«Meglio qui provvisori
che là definitivi», commentava a mezza voce
una persona, mentre ascoltava ricordare dal pulpito l’antica
verità (o l’antica menzogna) secondo cui
gli esseri umani sono qui sulla terra soltanto di passaggio.
Tale considerazione a mezza voce riassume familiarmente
tutto il problema del «penultimo», che esiste
soltanto se esiste anche un «ultimo»: termini
che non possono definirsi se non reciprocamente. Alzare
le spalle con un sorriso non serve. Il problema c’è.
Se all’essere umano occorrono limiti per pensare,
cesure, che si potranno trattare ora come barriere insuperabili,
ora come inviti ad andare al di là, e infine come
solchi sottili, ma utili, per istituire fruttuose dialettiche
tra assoluto e relativo, eternità e tempo, ultimo
e penultimo, allora si potrà pure dedicare un numero
di «Filosofia e Teologia» a questa ginnastica,
a questo singolare gioco di rinvii. Gioco, nel quale la
teologia si trova a proprio agio, o almeno così
sembra, per via della sua lunga abitudine a confrontarsi
con il tema del rinvio, mentre la filosofia, o almeno
la filosofia che opera senza sussidi soprannaturali, ha
coscienza della propria provvisorietà, della provvisorietà
delle cose che dice e delle cose che fa. Le due prospettive
però si intrecciano, nella misura in cui tanto
la teologia quanto la filosofia istituiscono un ideale
punto di crisi dal quale intendono considerare in modo
più o meno ottimista l’intera realtà.
Punto di crisi, che è anche un punto di resistenza.
Non si può pensare se non ci si contrappone a un
elemento negativo, che occorre superare, aggirare, scavalcare,
o sfruttare – in ogni caso accettare e respingere
insieme. L’indifferenziato non è mai altro
che un puro punto di partenza, fortunatamente già
superato. Quello che conta invece è l’elemento
della lotta, del rigore, che è in sé e per
sé penultimo, perché proteso in avanti,
dinamicamente piegato come un arco che deve scoccare la
freccia e cogliere il bersaglio, col rischio inevitabile
di mancarlo. L’elemento penultimo ha bisogno di
alternative, di scopi, e diventa così il vero elemento
umano.
Nella nostra cultura il «penultimo» riceve
una connotazione speciale a contatto con l’escatologia
ebraica e cristiana. Abbiamo qui prima di tutto da dare
atto di un evoluzione del problema. Ma l’evoluzione
tocca vari punti e finisce per trasformarsi quasi in una
vera e propria critica della ragione teologica. Perché
quel che prima sembrava solo provvisorio e terreno di lotta
(agone) transeunte, rispetto a una realtà definitiva
e trionfante, benefica per molti, se non proprio per tutti,
e ben meritata dopo le lotte, acquista con il tempo e l’evolvere
delle epoche una nuova consistenza e validità. La
teologia continua a servirsi dell’Ultimo, ma per valorizzare
il penultimo. Ben diceva Bonhoeffer: guai a scavalcare le
cose penultime per arrivare subito e direttamente alle cose
ultime. L’importante sta qui, non là. Essenziale
è il modo con cui qui ci comportiamo. Nessuna «grazia»
ci esime dalla lotta. Conta il rapporto tra le cose penultime
e le ultime e questo rapporto è il luogo del nostro
esistere. Certo le cose ultime si attendono, si sperano,
ma lo sguardo non va oltre quelle penultime. Proprio l’occhio
della fede vede con acutezza il penultimo, l’ultimo
non lo vede e perciò crede, come diceva già
un verso di Lutero. Fede e visione si oppongono. Una parte
dei teologi dirà con Rothe, ad esempio, che vediamo
confusamente le cose umane, bene invece quelle divine, che
ci guidano provvidenzialmente; un’altra parte invece
dirà al contrario che ci sfuggono le entità
divine nella loro assolutezza, benché esse siano
indispensabili per regolare le cose penultime. Si possono
conoscere le cose ultime soltanto attraverso il lavorio
che ce le fa percepire nell’uso, e non in se stesse.
Ma Agostino ci ammonirebbe a non confondere uti e frui,
l’uso e, invece, la contemplazione pura. Pascal da
canto suo intimava di non considerare il presente come uno
scopo, ma di guardare sempre avanti verso il fine ultimo,
come esseri in divenire (Pensées 172). Questo divenire
diventava, poco alla volta, sede del nostro vero essere.
