Nell’individuazione
di questo tema ci ha guidato un’ipotesi: far interagire
due nozioni così impegnative, per molti versi sfuggenti
e polisemiche, come corpo e trascendenza, in modo da invitare
la riflessione filosofica e quella teologica a lasciarsi
sorprendere dai legami di segreta complicità che
queste due cifre sanno intrecciare. Si tratta, diciamo
subito, di esplorare un orizzonte non compromesso da forme
pregiudiziali di dualismo, destinate ad assegnare al corpo
il ruolo di elemento limitante e ostacolante che la trascendenza
utilizza solo per disfarsene. Non più, dunque,
il corpo costitutivamente trasceso – “segno”
e insieme “prigione” dell’anima - della
cui impronta plurimillenaria (orfica, pitagorica, platonica),
in vario modo innervata nelle radici greche della cristianità
medievale e moderna, il nostro pensiero fa ancora fatica,
malgrado tutto, a liberarsi. È in questione invece
la ricchezza intrinseca di senso e di responsabilità
che il corpo può rivelare come insostituibile risorsa
offerta alle vie comunicative e relazionali dispiegate
dal trascendere. Di quale corpo, allora, si vuol parlare?
Certo del “corpo che siamo”, “abitudine
primordiale” (Merleau-Ponty) condizionante il nostro
intero esserci, “primo medium che ci apre
al mondo” (Wiegerling). Non sperimenteremmo, però,
e non riconosceremmo questo medium come Leib
se non fosse già, in molti modi, impregnato di
trascendenza: sia in quanto radica la nostra identità
in una provenienza altra che ci costituisce – il
generarsi di una vita carnale naturalmente trasmessa e
insieme socialmente accolta - sia in quanto consente ed
esprime la nostra vocazione a sporgere verso altro, il
nostro esistere per l’apertura. Un corpo, dunque,
avvertito da ciascuna esistenza come “corpo proprio”
mentre rimane segnato da un non disponibile destino di
natura e di socializzazione e rimane coinvolto nella spossessante
avventura comunicativa con le cose, con gli altri, con
il mistero. Corporeità marcata dalla trascendenza
e votata alla trascendenza.
Se si chiede poi a quale trascendere si fa qui riferimento,
non possiamo che rispondere evidenziando un circolo: si
tratta di un trascendere che a sua volta invoca il corpo,
reclama il localizzarsi del corpo, la sua inalienabile
concretezza, storicità, effettualità, il
suo anelare e patire, il suo fiorire e la sua fragilità,
affinché a queste condizioni si produca significato,
si dischiudano il simbolo e la comunicazione. Affinché,
in fondo, l’alterità del divino e l’alterità
dell’altro uomo possano interpellare ogni identità
mantenendola nel suo originario esser-fuori da sé
e, così soltanto, in cerca di sé. Il circolo
di corpo e trascendenza mette quindi anche in primo piano
l’enigma della corporeità: come avviene che
il corpo, restando quel che è, vissuto per quel
che è, possa generare uno spazio simbolico, farsi
gesto, racconto, memoria? E com’è possibile,
viceversa, che solo in quanto compromesso nel simbolo,
il corpo possa restare quel che è: fatto di organi,
articolato nello spazio fisico, esposto, come ogni pezzo
di natura o d’arte, al tatto, alla vista, all’olfatto;
ma perciò anche feribile, mutilabile, godibile,
mortale? La stessa opposizione Körper/Leib,
per alcuni aspetti figura estrema del dualismo, va intesa
come una dicotomia o si rivela una polarità irrinunciabile?
Rispetto alle implicazioni e ai problemi appena accennati,
su cui una vasta parte del pensiero attuale, soprattutto
quella più sensibile alle lezioni della fenonomenologia
e dell’ermeneutica, è da tempo al lavoro,
gli interventi che seguono tentano di tracciare un percorso.
