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Beatitudine e scandalo della povertà

Editoriale fascicolo XXXVII, 2 (2023) , pp. 177-185

Così si esprime Papa Francesco in un’omelia dedicata alle Beatitudini: «Le Beatitudini soltanto si capiscono se uno ha il cuore aperto, si capiscono dalla consolazione dello Spirito Santo», mentre «non si possono capire con l’intelligenza umana soltanto»[1]. Siamo richiamati ad una comprensione più ampia o, come dice Paul Ricoeur riferendosi a Pascal, ad una considerazione di un altro ordine, sovrannaturale appunto[2], perché spiega il filosofo francese i macarismi appartengono alla costellazione di discorsi che rivelano una dimensione attiva e passiva, in quanto sono «espressioni letterarie che si possono raggruppare attorno alla lode»[3].

L’annuncio delle Beatitudini conosce due versioni, che offrono ciascuna motivi differenti di riflessione sul tema della povertà, quella dell’evangelista Matteo e quella dell’evangelista Luca (Mt 5,1-10; Lc 6,20-23). Come è stato osservato: «Le forme sono diverse, il messaggio è identico. Mentre in Matteo l’invito è a quanti vogliono farsi poveri (Beati i poveri di spirito), in Luca Gesù si rivolge ai discepoli che hanno già fatto questa scelta (Beati voi poveri, Lc 6,20) e hanno lasciato tutto per seguirlo (Lc 5,11)»[4].

La povertà evangelica per un verso rimanda alla ricchezza spirituale e alla possibilità di essere posti dinanzi alla opzione fondamentale, ossia alla disposizione che l’essere umano credente è chiamato ad assumere dinanzi alla trascendenza per dirigere la propria esistenza terrena, per l’altro è scandalo, come osserva Armido Rizzi al quale è dedicato  questo numero, e segnala le anomalie di una società che, dinanzi alla persona fragile, non è in grado di assicurarle la possibilità e le condizioni per realizzare una sua più piena fioritura.

La possibilità di scoprire e mostrare nei poveri e derelitti del Vangelo un altro modo di essere che, come nel caso della malattia di cui parla Paul Ricoeur, consente ad ogni persona di misurare il proprio benessere con se stessa «in funzione del proprio orizzonte di performance con i suoi criteri personali di effettuazione e di valutazione»[5], non deve sollevare nessuno dalle proprie responsabilità. Come annota Papa Franscesco nella Laudato si’, i problemi ecologici del nostro tempo, che nascono sempre da più gravi problematiche etiche e antropologiche, devono essere affrontati con urgenza perché il loro aggravarsi pesa soprattutto sui poveri e i bisognosi che devono essere sollevati dalle gravi forme di deprivazione. Ad esempio il Pontefice ricorda che «questo mondo ha un grave debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità»[6].

Un primo nucleo riflessivo può essere fatto ruotare attorno al riconoscimento secondo il quale l’idea evangelica della povertà si associa all’idea di pienezza della vita spirituale che si regge e, per certi versi, cresce quando si vive dedicandosi all’essenziale e al mantenimento dell’equilibrio delle relazioni che viviamo con noi stessi, il divino, la casa comune e gli altri esseri umani con i quali condividiamo responsabilità e compiti di cura che, da sempre, ci permettono di rivelare il nostro essere delle creature umane. Si potrebbe dire che da una parte, come per l’idea della malattia, anche la povertà è una polarità negativa di un positivo, in questo caso la ricchezza e, come per il binomio salute-malattia anche per quello ricchezza-povertà, il bene della seconda polarità può essere scoperto e apprezzato anche percorrendo una via diversa rispetto all’idea comune e condivisibile che ne ricerca unicamente la sua eliminazione. Un altro aspetto sembra accomunare significativamente e evangelicamente malattia e povertà: il processo di autoesclusione. In entrambi gli ambiti spetta alle istituzioni, mediante le relazioni che sono in grado di attivare, di «compensare il deficit di stima di sé e di coraggio d’essere» di tutti gli esseri umani «per mezzo di una sorta di stima doppia e sfaldata» che Ricoeur chiama «stima di sostituzione e di supplemento»[7].

