello escatologico,
mettendo infine a fuoco il rapporto tra il momento ontologico
e quello etico-morale. Sergio Ventura contribuisce a un’ermeneutica
del pensiero del già citato René Girard,
rintracciandone l’unità di fondo e ricostruendone
l’opera in modo sistematico: portando in superficie
alcuni significativi indizi presenti negli scritti dell’antropologo
francese, Ventura "fotografa" la struttura della
teoria mimetica secondo un procedimento e/o un andamento
triadico-trinitario. Passando alla ratio filosofica,
Angela Ales Bello inquadra il sacrificio della croce nel
proprium dell’esperienza mistica, facendone emergere
la specificità rispetto alla fides: è la
questione dell’unione con Dio, così come
viene offerta dalla lettura delle ultime, incompiute e
dunque tanto più significative pagine di Edith
Stein dedicate alla Scientia crucis di S. Giovanni della
Croce, poco prima che la filosofa fenomenologa condividesse
liberamente e volontariamente la tragica sorte del popolo
di appartenenza. Il supremo sacrificio indica qui l’annullamento
(non ontologico) di sé come purificazione e salvezza,
come libero dinamismo della kenosi. Un tema presente,
non senza intimo scuotimento, non senza timore e tremore,
anche in Luigi Pareyson, con la dialettica di impotenza
e onnipotenza ascrivibile a Dio, che emerge in alcune
delle pagine che seguiranno: l’esperienza kenotica
è e punta infima dell’impotenza di Dio e
vertice della sua più sfolgorante onnipotenza.
Di qui il mistero del male e della sofferenza, inestricabilmente
connesso ai temi dell’essere e della libertà,
sui quali Pareyson si è a lungo interrogato, sino
all’espressione più compiuta e ardita del
suo pensiero.
Un’ultima sintetica considerazione sulla sezione
che apre il volume, dedicata secondo lo stile della rivista
a sollevare in via preliminare alcune ‘questioni’
teoriche di fondo. Vi si trovano raccolti i contributi
di Piero Coda, Emilio Baccarini e Patrizia Manganaro,
la cui interazione dialogica riflette i principi e gli
intenti che l’hanno nutrita sin dalle origini. Coda
propone una teo-logica della relazione tra il divino e
l’umano scavando nel Mysterium Trinitatis dischiuso
dall’evento della croce, mentre Baccarini e Manganaro
accentuano l’interrogazione filosofica sulla questione
etico-antropologica emergente dall’analisi delle
categorie di "sostituzione" e dell’essere-per-l’altro
il primo; e sul complesso rapporto tra il "filosofico-teologico",
il "sacro" e il "mistico", che rimanda,
implica e persino "lotta" con la dimensione
patica, kenotica, della ragione, la seconda. Questo il
filo conduttore degli studi qui riuniti, un coro a più
voci che non è stato mero assemblaggio ma solerte
impegno a pensare, e pensare insieme, filosofi e teologi,
l’evento salvifico e tuttavia sacrificale che quel
legno dischiude.