Non certamente l’unico possibile: molti altri se
ne potevano intraprendere (e forse varrà la pena
di farlo in futuro). Questo percorso intercetta, ci sembra,
significativamente - sebbene non per scelta programmata
ma per una ragione interna alla cosa stessa - la tematica
che da tempo - a partire da Tramonto o trasfigurazione
del cristianesimo? - è all’attenzione della
Rivista e che ha sollecitato molti di noi a interrogarci
su quanto di ancora inedito, di problematico, di aperto
a ulteriori sviluppi, può comportare l’incontro
fra cristianesimo e cultura contemporanea. Non è
possibile, infatti, toccare il circolo di corpo e trascendenza,
né lasciarsene sorprendere senza chiamare per ciò
stesso in causa quella che A. Gesché, in un saggio
apparso postumo nella "Revue théologique de
Louvain" (35, 2004), ha chiamato l’“invenzione
cristiana del corpo”. L’invenzione prende
forma dalla novità dell’annuncio: Il
Verbo si è fatto carne. Sebbene la sua verità
sia in ultimo consegnata al mistero, data in custodia
alla fede della comunità dei credenti, questo annuncio
resta offerto alla parola e alla ragione; non cessa di
“avere spazio tra i discorsi degli uomini”.
Spazio che si disegna nell’incrocio di due indicazioni:
quella di un “corpo capace di Dio”, quella
di un “Dio capace della carne”. Nel loro reciproco
implicarsi, esse bastano a istituire un nuovo orizzonte
di intelligibilità antropologica e teologica, dove
è gia dissolta, o in qualche modo decostruita,
la cifra platonica del soma/sema. L’invenzione cristiana
del corpo ha così per un verso il respiro di una
nuova, inedita, produzione di senso, un nuovo investimento
simbolico, un nuovo modo di orientare la “sineddoche
del corpo”. Al tempo stesso però ha il valore
del ritrovamento di qualcosa che era già là
in attesa d’essere manifestato, qualcosa che struttura
il modo d’essere dell’uomo stesso e ne esprime
il costitutivo legame con la trascendenza. Per questo,
secondo Gesché, l’inesauribile scoperta del
corpo alla luce dell’evento dell’incarnazione
non solo consente l’unica maniera fedele di accostarsi
alla rivelazione cristiana, ma offre anche una provocazione
con cui il pensiero come tale si ritrova a dover fare
i conti. In altri termini, se è necessario farsi
attenti al corpo per pensare il cristianesimo, bisogna
chiedersi, in pari tempo, se non sia decisivo misurarsi
con il cristianesimo per pensare il corpo.
Sul crinale di questa duplice simultanea esigenza di ricerca,
si muovono, ci sembra, i sette articoli che compongono
la parte monografica del fascicolo: alcuni sono anche
frutto di un lavoro di confronto e di scambio svoltosi
all’interno della redazione palermitana, altri sono
stati oggetto di discussione durante una giornata di studio
promossa a Palermo nel maggio 2004. Come si è accennato,
il tema dell’incarnazione, già altre volte
trattato dalla rivista, resta nelle indagini qui presentate
un riferimento essenziale, anche quando non è esplicitamente
assunto come punto di partenza o angolo di visuale privilegiato.
Da esso prende incisivamente avvio l’originale rivisitazione
del prologo giovanneo attorno alla quale si costituisce
la proposta teorica di Vitiello. Proposta che intende
ribaltare la cifra greca del corpo costitutivamente trasceso
(di cui viene rilevata la persistenza fino a Husserl e
a Heidegger) nel disegno teologico e antropologico di
una invalicabile trascendenza del corpo. Non si tratta
solo di far emergere, in questo rovesciamento, l’inadeguatezza
della ragione occidentale a cogliere le dimensioni di
enigmaticità, di passività, di consegna
ad “altro” che determinano intimamente il
vissuto corporeo. Nel discorso di Vitiello, che scava
a fondo nel rapporto tra pericoresi trinitaria ed evento
dell’incarnazione, il senso indisponibile della
corporeità rinvia alla trascendenza stessa del
Padre nei confronti del Figlio. Nell’incarnazione
la trascendenza del corpo non è tolta, dunque,
ma radicalizzata. Non è la carne ad essere sollevata
fino alla Parola; piuttosto, nel Verbo incarnato - in
un mistero di separazione che è insieme un nesso
insondabile di separazione e comunione - il corpo diviene
“icona del corpo sacro del Padre”.
Il motivo della trascendenza del corpo e del distacco critico
delle categorie antropologiche del pensiero greco acquista
una diversa intonazione nei saggi di Gamberini e Scordato.