In questo senso, come la ricerca medica s’impegna per sconfiggere la malattia, al fine di correggere il negativo, affinché tutti gli esseri umani possano vivere a lungo, in condizioni adeguate per il loro ben vivere e ben essere; così le società e gli Stati dovrebbero, come recita anche il nostro dettato costituzionale: «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»[8].

Del resto si potrebbe anche ammettere che proprio la condizione di bisognosità, che contrassegna lo stato di malattia, come di povertà, rivela il proprio dell’essere umano e, al contempo, indica anche uno stile, un modo di essere e stare al mondo, ma d’altronde serve anche a smascherare i numerosi e nocivi meccanismi di esclusione di cui sono vittime le persone fragili (per non utilizzare una odiosa espressione che è miseria, che andrebbe riqualificata non foss’altro che per il rimando a dei sentimenti nobili come la misericordia o la compassione). Come ricorda tra gli altri Papa Roncalli, la stessa vicenda di Gesù rivela e insegna quale debba essere lo stile e il modo di porsi del credente, va ricordato che «Gesù […] nasce poverissimo bisognoso di tutto, non ha neppure i panni che lo ricoprano. Deh! quale povertà! Ed io si miserabile qual sono e indegno d’ogni bene avrò il coraggio di lamentarmi perché son nato povero, da genitori poveri e non mi vivo e non mi vesto che per l’altrui generosità? Non devo io anzi consolarmi e congratularmi assai con me medesimo e ringraziare di cuore il mio Gesù poiché in questo almeno mi torna facilissimo l’imitarlo? Ardirò di fare il minimo desiderio di essere meno povero?»[9].

In secondo luogo occorre ammettere che non si tratta di sterile pauperismo, bensì di un criterio ermeneutico per leggere la nostra esperienza, il nostro vivere. Ad ogni credente dovrebbe essere chiara la via che ha dinanzi a sé e che, quotidianamente, ha necessità di scegliere e percorrere, con coraggio, una via nella quale è chiaro che vi sia uno scarto tra la tensione ai beni e quella che invece ci proietta nella direzione del Bene. Vivere secondo il modello della semplicità evangelica e dell’essenzialità, avverte Leon Dufour, «non deve far dimenticare il valore religioso della povertà effettiva, nella misura in cui essa è segno e mezzo di distacco interiore. Questa povertà materiale è buona quando è ispirata dalla fiducia filiale di Dio, dal desiderio di seguire Gesù, dalla generosità nei confronti dei nostri fratelli»[10].

Se per un verso la povertà esige lo sforzo per il suo superamento, per l’altro ha bisogno di essere accolta come possibilità e altro modo di stare al mondo, basti pensare al valore che assume per gli ordini monastici, maschili e femminili, la cui scelta di vivere nella povertà rappresenta un valore supremo di chi decide di consacrare tutto a Cristo e alla Chiesa. Come ricorda anche Papa Francesco: «La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio»[11].

Si potrebbe affermare, come ammette Agostino d’Ippona, che serve riconoscere ciò che ci è chiesto di apprezzare: l’ordine tra mezzi e fini, disvelantesi dall’essenza stessa dell’Amore. Attraversando l’amore, nelle varie esperienze di vita, abbiamo la possibilità di avvertire ciò che deve essere amato come un bene in sé e ciò che, invece, può essere amato solo in vista di altro da sé. Da qui si rivela l’orizzonte di possibilità che è dato all’essere umano: amare in modo da mettere al primo posto i beni, il mondo, la sua realizzazione sociale ed economica, finendo, a volte, inevitabilmente, per perdere il senso di tutto ciò che sta oltre il possesso, oppure amare il bene comune, il benessere sociale e l’attuazione di una comunità più vivibile ed umana, perché non dominata dalle volontà egoistiche, ma dalla comune volontà di realizzare il benessere di tutti e per tutti, una comunità che si riconosce nei valori più alti e che sia capace di permettere a chiunque di sentirsi rispettato nella sua essenziale dignità. Come ha ben mostrato il vescovo di Ippona amore retto o perverso sono anche all’origine delle due città (De civ. Dei, 14,28). Per lui la dottrina delle due civitates, avverte Ratzinger, «non mira né ad una “ecclesializzazione” (Verkirchlichung) dello Stato né a una “statalizzazione” (Verstaatlichung) della Chiesa, ma in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine»[12].