La teologia dell’incarnazione doveva in qualche modo
rivendicare la terra, il tempo, il mondo storico, contro
il pericolo rappresentato dalla sua stessa luce, la teologia
evasiva, soprannaturale, opprimente, troppo saputa. Blumenberg
ha ricordato varie volte questa svolta che egli considera
tipica del mondo moderno. Lo sguardo non si volge più
in alto, si volge in avanti. La trascendenza assume i contorni
del nuovo; l’eterno diventa motore di una dinamica
temporale. In tutto questo, il penultimo assume sempre più
importanza.
La conquista del terreno da parte della teologia non avviene
senza opposizione alla minaccia sempre presente e incombente
dell’Ultimo. Si conserva un dualismo mitigato, rifiutando
un dualismo di principio ed anche ogni monismo; si sollecita
un Dio che in definitiva renda possibile non solo il penultimo,
ma la creazione stessa come mondo di pieno significato.
L’ultimo è infine garanzia del penultimo, ma
allora qual è il criterio interno del penultimo?
È il penultimo stesso o esso manca di criterio? Sorge
allora la domanda circa una legge riconoscibile del penultimo.
Non dovrebbe essere essa stessa penultima? Non è
forse una buona sfida per l’umanità e una sfida
da accettare in pieno, quella di costruire un’etica
del penultimo, intendendo con ciò un’etica
che stia dentro i confini della semplice ragione e che accetti
dunque un limite quale condizione a se stessa? Vi è
certo una sfida da raccogliere. Il numero della rivista
che presentiamo nella sua parte tematica, benché
frammentario (non potrebbe essere diversamente) si inserisce
con saggi specifici nelle tematiche sopra ricordate. Armido
Rizzi insiste sulla creazione stessa come mondo di pieno
significato. Dopo il contributo introduttivo di Rizzi, il
contributo di Marco Goldoni verte sull’etica della
resistenza. Tema tipico della presenza di una doppia esigenza.
Distingue tra resistenza alla tirannia e resistenza che
deriva dallo stesso atto di ribellione alla tirannia e ne
riprende la responsabilità tradita. Andrea Cavazzini,
traendo spunto da Blumenberg, si interroga sulla volontà
umana di autoaffermazione e di onnipotenza e rivendica quindi
uno spazio al penultimo in quanto esso, opponendosi all’onnipotenza,
resta in fondo più umano e anche meno distruttivo.
Il tema del confine qui viene chiaramente indicato. Manuel
Rossini trae spunto da Löwith e sta nella linea tracciata
da Rizzi: conquista di una posizione mitigata, condanna
di estremismi ed eccessi. Porrei delle riserve a proposito
del fatto se i giudizi attribuiti a Löwith colgano
con esattezza la problematica di Bultmann e Gogarten. Franco
Toscani ricorda cosa disse Bonhoeffer a proposito dell’etica
della responsabilità, mostrando che cosa sia sempre
valido e in quale prolungamento. Infine Ilaria Vellani ricostruisce
attraverso vari secoli la questione della resistenza all’autorità
(Goldoni in una nota la richiama) e il passaggio alla assunzione
della responsabilità da parte dei cittadini (con
limiti). Sì, anche questa mi pare una tipica questione
del penultimo. Certamente il penultimo è costituito
da una mancanza dell’ultimo, dall’inevitabile
carenza di una soluzione.
Che ne facciamo di questo «penultimo»? È
problematico, l’abbiamo capito, è malgrado
tutto necessario; è revisionista, riformista, insufficiente
per sua stessa natura, ma anche innovatore e progressista.
Delineiamo allora francamente questa tesi, se è questo
che ci sta a cuore. Comunque anche qui vale in sostanza
la tesi di tutto il numero: esortazione ad assumere una
responsabilità precaria. Non fidiamoci però
troppo di un appoggio fornito dalla teologia cristiana o
di un richiamo a “Cristo” come solutore di ogni
problema e invocato retoricamente quale formula risolutiva.
Chiediamoci almeno se equivale a sostenere una assolutezza
trovata o a puntellare una decisione precaria. Il numero
presenta tessere di una discussione molto vasta e indica
le due prospettive fondamentali del «penultimo»:
da un lato la provvisorietà, che dovrebbe essere
spinta fino a una esplicita approvazione alla mancanza di
una soluzione al «problema» posto (nella fattispecie
vari problemi posti); dall’altro l’invito alla
resistenza, che è tutt’uno con lo slancio e
l’apertura a un fine ulteriore.