Entrambi assumono come termine iniziale di confronto la
concezione biblica dell’uomo, convergendo poi sulla
messa a fuoco dell’”inaudito” che comporta
la significazione riconosciuta al corpo dall’evento
dell’incarnazione. Il fatto che la rivelazione del
divino abbia come luogo di “convenienza” comunicativa
e di potenza salvifica la “carne”, sconvolge
il lessico e le prospettive ermeneutiche non solo del mondo
greco ma dello stesso mondo ebraico, dove la concezione
della corporeità, pur ambientata in un quadro antropologico
fortemente unitario, è segnata da una percezione
della caducità del basar che finisce col rendere
l’esperienza della carne esperienza di un rinvio nostalgico
dell’umano alla trascendenza quale “differenza
di Dio”. Lo scandalo portato dall’autodonarsi
carnale di Dio - dalla notizia che il dabar Jhwh senza smentirsi
può assumere limite e precarietà, che la sarx
può diventare dimora degna del logos - costringe,
per un verso, a pensare in termini radicalmente innovativi
la dimensione storico-corporea dell’esistenza, per
altro verso a guardare al Dio di Gesù Cristo come
al Dio eternamente rivolto all’uomo. L’alleanza
fra trascendenza e corporeità svela che nella carne
e solo nella carne Dio può rivelarsi “essere
di umiltà” (Gamberini), può manifestare
la sua identità “esodale”, il suo uscire
da sé per noi. Nel “corpo dato per voi”,
cifra decisiva del dono dell’incarnazione, la carne
crocifissa e risorta si fa cammino di Dio verso l’uomo,
in una estrema densità di implicazioni ecclesiali,
sacramentali ed escatologiche (Scordato).
Da un versante non direttamente collegato a temi teologici,
anche il contributo di Piana insiste, in nome di una più
rigorosa fedeltà fenomenologica al vissuto corporeo,
sulla messa in crisi della concezione cosale e oggettivante
del corpo che attraversa l’intera storia del pensiero
occidentale e condiziona anche alcuni sviluppi del pensiero
fenomenologico del novecento. Va per questo denunciata
la curvatura “nichilistica” di gran parte
del discorso filosofico attuale, che continua ad assumere
il corpo come il “sempre superato” (Sartre),
il sempre trasceso, perdendo di vista sia il carattere
imprescindibile e irriducibile dell’autoaffezione
corporea quale vivente sentir-si della carne, sia la prospettiva
etico-relazionale a cui l’autoaffezione stessa è
ordinata in quanto già sempre in rapporto con l’altro
in me e con l’altro fuori di me (secondo una lettura
fenomenolgica che si richiama a Merleau-Ponty, Henry e
Marion). Il riferimento ad Henry diviene tematico nel
saggio di Caldarone, dove è esplicitata l’affinità
tra messaggio cristiano e fenomenologia del corpo. trascendenza.
Caldarone valorizza una possibile connessione tra l’evento
religioso dell’incarnazione e alcune esperienze
filosofiche e letterarie del nostro tempo, che avvertono
fortemente l’esigenza e insieme la difficoltà
di portare il corpo alla parola. Fra il corpo e la parola,
infatti, si instaura una sorta di “contatto agonico”
la cui posta in gioco è evitare che il corpo perda
ciò che più incisivamente lo caratterizza
e cioè la resistenza all’oggettivazione e
l’estraneità ad ogni determinazione categoriale.
Da qui l’opportunità di cogliere nella proposta
di Henry anche il senso di un “farsi parola della
carne” che eccede la dimensione apofantica del logos
e riscopre un suo possibile paradigma nella parola poetica,
dove a trovare articolazione è la sofferenza stessa
della carne, e non già solo la sua “rappresentazione”
.