In definitiva ammettiamo che, sia individualmente che socialmente, Cristo è il riferimento e il modello, la sua carne fragile segnala una verità e un compito: come Egli, nel suo venire al mondo, indica la bellezza racchiusa nel mistero di un essere che si dona e si fa piccolo per annunciare al mondo il messaggio d’amore e di riconciliazione per la salvezza di tutti, così ciascuna persona nell’approssimarsi alla persona nella sua vulnerabilità, nel riconoscerla degna e meritevole di cura e di rispetto, si conforma al modello e nel tenere lo sguardo fisso di Lui, solleva i poveri, fratelli e sorelle, dall’indigenza ingiusta e orrenda a cui li ha costretti una società incapace di riconoscere la dignità e la bellezza racchiuse nella fragilità.

Il volume raccoglie alcuni contributi ispirati alla riflessione condotta da Armido Rizzi intorno alla povertà, scandalo e beatitudine e, nel ricordare il valore della sua riflessione, invita alla riscoperta dell’opera del teologo pavese. Al pensiero di Armido Rizzi è dedicato in particolare il saggio di Fabrizio Fabrizi che ricostruisce la riflessione di Rizzi sulla povertà di cui viene percepita la trasversalità in tutto il progetto di teologia alternativa da lui elaborato. Ciò che risalta è proprio l’intento che nell’ermeneutica rizziana costituisce il nucleo portante della sua teologia dell’alterità «dove Dio chiama l’io agente a farsi responsabile del povero non con un amore di assimilazione (l’eros della filosofia greca) ma con un amore di servizio». La peculiarità dell’impostazione rizziana che, come viene ricordato, è sia attento ermeneuta della Bibbia che fenomenologo dell’esperienza, risalta nel distacco tanto dal cattolicesimo quanto dal protestantesimo che Rizzi realizza nel pensare «la creazione a partire dal principio della responsabilità etica propria della relazione di alleanza, dove l’amore a Dio […] – sarebbe da intendere – come adesione della volontà umana alla volontà di liberazione di Dio a favore dei miseri, considerati sia individualmente e sia come parte di un sistema sociale alienante e bisognoso esso stesso di liberazione».

Nel prendere le mosse dall’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, come prima attualizzazione del Concilio rispetto al tema della ‘teologia dei poveri’ di Papa Francesco, Jean Paul Lieggi mostra la profonda differenza tra l’operare della CEI, dal Concilio ad oggi, e quello della Chiesa dell’America Latina, da cui, come noto, proviene anche Papa Bergoglio. L’autore ricorda la difficile e complessa realtà della povertà dei nostri tempi che, se per un verso rivela il volto ingiusto delle nostre società, per l’altro indica la via per avvicinarci a vivere in profonda comunione con Cristo. L’attuale Pontefice, ricorda Lieggi, si rivolge alla Chiesa affinché riscopra nell’opzione per i poveri un genere di fedeltà al Maestro, chiarendo che «questa attenzione ai poveri la deve vivere con la stessa povertà che ha caratterizzato la vita e il ministero del suo Signore». Anche grazie alla rilettura dell’opera del teologo Jon Sobrino è possibile apprezzare in profondità il senso della definizione dei poveri come «luogo teologico» su cui il Concilio prima e Papa Francesco oggi ribadiscono la necessità di una Chiesa povera per i poveri.