Il tema del corpo patiens, che nella malattia e in ogni
situazione esposta alla ferita viene sperimentato come invalicabilmente
“proprio” in quanto insieme irrimediabilmente
“fragile”, è ulteriormente esplorato,
in contesti diversi ma significativamente collegati, nei
saggi di D’Addelfio e Lupo. Per D’Addelfio,
il tema della vulnerabilità, che ha caratterizzato
il sorgere stesso della bioetica, chiede di rimanere criterio
determinante di orientamento nell’ambito dell’etica
della vita, in essenziale dialettica con il principio di
autonomia. Quest’ultimo, connesso al diritto del soggetto
di gestire in forma libera e inalienabile la propria salute,
rischia, se isolato e assolutizzato, di trascinare con sé
l’idea-finzione che i soggetti umani si incontrano
innanzitutto e soprattutto come “adulti competenti”
impegnati a contrattare paritariamente spazi di indipendenza
e di proprietà. Riscoprire il principio vulnerabilità
vuol dire invece riscoprire quanto profondamente la passività
e non il mito dell’autosufficienza costituisca la
nostra carnale finitezza, e con ciò restituire pieno
significato ai legami responsoriali del dare e ricevere
cura, che attestano come il corpo sia chiave di volta di
un vicendevole dipendere e affidarsi posto alla base del
co-esistere. Lupo tenta invece, in stretto dialogo con il
pensiero di S. Weil, una radicalizzazione del senso della
vulnerabilità in chiave di ermeneutica della condizione
creaturale. La sfida a non rendere marginale, a prendere
sul serio la sofferenza, deve fare i conti con l’avvertimento
drammatico che il corpo sofferente sembra negare la bontà
della creazione, diventando “velo che fa da schermo
tra noi e Dio”. Eppure l’esperienza del corpo
sofferente quale barriera – lacerante contraddizione
tra corpo e trascendenza - può cedere il posto all’esperienza
del corpo come “intermediario”, luogo privilegiato
di apertura alla trascendenza: il silenzio del corpo sofferente
infatti parla lo stesso linguaggio del silenzio abissale
di Dio, del Dio che si ritrae, nella creazione, affinché
sia possibile l’alterità della creatura.
Crediamo che questo rapido resoconto basti a mostrare quanto
fortemente i diversi contributi, pur battendo spesso piste
del tutto indipendenti, giungano a richiamarsi l’un
l’altro. In questo senso si è parlato prima
di un “percorso”. Senza che questo esito possa
dirsi voluto, essi finiscono per evidenziare un gioco di
reciproca sollecitazione fra cristianesimo e cultura contemporanea.
Per un verso la provocazione portata dall’annuncio
cristiano dell’incarnazione può oggi incontrare
una nuova sensibilità grazie a risorse interpretative
maturate da un cultura e da un filosofia che hanno saputo
superare forme tradizionali di ingabbiamento della corporeità,
contribuendo in particolare a sciogliere ambiguità
e contraddizioni che hanno caratterizzato la stessa storia
del cristianesimo. Per altro verso questa nuova sensibilità
non può forse fare i conti fino in fondo con se stessa,
con le radici e le prospettive della sua maturazione, senza
ritrovarsi già inquietata dall’immagine di
un “Dio di carne”, un Dio vulnerabile che ha
rinunciato a colmare il nostro bisogno di rassicurazione,
ma non ha rinunciato all’incondizionatezza della sua
pretesa di comunicarsi. Il Dio che si comunica, il Dio che
ci si comunica a partire dal corpo, interpella senza scampo
la parola dell’uomo. E qui si riaccende un possibile
fronte critico: la dimensione della corporeità aperta
che viene in tal modo alla parola non può essere
in alcun modo né “totalizzata” né
resa “totalizzante”. Viene messo cioè
in discussione sia il modello dell’invenzione “tecnologica”
del corpo – che vuole un corpo manipolabile, rifabbricabile,
spogliato e rivestito di senso a piacimento – sia
ogni rivalutazione/esaltazione della corporeità a
carattere autoreferenziale - dove il corpo appare ripiegato
su se stesso, sottratto a ogni rinvio, reso nuovamente prigioniero
questa volta delle pulsioni e degli insindacabili desideri
soggettivi di autorealizzazione. Forse torna proprio qui
in gioco, con tutto il suo peso di problematicità
e il suo risvolto drammatico, la contrapposizione paolina
o anche giovannea fra carne e spirito, che, proprio alla
luce dell’evento dell’incarnazione, permette
di denunciare l’opacità, la chiusura, di un
“corpo di carne” visto come “corpo di
peccato”, la tragica sordità di un preteso
intendere che si ostina a “giudicare secondo la carne”.