In linea con l’apprezzamento espresso da Lieggi anche Ursula Nothelle-Wildfeuer si sofferma sull’importante lavoro svolto da parte degli interpreti della teologia della liberazione, con particolare riferimento alle tesi di Gustavo Gutiérrez, considerato a giusto titolo come uno dei Padri di questo indirizzo della Teologia contemporanea. A fronte di una sostanziale difficoltà, condivisa da molti, nel circoscrivere la povertà in una singola definizione, quelle offerte dalla Nothelle-Wildfeuer che parla di povertà reale o materiale, spirituale e obbligatoria o necessaria consentono di mettere a tema diversi problemi che vi sarebbero sottesi, così come talune implicazioni di carattere antropologico, economico e più espressamente spirituale. I motivi presenti nell’ambito biblico, vetero e neotestamentario, fanno da sfondo al contesto odierno, perché sintetizzano contrasti vecchi e nuovi tra desiderio della ricchezza e condizione di povertà, successo e marginalizzazione. La povertà spirituale invocata e, per certi versi raccomandata, che Gutiérrez guarda come traguardo della riflessione teologica del Concilio Vaticano II, non ha niente a che vedere con la condizione di estrema fragilità e povertà materiale prodotta dall’egoismo umano. Solo se l’opzione per i poveri si coglie nel suo riferimento cristologico ha senso e può essere via per l’incontro autentico con Dio e strumento di promozione di una forma di equità partecipativa che restituisca ciò che è dovuto a chi è stato tolto.

Per «comprendere il fallimento della concezione di povertà come contro-potere violento», Virgilio Cesarone e Sergio Labate, ripartono dai tumulti del 1525 in Germania esposti dal pastore evangelico Thomas Müntzer, non per un mero esercizio di rimemorazione, ma perché offrono più di un motivo di riflessione sul piano filosofico, storico e religioso. Il dispiegarsi degli eventi fa riverberare il peso di un esercizio del potere che, in taluni casi, sa assumere la forma della prevaricazione violenta ma che, auspicabilmente, osservano gli autori, dovrebbe potersi configurare nella «deposizione di ogni volontà affermativa del potere, per rivestire nell’accoglimento della povertà l’autentica dimensione umana», come espresso anche da J. B. Metz nella sua «Nuova teologia politica». Con ciò viene anche intercettato e rilanciato il vero compito dell’essere umano e rilette le tentazioni evangeliche di Gesù, interpretate come una forma di attacco alla povertà, vera una cifra ontologica dell’umano. Ad essa si oppone la tentazione diabolica di un potere che erge l’umano al di sopra e al di là di ogni forma di debolezza e promette l’infallibile successo in ogni ambito, specie sembra alludere la seconda parte del saggio, quello politico. In questo contesto viene considerata la possibilità che la povertà dispiega di ricomporre un diverso ordine politico non più fondato sull’esercizio del potere, ma in cui si compie un rovesciamento paradigmatico «secondo cui la povertà si comprende a partire dal suo nesso aporetico col potere più che con la ricchezza». Nell’attraversamento del carattere euristico della dialettica tra povertà e potere, la politica lascia il posto, non senza un certo scetticismo, all’estetica della povertà nella formulazione data da Simone Weil.

Sulla frontiera definita dalla povertà s’inscrive anche l’analisi condotta da Luigino Bruni, che si misura anzitutto sull’ampiezza dello spettro semantico, offerto dal termine povertà che che va «dalla tragedia di chi la povertà la subisce alla gioia di chi la povertà la sceglie liberamente facendosi povero per liberare altri da forme di povertà non scelte». I diversi volti della povertà odierna rifrangono una varietà già presente nel Vangelo in cui, tra l’altro, viene accentuato lo scarto tra ricchezza e povertà. Lo scontro sul senso da dare alla ricchezza investe, come Bruni sottolinea, il dibattito teologico dei primi secoli dell’era cristiana, quando un protagonista di primo piano, Agostino vescovo di Ippona ne fece uno motivo essenziale, oltre al tema della grazia, nella controversia pelagiana, conclusasi con la vittoria teologica e pastorale del vescovo d’Ippona che finì per orientare «decisamente la morale economica dell’Europa e quindi la storia dell’Occidente». La preesistente cultura romana, su cui il Cristianesimo si è innestato, ha costretto ad una iniziale visione etica, privata e pubblica, ed economica fortemente improntate al modello romano interrotto solo dall’avvento del Monachesimo, più coerente con la radicalità del dettato evangelico. Ma furono soprattutto la liberazione dalla colpevolezza e la cancellazione dello stigma della povertà le novità di cui si fecero interpreti gli ordini mendicanti, a fondare il welfare europeo. Un modello questo che, oggi più che mai, sembra essere profondamente entrato in crisi con il conseguente e nefasto ritorno al passato nel quale il povero non è più povero e basta, ma viene percepito per certi versi responsabile e finanche colpevole della sua stessa condizione, come mostra l’avvento della logica spietatamente meritocratica dei nostri tempi che «sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la diseguaglianza». Una disposizione diversa oggi però ci è richiesta non solo nei confronti della ricchezza e povertà materiali, ma soprattutto nei riguardi dei beni comuni che chiedono una ridefinizione della postura antropologica che assume la veste della custodia.

Una originaria tensione al bene, «prima radice nella realtà» è anche espressa dalla riflessione di Simone Weil a cui è dedicato il saggio di Iolanda Poma, che mette in primo piano la dimensione della costitutiva miseria a cui l’autrice francese consacra la sua opera. Il tema della Passione di Cristo rimanda ad un processo di kenosi «che anche l’essere umano è chiamato a rispecchiare nella forma della decreazione». Rinuncia, svuotamento e umiliazione sono i presupposti che consentono di comprendere anche le scelte dell’autrice nel suo rendersi sempre più prossima alle condizioni di vita delle persone negli anni dell’industrializzazione e, quindi, dell’alienazione e dell’espropriazione imposti dal sistema capitalistico. La scelta di attraversare con la vita i drammi del suo tempo risponde in Simone Weil anche all’esigenza di sottrarsi ad ogni forma di astrattezza e di condividere l’esistenza degli ultimi, fino a toccare l’estrema e pungente fragilità del più derelitto e più santo: Francesco d’Assisi. Di lui, come sottolinea acutamente la Poma, Weil «esalta la natura poetica del suo legame con la natura, cha ha la sua condizione nella miseria estrema, nel denudamento necessario per un contatto immediato con la bellezza del mondo». C’è disegnata la fisionomia di una povertà spirituale esigente e coerente con il desiderio di privarsi di tutto per manifestare un’autentica e profonda sintonia con Cristo. È lui il centro e il riferimento costante del suo pensare e del suo vivere a cui modella il suo essere fino al dono della sua giovane vita spezzata dalla sofferenza degli ultimi fino a morire per loro e con loro.

Il desiderio di impegnarsi per gli ultimi e la radicalità espressa dalla Weil, sono anche al centro del saggio di Michele Caputo che affronta la figura e l’opera di Don Lorenzo Milani di cui «emerge con forza questa tensione etica della ricerca del “vero davvero”». Il riferirsi in modo critico, ma mai disperante, al contesto politico ed ecclesiale del suo tempo è un tratto peculiare del priore di Barbiana e motiva ancora di più la sua personale e ostinata vocazione verso i poveri. Questa opzione, in effetti, come afferma Caputo, «colta nella sua radice evangelica come criterio identitario, rappresentava un doppio nervo scoperto, tanto sul piano politico quanto sul piano più strettamente religioso». Impegno e testimonianza di vivere nella povertà ed essenzialità evangeliche per essere con quei parrocchiani abbandonati, persone periferiche, cioè lontane da tutte le preoccupazioni politiche ed ecclesiali, persone a cui nessuno dedica attenzione, di cui nessuno ormai si preoccupa più. A loro, i poveri di Barbiana Don Milani decide di restituire la dignità negata istruendoli e, nel contempo, denunciando la condizione nella quale sono stati abbandonati e dimenticati dalle istituzioni, ma c’è di più «perché la sua denuncia non scaturisce da una analisi intellettuale, da una categoria sociologica. Per il cappellano di San Donato gli sfruttati sono volti ben precisi, hanno nomi e cognomi, sono persone con bisogni personali e familiari, sono storie conosciute e vissute insieme». Il riscatto dei poveri e degli ultimi è compiuto in nome di Cristo, perché Lui è il cuore dell’agire pastorale di Don Milani, per liberare quei ragazzi e ragazze dalla marginalità dell’ignoranza, questa è la lezione e la vocazione di un prete nato dalla ricca borghesia toscana che ha dedicato la sua vita a quegli ultimi delle montagne isolate di una frazione di terra dimenticata dal mondo e da tutte le istituzioni.

Marginalità e periferie esistenziali di una piccola frazione o di un continente come l’America Latina sono pur sempre luoghi degli ultimi dove vivono i diseredati del mondo che, come sottolinea anche il saggio di Armando Savignano, anche la teologia della liberazione ha preso in carico con un impegno rigoroso, cercando di armonizzare il Vangelo con le domande e i bisogni degli scarti del mondo, dove si consumano le ingiustizie e si generano gli squilibri sociali che impediscono a intere popolazioni di accedere ai beni necessari per la crescita umana, culturale e spirituale. È lì che la Parola deve risuonare ancora più forte per riconoscere, osserva Savignano, la genesi storica e etico-teologica della diseguaglianza. Un riferimento particolare è riservato al rapporto tra la posizione di Xavier Zubiri e quella di Ignazio Ellacuría e alla sua teologia della liberazione. Ellacuría in particolare, osserva l’autore, ha trovato in Zubiri «la sua principale fonte di ispirazione, che ha tuttavia cercato di ripensare in modo originale ed alla luce dei problemi latinoamericani». L’attenzione nei confronti della realtà storica, espressa dalla riflessione di Zubiri, rappresenta per Ellacuría un punto di riferimento ineludibile perché vi riconosce la condizione di possibilità per la liberazione. Con ciò va anche detto, ammette Savignano che «non solo la prassi storica non è in se stessa liberatrice […] ma non esiste un unico paradigma di liberazione umana, che invece dipende dal contesto storico-sociale in base al quale operare il discernimento». L’approdo di tale analisi consiste per Ellacuría nell’avvento di un nuovo ordine mondiale incentrato nella ‘civiltà della povertà’, che non vuol dire aspirazione al pauperismo, ma ribaltamento di prospettiva: non più una società modellata sul dominio della ricchezza di cui la povertà sarebbe il segno di una patologia, ma la possibilità di riconoscere il realizzarsi di una società liberata e guarita dall’oppressione dell’avere. Si tratta di passare dalla logica dell’avere che crea ingiustizie e ineguaglianze sociali palesi, ad una logica dell’amare che liberi gli esseri umani dalla dipendenza materiale dal consumismo dei beni, innalzandoli verso il godimento del solo bene che rimane e che non genera scarti.

[1] Papa Francesco, L’ipocrisia è la lingua dei corrotti, in Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco, Per capire le Beatitudini bisogna capire il cuore. Omelie da Santa Marta, Rizzoli, Milano 2014, p. 204.

[2] P. Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2003, p. 11.

[3] Ivi, p. 12.

[4] A. Maggi, I poveri nello sguardo di Dio. Le Beatitudini di Matteo, in https://missioni.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/22/2017/05/Alberto-Maggi.pdf, p. 2.

[5] P. Ricoeur, La differenza fra il normale e il patologico come fonte di rispetto, in Id., Il Giusto, 2, Effatà, Cantalupa (TO) 2007, p. 235.

[6] Papa Francesco, Laudato si’, n. 30.

[7] Ivi, p. 237.

[8] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 3 comma 2.

[9] Angelo Giuseppe Roncalli-Giovanni XXIII, Il Giornale dell’Anima. Soliloqui, note e diari spirituali, ed. critica a cura di Alberto Melloni («I diari di Giovanni XXIII - 1»), Bologna 2003, p. 104.

[10] X. Leon-Dufour, Poveri, in Id., Dizionario di teologia biblica, Marietti, Genova 1990, p. 957.

[11] Papa Francesco, Laudato si’, n. 11.

[12] J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Morcelliana, Brescia 2009, p. 111.